Ron Howard. Rush

26 Settembre 2013

Ecco un film davvero godibile, dal primo all'ultimo minuto. E non sono pochi: 123 di cinema americano classico, equilibrio perfettamente sincronizzato di elementi di pura eccellenza.
Ron Howard firma un grande film, decisamente uno dei suoi migliori.

 

Grande merito va allo sceneggiatore Peter Morgan, uno che ha cominciato a farsi conoscere collaborando alla stesura di The Last King of Scotland, ha proseguito firmando The Queen con Stephen Frears e ha incontrato Ron Howard con Frost/Nixon. Questo dopo una bella gavetta di scrittura televisiva.

 

 

Insomma: quando si dice la professionalità, una cosa che qua in patria abbiamo un po' perso di vista e che, quindi, stupisce sempre un po'. E quando si dice la scrittura.

 

Morgan non perde un colpo, la sua sceneggiatura è una macchina da guerra, fa tic tac. Così perfettamente tagliata da poter risultare algida. Forse. Ma Howard la infiamma col fuoco della passione che nutre per i suoi personaggi. E per i suoi attori. Daniel Bruhl e Chris Hemsworth sanno di avere per le mani il ruolo di una vita e non perdono l'occasione. Decisamente non se la lasciano sfuggire, soffiando l'alito vitale nei ritratti di Morgan.

 

 

Niki Lauda vs James Hunt. Profani della Formula 1 come chi scrive, non temete. La pista non è che un tramite simbolico per portarvi altrove, seppur raccontata con dovizia quasi documentaristica.
Qui si racconta di due uomini radicalmente diversi, del loro incontro, del loro scontro epico e pauroso, della loro paura di vivere e morire, del timore reciproco, del rispetto, della stima e dell'invidia. E si racconta di un'epoca lontana, dove lo sport era qualcosa che oggi non conosciamo più.

 

Niki Lauda è un genio metodico, rampollo di una famiglia di ricchissimi banchieri austriaci che lo disconosce temendo di vedere infangato un nobile cognome, dotato di tanta determinazione quanto di poco fascino, capace di ascoltare la macchina come nessun altro, meccanico, ingegnere e pilota al tempo stesso. Diceva di se stesso che la vita non gli aveva fatto dono di un fisico troppo aitante, ma in compenso lo aveva dotato di un paio di "chiappe" capaci di sentire qualsiasi cosa la macchina avesse da dire. Un asociale, simpatico a pochi, schietto e caustico. "La felicità è un problema" - dice in viaggio di nozze alla moglie - "tutto a un tratto hai qualcosa da perdere". Non esattamente un romantico. Eppure Howard ci fa credere che sia per amor della vita nonché della moglie Marlene che in quell'ultimo, buio, piovoso circuito all'ombra del monte Fuji si ritiri, regalando così la vittoria a Hunt.

 

 

Lauda non prendeva mai più del 20% di rischio, diceva, di più non vale la pena. L'unica volta che l'ha fatto, per non lasciare campo libero al suo rivale, è finito in una palla di fuoco che l'ha quasi ucciso, sfigurandolo a vita. Ma non si è fermato, la sfida, la rivalità, lo scontro l'hanno tenuto vivo e riportato in pista in tempo record, contro ogni parere medico. E ha corso ancora ed ancora, ha vinto altri due Campionati del Mondo prima di cedere lo scettro al suo erede Alain Prost, detto "il professore", un nomignolo che poteva essere suo.

 

Lauda l'inarrestabile scienziato della pista vs Hunt, talentuoso e pazzo. Hunt è la nemesi di Lauda: bello, affascinante, simpatico a tutti, viveur e donnaiolo. Per lui non ci sono percentuali di rischio, per lui si corre come se non ci fosse un domani, come se fosse sempre l'ultima volta, si corre per vincere, per esultare, per battere ogni giorno la morte e dire sono ancora qui. Hunt si autodefinisce "the shunt", lo schianto, e come tale si abbatte sul mondo della F1. Una parabola spezzata dalla fama che durerà solo qualche stagione. Dopo la vittoria mondiale, infatti, Hunt non riesce a gestire la fama, il successo, i soldi e si lascia traviare, perdendosi fra pubblicità, sponsor, televisioni fino a morire prematuramente a soli 45 anni stroncato da un infarto.

 

Howard per 123 minuti ci racconta i 6 anni che vanno dall'incontro sulle piste di Formula 3 tra Hunt, cavallo vincente e di bellezza splendente, e il neo arrivato Lauda, per giungere al Gran Premio di F1 del 1976, al terribile incidente di Nürburgring, fino alla corsa finale all'ombra del Fuji.
Un crescendo di passione e di tensione splendidamente fotografato da Anthony Dod Mantle, che regala all'equilibrio di Morgan e alla passione di Howard cieli carichi di nubi oscure, buie come lo sguardo infelice di Hunt, a tratti luminose come quello determinato di Lauda.

 

 

Una corsa incessante, appassionante come le migliori macchine filmiche, una grande storia, una scrittura eccellente, un casting all'altezza e una sapiente commistione di immagini d'archivio, ricostruzioni scenografiche e digitali per restituire perfettamente una realtà, quella delle corse e della F1, in un'epoca lontana, soprattutto moralmente, dove non vincevano gli sponsor, i soldi, i motori, ma vincevano soprattutto gli uomini, la passione, la follia e il coraggio.

 

 

Questo Howard vuole raccontare e lo fa egregiamente, con epico pathos e perfetto ingranaggio, battendo un terreno certamente amato dal cinema come quello della parabola dello sport e dell'agonismo, ma scegliendo un ambito poco frequentato come quello delle corse automobilistiche e riuscendo a non eccedere troppo in retorica, aiutato soprattutto dalla scrittura asciutta di Morgan e dall'equilibrio misurato di Bruhl e Hemsworth.

 

Quando la sala unita sussulta, si spaventa, sospira e respira col film si rivive un'emozione primaria, preziosa, rara, troppo spesso svalutata e sottovalutata, che fa bene al cuore e al cinema.

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