Robert Kaplan: pensare tragicamente
Senza ordine non vi è società e l’ordine è l’essenza della civiltà. E senza tradizione non vi è ordine né gerarchia. E la gerarchia è la base per l’ordine sociale e politico. Altrimenti si cade nell’anarchia. Ma è davvero così o questi sono solamente luoghi comuni di cui ci nutre il conformismo e la propaganda del potere?
Non dovremmo dire invece che senza un disordine positivo e performativo – non il caos per il caos, ma un pensiero critico che dis-ordina appunto l’ordine ingiusto – non vi è vera civiltà e civilizzazione? Ma poi: quale ordine? Quello meravigliosamente imperfetto della democrazia? Quello apparentemente perfetto dei totalitarismi, delle teocrazie o dell’Intelligenza Artificiale? Quello costruito dalle discipline e dalla biopolitica secondo Michel Foucault – o dallo human engineering oggi digitale? Quello fondato socraticamente su ragione, pensiero critico e dialogo?
Su tutto – e ormai dentro tutti noi – c’è in realtà il potere e l’ordine moderno e postmoderno o ipermoderno della rivoluzione industriale e del tecno-capitale, ben rappresentato da Charlie Chaplin nell’incipit di Tempi moderni (film del 1936), con le masse di lavoratori che escono dalla metropolitana, tutti andando ordinatamente al lavoro, muovendosi come un gregge assoggettato all’ordine im-posto da un orologio, cioè dalla forma e norma matematica e calcolante del pastore-capitale; e dove l’unica differenza tra allora e oggi è che oggi abbiamo lo smartphone, ma sempre il nostro lavoro e la nostra vita sono organizzati, comandati e sorvegliati dal tecno-capitale mediante un dispositivo tecnologico e insieme normativo e conformante che ci detta tempi e modi del nostro dover vivere, un dispositivo fatto credere smart quando è invece alienante come forse mai nella storia umana.
Ma che ordine è quello della tecnica e del capitalismo? Un ordine di progresso o un ordine per sua essenza e tendenza totalizzante, ordinante e disordinante allo stesso tempo, ieri basato sulla schumpeteriana distruzione creatrice e oggi (e peggio) sulla disruption, ma sempre e comunque sullo sfruttamento intensivo ed estensivo dell’uomo e della natura, facendosi infine anarco-capitalismo dove l’unica libertà possibile e ammessa è (ancor più di ieri) quella del tecno-capitale, che vincola e limita e nega ogni altra libertà? Dove l’ordine – i vincoli e le limitazioni posti alle nostre scelte, tipo: ce lo impongono i mercati; l’innovazione tecnologica non si può e non si deve fermare; la società deve adattarsi o essere resiliente alle esigenze del tecno-capitale; e soprattutto: non ci sono alternative – è quello appunto imposto dall’ordine del tecno-capitale e questo disordine distruttivo è anche e contestualmente una forma di ordinamento comportamentale e psichico per gli umani e per la società e a questo provvedono management, marketing e oggi social/digitale. Ma dove gli umani in realtà “sono diventati incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare” – come scriveva già nel 1934 una lucidissima Simone Weil (1909-1943) – uomini dominati da una macchina che fabbrica “incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia e soprattutto vertigine. [Dove] tutto è squilibrio”. O meglio, disordine ordinante, cioè anarco/tecno-capitalismo.
Confrontiamoci allora – dopo questa lunga ma doverosa premessa – con un libro come La mente tragica, del politologo statunitense Robert D. Kaplan (e questa che leggete non è una recensione, ma una riflessione a voce scritta che parte dalle molte domande che il libro suscita), edito da Marsilio. Un libro che ci invita a adottare il pensiero tragico, cioè una forma mentale che consenta di orientarsi in un mondo che sembra aver perso qualsiasi riferimento – e grande è il disordine politico sotto il cielo, scrive Kaplan. Che cerca questo riorientamento rileggendo i classici dell’antica Grecia e le opere di Shakespeare, per ritrovare un pensiero tragico che ci aiuti ad accettare le prove dell’esistenza. Perché la tragedia – greca come quella shakespeariana, pur nelle loro differenze (“i greci descrivono gli uomini davanti agli dei, Shakespeare descrive gli uomini e le donne in conflitto tra loro”) – secondo Kaplan non produce fatalismo o disperazione, bensì è comprensione della realtà e rappresenta (appunto sulla scena) tutte le forme del potere e della libertà o non libertà di scelta degli uomini, ricordandoci quanto poco questo uomo sia davvero libero, chiuso spesso in uno spettro limitato di possibilità.
E se da giovani si è spinti a voler cambiare il mondo, la saggezza che viene dall’esperienza e dalla coscienza dei limiti impone invece di cambiare se stessi. Ma è davvero così? Non è forse vero che oggi proprio la saggezza e il pensiero tragico – davanti alla crisi climatica – ci dovrebbero imporre di cambiare noi stessi e insieme di cambiare il mondo, cioè quel sistema tecnico e capitalistico che la produce e riproduce e accresce da tre secoli a questa parte in nome del profitto? – crisi climatica che il sistema quindi aggira o nasconde e considera terroristica la saggezza della scienza dell’ICCP e la saggezza di Greta Thunberg? Kaplan scrive invece di tempeste eccezionali e altre catastrofi come meri “equivalenti climatici di Dioniso”, come “l’ira dionisiaca del pianeta” e non come le conseguenze inevitabili di un tecno-capitalismo dionisiaco in sé, perché suo è l’impulso alla disintegrazione e alla distruzione.
