Un autore di culto finalmente tradotto / Reza Negarestani, Cyclonopedia

23 Settembre 2021

Immaginate di scrivere un libro nel 2030 e, con un trucco temporale alla Christopher Nolan, di mandarlo indietro nel 2008 e pubblicarlo in sordina. Cyclonopedia di Reza Negarestani è quel libro. Oggi, che arriva in Italia con un ritardo superiore ai nove anni che ci separano dal 2030, siamo nel ground zero schizofrenico da cui rileggere smarriti quelle pagine, pencolanti tra visionarietà prometeica e cascame da fine Impero. Ragionando su La morte di Virgilio e sulla posizione di Hermann Broch, Ladislao Mittner diceva qualcosa di molto più generale sulle dinamiche intellettuali del tardo Occidente: «pur condannando con tanta durezza ogni forma di moderno sfacelo dei valori, egli non sembra aver compreso che di una specie di sfacelo di valori è indice anche la sua mistica che, pur restando profondamente ancorata alle sue origini chassidiche, si sforza di attuare una grande conciliazione di tutte le cifre simboliche dell’anima di tutti i tempi». Negarestani, come Broch, ma in una fase più avanzata del Grande Crollo, registra e contemporaneamente satura di gas infiammabili la bolla mentale del collasso cognitivo in atto, evocando demoni inorganici, materiali anonimi senzienti, geomistiche ctonie, numerologie pseudoscientifiche, cabale succedanee, millenarismi tellurico-apocalittici.

 

E un po’ come i bambini che giocano “ai grandi” mettendosi le scarpe di mamma e papà (come già i deleuziani dopo Deleuze e i foucaultini dopo Foucault), qui da noi i lettori precoci della nuova filosofia antropocenica di Nick Land, Ray Brassier, Mark Fisher e Reza Negarestani, tra tutte le idee che potevano sdoganare hanno scelto proprio la macedonia oscura, quella della micosi mistica, un giardinetto editoriale ad alto tasso di suggestione ma, per ragioni abbastanza chiare, cripticamente reazionario e potenzialmente fascista. Rileggere Cyclonopedia proprio adesso è allora importante per riacciuffare il bambino che sta affogando nell’acqua sporca, per evitare insomma i vicoli ciechi di una parola filosofica che rischia di incartarsi nell’escapismo brumoso di un immaginario dark.

 

Italia. Adesso. Sono le 6 e 35. Il volo Ryanair Bologna-Palermo parte in un vuoto di coscienza. Siamo rimasti ad aspettare in pista per 20 minuti e, con un leggero sussulto, ricordo di avere nello zaino il libro di RN. Mi sveglio di nuovo. Il corpo si è svegliato alle 3 e 40. Doccia. Vestiti. Un piccolo treat notturno al cane chiamato Coco. Il fresco quasi autunnale lungo la via deserta. Quattro nottambuli in bicicletta a vociare all’incrocio laggiù. Poi di nuovo il silenzio. La stazione abbandonata. La navetta. L’aeroporto Mont Blanc-Chanel-Toblerone. L’imbarco. E adesso Cyclonopedia. Un libro troppo nuovo per essere del 2008 e troppo in ritardo per essere tradotto in italiano nel 2021, troppo in anticipo per parlare in questa fase pandemica di catastrofe occulturale, dopo 13 anni di palude editoriale, e troppo arcaico per non innescare una lettura bustrofedica del collasso. Ma intanto ci sono tre incipit in alta quota su altrettanti voli che sono metafora del vuoto d’aria generato dall’Antropocene lungo la tratta Ieri-Domani: Kristen Alvanson, Cyclonopedia; Jim Kripps, The Silence; Makhno Boucher, Negarestani Unbound.

 

 

Nessuno dei tre è una persona reale. Ognuno dei tre è un personaggio che nasconde/rivela qualcuno nell’autoanonimato autoriale. Makhno Boucher, lui, quando si guarda allo specchio vede un cranio alla Kurtz e una barbetta alla Cervantes, ma soprattutto vede il vecchio che sarà a brevissimo. Non resta molto tempo, pensa. Sfoglia le prime pagine. Esita a scrivere a penna, ma alla fine in alto sopra l’indice annota: E. Broch, La morte di Virgilio - M. Taussig, Il mio museo della cocaina. Il primo per dare una spallata alle mistiche di fine Impero eccetera eccetera, il secondo per ripulire l’antropofiction del petrolio di Negarestani attraverso l’antropologia dell’oro di Taussig. L’idea è buona ma non lo farà fino in fondo, perché certi libri non si recensiscono, si mettono sulla fiamma come i Naskapi facevano con le scapole di caribù: il calore brucia capillari, aggredisce l’osso, disegna reticoli, macchie, costruisce la mappa di una terra che non esiste ma che il cacciatore userà e riferirà al paesaggio concreto con un’ostinazione insensata. Cyclonopedia è la scapola carbonizzata del Medio Oriente.

