Roger Federer e l’origine del mondo
Non ho mai visto Cassius Clay danzare sulle punte o Maradona calciare una punizione, non ho mai visto Michael Jordan fare canestro alzandosi in sospensione o Eddy Merckx vincere in volata, però ho visto Roger Federer colpire una pallina da tennis. Successe anni fa, a Basilea, la città in cui è nato e cresciuto, una città nella quale, come ama ricordare il diretto interessato – l’ha ribadito anche di recente, nella sua lettera di commiato – prima che tennista fu raccattapalle. Due partite: una semifinale con Ivo Karlovic, tennista-robocop dal servizio micidiale, e una finale vinta in scioltezza contro un impalpabile David Goffin. Fu un fine settimana da ricordare, non soltanto per le partite di Federer, ma perché nei giorni in cui andava in scena il torneo, alla Fondazione Beyeler era esposto il quadro L’origine du monde di Gustave Courbet. Mi dissi, beh, che diamine, già che ci sono…
Del quadro di Courbet ricordo in particolare una cosa: la circospezione con cui i visitatori vi si accostavano. Non rammento quali altri quadri fossero esposti in quella sala, ma era evidente che ogni altra opera fungeva da alibi. Courbet? Figuriamoci, sono qui per le ninfee di Monet. Ho solo perso l’orientamento. Sa mica dov’è esposta la donna seduta di Picasso? Capii subito che c’erano due modi di avvicinare quel quadro: guardarsi attorno come facevano tutti, in cerca di un consenso o di un rimprovero implicito, oppure abbandonarsi ad esso, non proprio lasciarsi risucchiare in esso, ma almeno trovare il coraggio di guardarlo senza distogliere gli occhi, guardarlo sul serio, e farlo in presenza di sconosciuti senza offrire, a quegli sconosciuti, il benché minimo indizio di quel che ti stava passando per la testa. Un respiro profondo e via, siamo qui per contemplare un’opera d’arte.
Credo di esserne uscito bene. Meglio che in altre circostanze, direi. Era in fondo semplice. Bastava mettersi lì e dire: mo’ vediamo se qualcuno ha il fegato di venirmi a dire qualcosa. È un mio diritto, sono in un museo rinomato, ho pagato il biglietto; se mi gira, posso star qui a studiare il quadro fino all’orario di chiusura e persino fare dei commenti ad alta voce. Annuire. Inarcare il sopracciglio. L’impasto dei colori, la prospettiva, quelle cose lì. Da non esperto d’arte stavo assolvendo in modo ammirevole il mio compito. A un tratto mi resi conto che la mia prossimità al quadro non era passata inosservata. Un visitatore ch’era rimasto fin lì in disparte con aria fintamente assente, non appena allentai la tensione del muscolo sternocleidomastoideo dicendomi “credo di aver afferrato l’idea”, prese coraggio e si avvicinò a sua volta al dipinto. Il suo sistema nervoso però non lo assistette a lungo. In un attimo fece dietrofront e lo rividi, mezz’ora più tardi, schiantato su una panca nei pressi del chiosco della fondazione, di fronte al bagno uomini.
Federer vinse insomma facile, nel tripudio del popolo basilese. La cosa che più mi colpì, nel vederlo giocare dal vivo, non furono tanto i colpi ma la sua capacità di spostarsi in campo come se, letteralmente, avesse le ali ai piedi. La metà campo in cui si muoveva Federer aveva le dimensioni di un tavolo da ping pong; quella in cui s’affannava Goffin appariva sterminata, un campo da calcio fatto di zolle e di irraggiungibili corridoi laterali. Com’era possibile? La scioltezza. È questo che va recuperato, mi ripetevo ad ogni cambio di campo. Troppa tattica, troppi batti e ribatti che non portano a niente. Federer faceva sembrare il tennis uno sport semplice, a suo modo inesorabile, proprio come succedeva alla mano di Picasso. Che sarà mai tracciare una linea su un foglio di carta? Appoggi la matita e in un attimo il disegno si compie da sé. Già.
Del gesto di Federer hanno scritto in molti. David Foster Wallace ne parlò in termini assoluti, assegnando alla perfezione estetica dei “momenti Federer” un che di metafisico (Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande, 2010): “l'umana bellezza di cui parliamo qui è di un tipo particolare; si potrebbe chiamarla bellezza cinetica. Il suo potere e la sua capacità di attrarre sono universali. Non ha nulla a che fare con il sesso o con le norme culturali. Sembra piuttosto riguardare il riconciliarsi dell'uomo con la sua realtà corporea”. Appunto. La scioltezza. Abitare questo luogo mettendoci l’armonia, oltre che l’anima. Dopo quel saggio di Foster Wallace ci fu chi pensò di far incontrare lo scrittore e il tennista. Foster Wallace fece delle domande; Federer non ci capì granché. Mondi troppo distanti. Federer non è mai sceso in campo con l’intenzione di fondare una setta o di lasciare un’impronta. Foster Wallace aveva fissato su carta ciò che per Federer era un gesto lieve e naturale. Avesse capito Foster Wallace, Federer avrebbe probabilmente perso il tennis.
Si può amare Federer o lo si può non amare, però una cosa gli va riconosciuta: che è sempre sceso in campo come se fosse la prima volta. Anche quando di fronte aveva un tennista-robocop come Ivo Karlovic. Nel suo messaggio d’addio, dopo aver ringraziato tutti, Federer ha ringraziato il tennis: ti amo e non ti lascerò mai, ha detto. Da quel sentimentale che è, c’era da aspettarselo. Avrà impiegato mezza giornata a registrare quel messaggio vocale. Chissà quante volte la voce gli si è rotta in gola e ha dovuto ricominciare il paragrafo da capo. L’origine del mondo è qualcosa di sacro. In questo David Foster Wallace aveva visto giusto: se ogni volta non è come la prima volta, non ne vale la pena. Se di fronte a quel mistero non sei preso ogni volta da un senso di vertigine e dalla voglia di fuggire via, meglio lasciar perdere. Meglio mettersi lì al bar del circolo, e bersi un chinotto.