E ancora: se “l’anarchia era la paura più grande e radicata degli antichi Greci, troppo razionali per ignorare il potere dell’irrazionale presente sull’altra faccia della civiltà”, come scrive Kaplan, come possiamo contenere il potere apollineo & dionisiaco del tecno-capitale? – potere che Kaplan nel libro non vede ma che è il vero potere di oggi, un potere che fa dell’irrazionale e del non-tragico (è più facile immaginare la fine della Terra che la fine del capitalismo…) la sua essenza e il modo della sua riproducibilità illimitata.
Certo, “i più saggi tra noi sono pieni di timore, [che è] un sentimento orientato al futuro”, continua correttamente Kaplan; e pensare tragicamente ci sarebbe di grandissima utilità. Ma quale è poi l’obiettivo di questo pensare tragicamente secondo Kaplan – il cambiamento o la conservazione (presentata magari come realismo), fine a cui sembra tendere l’intera analisi di Kaplan? Che infatti scrive: “la tragedia racconta il coraggioso tentativo di correggere il mondo, ma solo entro certi limiti, nella consapevolezza che esistono lotte intense e tragiche proprio perché vane. [E] poiché la sensibilità tragica è una fusione di fatalismo e lotta, un’arte di governo efficace richiede entrambe”. E ciò, aggiunge dovrebbe essere “vero in particolare per chi detiene il potere e deve prendere decisioni sulla guerra e sulla pace. E i leader davvero saggi sono quelli che sanno di dover pensare tragicamente per evitare la tragedia. È una lezione che Putin non ha mai imparato, altrimenti non avrebbe invaso l’Ucraina” e gli Usa avrebbero gestito altrimenti l’Iraq, l’Afghanistan e ieri il Vietnam e la loro vocazione imperiale.
Kaplan vuole recuperare questa sensibilità antica a pensare tragicamente, cioè un “timore costruttivo” o una “lungimiranza apprensiva” che sarebbero poi i bisogni espressi appunto dalla tragedia greca. Ricordandoci che “la vera tragedia è caratterizzata dalla bruciante consapevolezza di quanto, pur entro un vasto orizzonte, le scelte a nostra disposizione sono limitate. Viviamo infatti in un mondo di vincoli”. Vero, ma la domanda da porre dovrebbe essere allora e di nuovo: chi e come e perché pone questi vincoli (che non sono solo il caso, l’imponderabile o il destino), limitando le scelte a nostra disposizione? Certo, “quando si pensa tragicamente sin dall’inizio” – continua Kaplan – “si ha timore del futuro e si è consci dei propri limiti, quindi si può agire con efficacia. Il mio obiettivo è ispirare, non deprimere”. E di questo suo obiettivo fortemente lo ringraziamo. Ma il suo discorso contiene dei rischi, perché se si accettano i vincoli come dati di fatto (ad esempio e ancora quelli imposti dal mercato o dall’industrialismo o dal profitto); se si accoglie il principio per cui le scelte a nostra disposizione sono comunque limitate, il rischio (o la certezza?) è appunto quello di produrre un’accettazione positivistica e passiva della realtà (“la rassegnazione è una virtù”, sosteneva due secoli fa il positivista Auguste Comte – e da allora tutta la propaganda del tecno-capitale è finalizzata a produrre questa rassegnazione) e un mero adattarsi ai vincoli esistenti, impedendoci di rimuoverli – negandoci ex ante la possibilità e la capacità di scelta, che invece dovrebbero essere possibilità e capacità tutte umane e umanistiche e illuministiche.
Dunque, avremmo bisogno – invece e piuttosto – di farci tutti come Antigone, disobbedendo ai vincoli posti dal potere in nome di una verità e di una legge morale (il dovere etico di seppellire il fratello) diversa e giusta rispetto a quella ingiusta del sovrano/ordine (che glielo vuole impedire), Antigone compiendo sì un gesto di ribellione, ma anche performativo di libertà, perché “così sono i veri gesti di libertà” – come ha scritto la filosofa della politica Laura Bazzicalupo in Eroi della libertà. Storie di rivolta contro il potere (il Mulino, 2011) – e “performativo perché cambia i parametri del possibile”; e quindi Antigone ci dice che è la libertà a decidere ciò che è bene”, necessaria per costruire un ordine alternativo e migliore.
Kaplan (che per altro sembra confermare la tesi di Camus per cui chi si rivolta deve avere in mente un ordine alternativo), scrive invece: “la tradizione è virtuosa”; “la mente tragica sopporta la sofferenza e ci convive, in modo che alla fine l’ordine possa trionfare sul caos e il mondo possa trovare una qualche forma di consolazione”; e “la mente tragica è profondamente umana, anche quando è profondamente realistica”; “il regime peggiore è meno pericoloso e terrificante dell’assenza di qualunque regime”; “ancora oggi, nel mondo arabo, i regimi più stabili e civili sono le monarchie tradizionali”; “legati dal vincolo della necessità, siamo costretti a lottare gli uni contro gli altri”. Tutte tesi molto, molto discutibili e tendenzialmente dominate proprio dal fatalismo. Impedendoci così di immaginare un ordine alternativo.
Conclude Kaplan: “Il pensiero tragico – e la capacità di gestire la paura, senza lasciare che ci paralizzi – non è mai stato così necessario” come oggi. Noi invece, al pensiero tragico preferiamo allora un pensiero responsabile ed eticamente forte. Come quello delle molte Antigoni (a prescindere dal genere) che con il loro agire performativo ci dimostrano che è la libertà a decidere ciò che è bene – e non l’ordine del potere politico e meno che meno l’ordine del tecno-capitale o di un algoritmo o della IA.