 

Un po’ come con i film di Nolan, molti lettori di questo libro hanno smesso troppo presto di cercare il punto di frattura tra storytelling e finalità antropologica che è a monte del prendere parola. Alcuni hanno detto “ok, qui non ci si capisce niente”, altri hanno preso certi discorsi alla lettera, come se qualcuno, leggendo Morfologia della fiaba di Vladimir Propp, confessasse poi all’orecchio della fidanzata di credere sul serio alla Baba Jaga. Pensare a Cyclonopedia come a un libro scritto nel 2030 e mandato indietro nel tempo è uno shift prospettico come un altro, un giochetto straniante per rimettere a posto le coordinate mentali, per cercare lucidamente qualche paradigma operativo, per sedare il disagio di una lettura incantatoria piena di spoiler antropocenici. In alternativa, un po’ come con Mille piani di Deleuze e Guattari, può essere usato come un’enciclopedia surmoderna, da consultare per voci, o esplorandola per singole immersioni con la tecnica del cormorano.

 

Ma la cosa fondamentale è non perdere mai di vista il quadro generale. Per farlo Makhno Boucher scrive sul bordo di una pagina “I’m Still Here di Affleck”, il mockumentary dove Joaquin Phoenix recita un sé stesso completamente sballato che lascia la carriera da attore e intraprende quella fallimentare di cantante hip hop. Durante i due anni di riprese e promozione, Phoenix rimase sempre nella parte, ingannando tutti, per poi presentarsi perfettamente sobrio, sbarbato e rinsavito alla prima del film. In questo senso, per Makhno Boucher, Cyclonopedia è un librotrappola e il suo autore un mutapelle, un testo che la critica debole ha addomesticato usando la categoria della theory fiction e ammantando Negarestani di un’aura misteriosa e misterica. In qualche modo Makhno Boucher pensa che da questo libro ci si debba difendere, come di fronte a un vaso di Pandora dei Mille Fraintendimenti, ma lasciatasi alle spalle questa iniziale faiblesse emotiva si mette a muso duro nel testo e sottolinea e imbratta i vivagni con note graficamente eccitate.

 

Che cos’è Cyclonopedia? Essenzialmente, un manuale di narratologia antropocenica, un libro che dice come/cosa scrivere sul/nell’Antropocene, e soprattutto un libro che spiega come si può capire l’enigma-Antropocene narrando. Ovviamente le informazioni, le istruzioni per l’uso, non sono reperti di superficie esposti alla luce del sole, bisogna scavare come criptoarcheologi disposti a confondere finzione, azione e retroazione, cioè la lettura riattualizzante del passato storico e antropologico della specie, per maneggiare il minerale liquido come arma e contemporaneamente come una periferica di memoria del grande Sistema Tellurico Senziente. Perché questo possa accadere Negarestani auctor ha bisogno di due cose, un Negarestani agens, il fantomatico dottor Hamid Parsani (che narratologicamente è come Virgilio per Broch) e una personale mitopoiesi materialistico-allegorica, che nel libro si configura come un apparato cosmopoietico in bilico tra fantageologia e petrodemonologia.

 

 

La storia in realtà è molto semplice: un archeologo eretico sempre più fuori di testa trova uno strano oggetto modificabile, la Croce di Akth, e costruisce su di essa una “teoria del tutto” di cui sparpaglia lemmi, frammenti, indizi che Negarestani, fingendosi cercatore di tracce, raccoglie e recupera da articoli accademici che non esistono, manoscritti ritrovati in una valigia sotto un letto, testimonianze di colleghi e allievi di Parsani, speculazioni nerd affidate al dark web. Un po’ alla volta il quadro arriva a qualcosa che somiglia a una superficie: la Terra è un corpo solido traforato, un’entità porosa suo malgrado, l’incubo ultimo della tripofobia, e in questo complesso-buco il petrolio si autoriproduce non come trasformazione geologica di materiale organico fossile, ma come inesauribile alchimia minerale innescata da batteri sepolti. Il petrolio è dunque il grande lubrificatore, il cadavere nero del sole, il blob ctonio, l’innominabile Antico Nemico, il demone inorganico, l’Anticristo tellurico. I suoi flussi oscuri dal buio terrestre caotico alla superficie della storia umana regolano la geopolitica dei popoli, intossicando le masse su scala pandemica. In questo movimento complesso il petrolio come entità chimica e mistica intercetta le due principali forze socioculturali del pianeta, il tecnocapitalismo e il monoteismo abramitico, accelerando il loro progetto estinzionista di desertificare il mondo. Il tecnocapitalismo genera infatti il cambiamento climatico e i dissesti da surriscaldamento globale, il monoteismo radicale ha lo scopo di azzerare orizzontalmente la terra per prepararla al monopolio divino…

 

