Storia di un colore / Rosso. Non gli crediamo più?
«Se si tiene un drappo rosso davanti al toro, questi diventa furioso; il filosofo, invece, va su tutte le furie solo che gli si parli del colore in generale»: con questa citazione di Goethe – stampata in nero su una pagina rossa, in barba alle regole dell'araldica – inizia l'avvincente storia del rosso di Michel Pastoureau (Ponte alle Grazie). I filosofi, è vero, sono spesso convinti che il colore non faccia parte della filosofia, anche se potremmo citare molti autori che si sono affannati attorno agli enigmi del colore, a partire da Teofrasto per giungere fino a Wittgenstein e oltre. Ma in genere anche agli storici i colori non piacciono, forse perché la ricerca in questo ambito è irta di difficoltà: numerosi sono i problemi documentali, la difficoltà di accedere ai colori dell'originale, l'abitudine alle riproduzioni in bianco e nero, l'aggrovigliarsi di questioni materiali, tecniche, iconografiche, linguistiche, ideologiche e simboliche, l'impossibilità di applicare al passato le categorie del presente. Pastoureau ne accenna nell'introduzione, ma con questo siamo già dentro la storia del rosso, che va a ad aggiungersi alla storia del blu (2000), del nero (2008), del verde (2013, cfr. la recensione di Marco Belpoliti in questo sito) e si sviluppa e si intreccia con le storie degli emblemi e dei bestiari.
«Il rosso – scrive Pastoureau – è il colore archetipico, il primo che l'uomo abbia padroneggiato, fabbricato, riprodotto, declinato in varie sfumature, prima in pittura e poi in tintura» (p. 7), per millenni è stato il colore più importante, l'unico vero colore, come testimoniano anche le lingue: coloratus in latino può significare rosso se si riferisce ai colori del volto e del corpo, e in russo i termini che traduciamo con rosso e con bello hanno la stessa radice: la Piazza Rossa di Mosca – ci spiega l'autore – non è rossa perché comunista, ma significa, sin dal tempo degli zar, la piazza più bella della città (n. 2, p. 195).
La storia del rosso inizia con il Paleolitico, tra i resti sepolcrali delle tombe preistoriche e nelle sale e nei corridoi delle grotte; Pastoureau ne cita una in particolare, la grotta di Chauvet, nell'Ardèche, a nord di Avignone, dove 30 mila anni fa gli uomini dovevano aver scaldato certe terre in crogiuoli di pietra per ottenere delle ocra rosse con cui è dipinto l'orso in un ipotetico santuario dedicato al culto di questo animale.
Già con gli egizi però compare l'ambivalenza di questo colore: il rosso rappresenta le forze vitali, la vittoria, il potere, ma anche il pericolo, la sventura e la morte; è il colore del male, ma anche degli amuleti che proteggono dal male. Nelle civiltà antiche questa ambivalenza si sdoppia nel riferimento del rosso al fuoco e al sangue, elementi che possono essere, insieme, fonte di vita e di morte; ne sono esempi le immagini in figure rosse di Prometeo, il mantello rosso di Dioniso, ma anche i cruenti sacrifici del culto di Mitra; ne è simbolo il fiore funebre ed effimero del papavero in contrasto con l'amaranto che non appassisce.
Oltre che agli elementi simbolici, Pastoureau è anche molto attento all'aspetto materiale del colore; su questo trova molte indicazioni nella Storia naturale di Plinio, non solo per i riferimenti ai pittori greci e romani, ma anche ai minerali, ai belletti, ai farmaci. Gli antichi greci e romani usavano infatti pigmenti minerali come il cinabro, il minio e l'ematite, ma anche di origine vegetale o animale: la robbia (chiamata anche garanza) – derivata dalle radici di una pianta diffusa in tutto il Mediterraneo –, il chermes – ricavato dal corpo essiccato delle cocciniglie e che avrà grande fortuna nel periodo moderno grazie alle coltivazioni, da parte degli schiavi in America, del cactus nopal, pianta su cui crescono questi animaletti, – e la porpora – estratta da un mollusco, il murex trunculus. A proposito di quest'ultima l'autore riporta la leggenda della sua scoperta da parte del cane di Eracle che, frugando tra la sabbia, torna dal padrone con il muso tinto di rosso, come ancora racconta, in epoca moderna, un quadro del pittore olandese Theodoor van Tulden.
Ma è nel Medioevo che il rosso diventa il colore preferito dell'Occidente. Eppure mantiene la sua ambivalenza: da un lato esso colora il roveto ardente, il sangue sacro di Gesù, la Pentecoste, dall'altro anima le fiamme dell'inferno, il drago, la veste porpora e scarlatta della gran meretrice Babilonia nell'Apocalisse. A questo proposito un'immagine tratta da una Bibbia tardo-medievale raffigura un Cristo inginocchiato sotto un torchio con il suo sangue che cola in un tino. Nello stesso periodo il rosso caratterizza le vesti imperiali, come nel caso del mantello di Ruggero II di Sicilia, una cappa da cerimonia in seta rossa, ricamata con fili di oro e argento e ornata di quasi cinquemila perle, che raffigurano due leoni, cappa in uso fino al Settecento per l'incoronazione imperiale.
