Steven Knight. Locke

8 Maggio 2014

Un uomo esce da un cantiere, si sfila un paio di stivali da lavoro e sale su una bella BMW superaccessoriata. Al semaforo la freccia lampeggia a sinistra. Scatta il verde. L’uomo resta immobile. Il camion dietro di lui suona. L’uomo alza lo sguardo al cielo, sposta la freccia da sinistra a destra e parte.


L’uomo è Ivan Locke: un nome piuttosto altisonante, una bella faccia rassicurante. S’intuisce e ben presto si conferma il ritratto di un uomo borghese: ben vestito, con un buon lavoro, un buon reddito e una bella famiglia.  A casa lo aspettano due figli, una moglie, la partita, le birre e  il barbecue. Il cantiere al quale lavora è la costruzione di un edificio di grande prestigio e portata e per la mattina dopo è prevista la gettata delle fondamenta, “la più grande colata di calcestruzzo dell’edilizia urbana londinese”.  Ma tutti si fidano di Ivan,  lui ha tutto sotto controllo, è “il più bravo capocantiere d’Inghilterra”.

 


Ivan Locke è un uomo “arrivato” che, in quell’attimo, a quel semaforo, come fosse una “sliding door”, decide di fare quello che in pochi deciderebbero di fare: si assume le proprie responsabilità pur sapendo che questo gesto, insignificante per molti, potrebbe distruggergli la vita, la vita per come l’ha conosciuta e costruita fino a quel momento.  


Ivan Locke ha commesso una leggerezza, apparentemente l’unica di una vita retta e condotta con serietà. In una fredda notte d’inverno, lontano da casa, ha ceduto a quella che nelle sue parole è stata fragilità, compassione e desiderio di essere qualcosa di bello nella vita probabilmente vuota di una non più giovane collega. E quella notte ha prodotto un figlio, l’ultimo possibile raggio di sole nella vita di una donna descritta come sola e senza amici. E quel figlio sta venendo al mondo stanotte, con due mesi di anticipo. E Locke non vuole fare quello che suo padre fece con lui: Locke vuole esserci, vuole riconoscere questo figlio di una donna che non ama e non conosce, vuole fare la cosa giusta, essere un padre, nonostante tutto.


Un’ora e mezzo tra Birmingham e Londra, dove la donna sta per partorire, vissuto in tempo reale, nell’abitacolo di un SUV superaccessoriato dove, complice la tecnologia bluetooth, parla incessantemente al telefono, ricostruendo gli eventi e cercando di mettere a posto tutto. Farà quello che è in suo potere fare, non mentirà, dirà solo la verità, non prenderà in giro nessuno, agirà da razionalista illuminato come il suo più celebre omonimo predecessore autore del Saggio sull’intelletto umano (1690).

 


Mentre, per usare la metafora del calcestruzzo, Locke getta le fondamenta di un nuovo vivere, mentre sceglie la strada dell’ammissione di colpa, della responsabilità, mentre cerca, con dolore e fatica, di essere un uomo giusto, sgretola inevitabilmente la vita dell’uomo amato e benvoluto da tutti. E allora qual è, chi è “l’uomo giusto”? Nella vita non sono concessi errori? O semplicemente ogni vita è fatta di più vite come questa di Locke, che mentre sembra distruggerne una ne sta cominciando un’altra. E lui continua con serafico positivismo, fra le lacrime ma con fermezza e lucidità, a ripetere che “sistemerà tutto”, che tutto tornerà a posto, anche se adesso sembra tutto finito.


Locke ci impartisce una straordinaria lezione di vita, quella di uomo “normale”, con passioni semplici, senza pose intellettuali, che commette un errore. Nulla di più comune e semplice. Ma Ivan Locke fa qualcosa di eroico che lo distingue da molti suoi simili: mostra lucida onestà intellettuale e morale. Per dirla con Kant: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.  Le conseguenze non contano, perché quelle della menzogna e dell’inganno sarebbero certamente peggiori. Locke non mente nemmeno al suo datore di lavoro che quasi lo implora “ma perché non hai detto che eri malato, non avresti perso il posto…”. Ma la risposta è disarmante: “perché non è vero, io non sto male”. Perché non è vero. E se non è vero non si dice. Semplice.
Un film a suo modo straordinario, una sceneggiatura di ferro dove i personaggi e gli eventi emergono poco a poco a chiarire un quadro inizialmente oscuro, un one man show di Tom Hardy che si rivela un interprete straordinario, capace di reggere un film, una posizione, un’inquadratura per novanta minuti, coadiuvato da voci, visioni e fantasmi.

 

Locke, Tom Hardy


Un anti-Duel dei tempi moderni, che scarseggia un po’ in termini di ritmo ed eccede in termini di simbolismo (il semaforo, il cantiere, le fondamenta, il viaggio, la nascita…).  Un film per molti, forse, ma non per tutti. Decisamente non per chi ha problemi di unità di luogo e azione. Sembra spaventoso per lo spettatore, un potenziale bagno di noia, e – seppur low budget – terrificante per un produttore. Eppur s’è fatto, per fortuna.  Bravo chi c’ha creduto e ha raccolto la sfida.


Una nota di demerito grave al distributore italiano, che seppur ha creduto nel film ne ha tradito il coraggio confezionando un trailer mistificatorio e fasullo, spacciando il film per il thriller che non è, per timore che altrimenti il pubblico non sarebbe andato a vederlo, e quindi non credendoci lui per primo fino in fondo, e tradendo proprio lo spirito del film stesso.
Ivan Locke ne sarebbe profondamente deluso…

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