Makhno Boucher guarda fuori da finestrino. Ustica scivola sotto di lui come una tartaruga rovesciata proditoriamente e cotta dal sole di un agosto irredimibile, infinito. Il libro è chiuso sulle ginocchia, ma pulsa come un corpo senza organi, come la console biologica in eXistenZ di Cronenberg. Ovviamente Parsani-Negarestani non si ferma all’invenzione mitopoietica e non esaurisce il discorso con la declinazione a cascata di tutte le implicazioni geo-petropolitiche del suo pensiero, dalla guerra americana al Terrore ai nuovi radicalismi islamici, ma estrae dal magma oleoso per metterlo a chiave di volta un paradigma dal lungo passato antropologico: la «terra come corpo di narrazioni» e, a corollario, il petrolio come «lubrificante narrativo» dei vuoti. Altrimenti detto, dietro la geomistica di Cyclonopedia, c’è una geofilosofia la cui tradizione profonda permette di fare salti a ritroso sempre più illustrativi.

 

La stratigrafia geo-epistemologica del professor Challenger in Mille piani di Deleuze e Guattari, Une épistémologie de l’espace concret di François Dagognet, la geognostica di Goethe e di Carl Gustav Carus, la protogeologia di Leonardo da Vinci, il De re metallica di Georg Agricola, la Pyrotechnia di Vannoccio Biringuccio, e poi tutta la folkgeology che i popoli di interesse etnografico, da Papua Nuova Guinea al Colorado americano, hanno tramandato come sapere orale forse da età paleolitica: la terra di rocce e sabbie come corpus di potenziali narrazioni, la natura minerale che prende coscienza di sé tramite l’uomo che la pensa, la geologia come pensiero solido che va traforato, scavato, lubrificato per emergere e suggerire a Homo sapiens una visione alternativa del mondo. In questo senso, l’apparato teoretico e neomistico di Cyclonopedia è vecchio come la nostra specie, se è vero che già prima di essere Sapiens sapiens il nostro cervello si è modellato sui paesaggi terrestri per capire i paesaggi terrestri, e per usare i paesaggi terrestri come metafore della complessità. Quello che invece c’è di assolutamente nuovo in Cyclonopedia è l’applicazione di questo antichissimo modulo cognitivo per decifrare in forma di romanzo l’intricata geopolitica del Medio Oriente e, più in generale, per dare una base geologica, geografica, geomantica, geosofica alla filosofia politica globale e, in qualche modo, ai Cultural Studies.

 

 

Lo strappo dei mostruosi pneumatici derivati dal petrolio sulla pista di catrame di Punta Raisi sembra solo l’inizio di un ennesimo soggiorno siciliano. Makhno Boucher non sa che quell’inizio è già la fine, non solo perché la spirale a retroazione di Negarestani lo ha intrappolato in qualche bolla temporale che gin tonic e ghiotta di aragosta non possono far scoppiare neanche in mille anni. Il problema è il contesto, e il contesto è l’Italia del 2021, dove da un lato c’è un’immersione quasi perfetta in un monoteismo culturale del tutto cieco di fronte all’evento-Antropocene, dall’altro i negarestaniani locali guardano il dito e non la luna, un dito nero di olii mistici e una luna pallida e lontana come un futuro ancora troppo difficile da cartografare. Ormai da anni stiamo raccogliendo i frutti dell’etica neoliberista della semplificazione, che non investe tanto chi scrive, è già sotto gli occhi di tutti, ma che aggredisce per osmosi chi legge, tanto che è abbastanza raro trovare nel mundillo culturale odierno un lettore capace di gestire in simultanea non dico finzione e realtà, ma più registri e più livelli, emico ed etico, paradosso e ironia. In questo senso Cyclonopedia di Reza Negarestani è anche un manuale per reimparare a leggere.

 

Però Makhno Boucher non l’ha capito fino in fondo e infatti, a parte postare la copertina su Instagram in mezzo a bicchieri vuoti, ha letto sempre meno, in questi giorni siciliani, fino a quando il prezioso volume della rinascita del pensiero filosofico contemporaneo, un pilastro di fondazione della neogeografia, il vero grande romanzo dell’Antropocene è diventato una macchia nero petrolio spalmata sul comodino di fianco al letto, intonsa, da far distogliere lo sguardo. In quegli stessi giorni il reflusso gastrico ha ricordato a Makhno Boucher un modellino minimo della terra cava e dei suoi olii e dei suoi gas combustibili. Il corpo-paesaggio, quello biologico, quello tellurico, quello testuale, più che spiegarsi a vicenda (come sempre dovrebbe essere) si sono annullati tra loro, in una specie di deserto orizzontale a forma di letto, umidità al 90%, 40 gradi percepiti, le pale della ventola sopra la testa a imitare le trivelle di prospezione. «La Croce di Akth è anche il demonogramma della paleopetrologia e della politica operativa», aveva letto. Sì. Ma nel frigo è finita la birra. E l’inverno nell’Era senza inverno sarebbe la sola salvezza.

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