Il rosso medievale è quindi il rosso del potere, domina negli emblemi e nei blasoni dell'araldica, ma è, al tempo stesso, il rosso della punizione dell'angelo giustiziere che scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, il rosso della colpa di Giuda, dipinto quasi sempre con una veste di questo colore, è il rosso della toga dei giudici e del cappuccio del boia. In ambito simbolico gli animali rossi dei bestiari sono la volpe astuta, il pigro e lubrico scoiattolo e il sudicio maiale. Di contro esso è il colore dell'amore, della freschezza, della bellezza, della manica rossa dell'amore che la dama consegna al suo cavaliere, il quale nel torneo lo lega alla lancia o all'elmo.
Tra la metà del XII secolo e i primi decenni del XIII il primato del rosso – lo abbiamo già letto nel libro sul blu – viene scalzato dal un nuovo colore, appunto il blu, accompagnato dalla presenza di due parole non di origine latina: blau germanico e lazurd arabo. In seguito poi alle leggi suntuarie e moralizzatrici, ma soprattutto alla Riforma, prevarrà la cromofobia e la denuncia del rosso, troppo vistoso, indecente, depravato, idea invero già presente fin dall'antichità – lo nota Pastoureau – a partire dalla Fisiognomica dello Pseudo-Aristotele. I tacchi rossi degli aristocratici alla corte del Re Sole finiscono per diventare sinonimo di arrivismo dei nuovi arricchiti. Ma la vita gioiosa del rosso si prolunga nella pittura moderna, ravvivato o reso più elegante dall'uso di nuovi pigmenti, tra cui la sandracca, una resina orientale; l'autore cita Van Eyck, Paolo Uccello, Carpaccio, Raffaello, Rubens e La Tour.
Il racconto prosegue con sempre nuove notizie e sorprese, accompagnato da moltissime immagini che ci presentano le mille sfumature del rosso. Interessante, tra l'altro, l'excursus su Cappuccetto rosso, la storia della fiaba e la critica all'interpretazione psicanalitica di Bettelheim: l'autore ricorda che al tempo di Perrault il rosso poteva simboleggiare la lussuria, ma non i primi turbamenti dell'amore, a cui veniva associato il verde: Cappuccetto rosso avrebbe dovuto chiamarsi Cappuccetto verde – così commenta Pastoureau che non rinuncia mai alla leggerezza, all'ironia e all'autoironia, come abbiamo visto nella sua autobiografia colorata, pubblicata sempre da Ponte alle Grazie nel 2011 (I colori dei nostri ricordi. Diario cromatico lungo più di mezzo secolo).
Più prudente lo storico francese si mostra nel trattare la scoperta dello spettro da parte di Newton, i primi tentativi di colorimetria e le definizioni di colori puri e primari. L'analisi newtoniana dei colori della luce toglieva il bianco e il nero dal novero dei colori, escludeva la centralità del rosso, relegandolo al margine dello spettro, e riduceva il colore a elemento misurabile, riproducibile, controllabile, unico possibile oggetto della scienza meccanicistica. Ma a questo punto si aprirebbe un'altra indagine, di carattere scientifico e filosofico, che qui non è materia di analisi; Pastoureau si limita a citare Goethe: «Sono sicuro che Newton si è sbagliato».
Molto interessante è anche la parte del libro che analizza il rosso ideologico: dalla storia del berretto frigio e della bandiera rossa, al rosso della propaganda comunista fino al Libretto rosso di Mao che ha venduto novecento milioni di copie, secondo solo alla Bibbia. Confiscato da una componente politica, il rosso – scrive l'autore – cessa di essere un colore, viene privato della dimensione affettiva, poetica, estetica, onirica: diventa ideologia.
La lunga storia del rosso si conclude così, con una certa amarezza. Il rosso sopravvive nella teatralità dei cerimoniali, nelle bandiere – che ereditano almeno in parte i sistemi dell'araldica – e nella segnaletica. Non è più il nostro colore preferito: prevalgono altri colori, come il blu e il verde. Non è nemmeno un colore, non gioca con gli altri colori, è diventato un colore astratto. Eppure il rosso è tuttora il colore dell'infanzia, della festa, dell'erotismo, della seduzione, un colore che sa giocare con la musica, come nei quadri di Rothko. «Ma – conclude l'autore – ormai la sua lunga storia dev'essere un fardello troppo pesante per le società odierne, stanche di non credere più ai propri valori e sempre più decise a voltar le spalle al passato, ai propri miti, i simboli e i colori» (p. 192).