Santarcangelo Festival, laboratorio del futuro

12 Luglio 2012

Conversazione con Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci (Santarcangelo 12-14) con la partecipazione di Massimo Marino e Bruna Gambarelli.

 

Santarcangelo è il festival forse più denso di storia della cosiddetta ricerca teatrale italiana. Dopo qualche anno di incertezza, il festival ha avuto nuova vita grazie al progetto triennale in cui tre artisti romagnoli hanno diretto un’edizione a testa (dal 2009 al 2011 si sono alternati Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, Enrico Casagrande di Motus, Ermanna Montanari del Teatro delle Albe). Ma forse la vera novità del passato triennio è stata la nascita di quello che è stato chiamato “coordinamento critico-organizzativo”, tre figure che hanno assunto un ruolo vitale di collegamento nei tre anni, garantendo una continuità di pensieri e azioni. Il triennio che si apre nel 2012 vede alla direzione Silvia Bottiroli e alla condirezione Cristina Ventrucci e Rodolfo Sacchettini, membri del coordinamento precedente. Con loro abbiamo parlato del presente di Santarcangelo e dei desideri futuri, anche alla luce del lavoro svolto da gennaio ad oggi, una vera e propra “stagione invernale”, possibile chiave di volta per dare continuità all’idea stessa di festival, troppo spesso risolta in due settimane di esplosione contornate da mesi di silenzio. Insieme a loro abbiamo posto qualche domanda a Massimo Marino, giornalista e critico, che è stato condirettore del festival dal 1998 al 2003, e a Bruna Gambarelli di Laminarie, presente a Santarcangelo 12 con il progetto Combinazioni. Questa conversazione è la rielaborazione di un incontro pubblico avvenuto a fine giugno a Bologna e coordinato da Altre Velocità presso la libreria Modo Infoshop.

 


 

 

Santarcangelo è un festival che nella sua lunga storia (nasce nel’71) ci fa leggere i sommovimenti dell’arte teatrale italiana e internazionale: la storia del festival è, in controluce, la storia del teatro: dai fermenti politici degli anni 70 al Terzo teatro, fino a vari tipi di aperture e spaesamenti interdisciplinari. Santarcangelo è l’origine di molte esperienze che entreranno nel lessico del teatro italiano. Pensiamo all’espressione di Roberto Bacci (direttore dal 1978 al 1980, e dal 1984 al 1988): “la cittadella del teatro”, un paese che non ha teatro vero e proprio e quindi diviene esso stesso un teatro.

 

In linea generale, possiamo forse individuare due linee di credibilità per un festival: da una parte fare il punto sulla ricerca, sullo stato dell’arte nazionale e internazionale. Dall’altra porsi come luogo di sperimentazione: dare la possibilità nel presente di vedere il futuro, cercare di anticipare le tendenze e le tensioni della ricerca in stretto dialogo con gli artisti, offrendo loro una “casa”, un habitat. Probabilmente Santarcangelo, non escludendo la prima, è l’esempio più importante di questa seconda tendenza.

 

Crediamo che un festival possieda molti aspetti di lavoro “che non si vedono”. Mesi di progettazioni, organizzazioni, discussioni. Partiamo da qui, dalle linee di lavoro che vi siete dati per questa edizione e per il progetto triennale inaugurato nel 2012.

 

 

Silvia Bottiroli: Non è facile riassumere in un semplice racconto il programma di questa edizione. Anzitutto perché si compone di tante opere diverse. In secondo luogo perché non abbiamo voluto dare un titolo, un tema o una questione indicata come punto d’origine. Ci sono, invece, più linee di lavoro che abbiamo impostato e seguito nei mesi scorsi, vari fili e direzioni d’attraversamento. Questa è stata una delle prime decisioni che abbiamo preso, insieme a Cristina e Rodolfo, anche in relazione alla storia più recente. L’ultimo triennio è stato diretto da tre artisti che hanno impresso dei segni, delle visioni, delle domande di ricerca molto precise e importanti: chiedendoci come fosse possibile accogliere questo passaggio di consegna abbiamo visto nel lavoro a tre una risposta possibile. Abbiamo pensato a un festival che potesse mantenere un andamento plurale, che creasse dei pieni ma anche dei vuoti, che consentisse un respiro, un passaggio d’aria all’interno del suo programma. Questo significa anche lasciare degli spazi di libertà a chi il programma lo riceve e lo attraversa.

 

Se il festival non risponde a una domanda di ricerca specifica, però, non vuol dire che sia un semplice cartellone di appuntamenti. Abbiamo infatti inteso il festival come un “campo discorsivo” che rispecchiasse alcune domande che ci siamo posti rispetto a ciò che ci circonda. Si è formato a partire da questioni che venivano, da un lato, dal nostro essere prima di tutto spettatori (lo siamo stati dei lavori che abbiamo scelto e lo saremo di altri lavori che abbiamo voluto fossero creati a Santarcangelo) e, dall’altro, dall’incontro con alcuni artisti, dall’aver osservato situazioni e modalità di lavoro. Ci sono, quindi, diverse linee curatoriali. Una ha a che fare con un teatro che, attraverso la lente dell’arte, guarda alla realtà, alle vite comuni, ordinarie; artisti capaci di leggere le pieghe di ciò che normalmente ci circonda e a cui rivolgiamo quotidianamente uno sguardo opaco. Molti lavori di questa edizione del festival vedono il coinvolgimento di cittadini santarcangiolesi, di persone comuni: a loro è offerta la possibilità di inserirsi in una logica non di esibizione narcisistica della “normalità” o di una sua spettacolarizzazione, ma di partecipare a una visione artistica che si cura della loro presenza. I cittadini, attraverso alcuni progetti specifici, potranno vedere la scena come luogo pubblico in cui prendere parola, come spazio di esposizione estremamente pudico di un pensiero, di un punto di vista sul mondo. Mi riferisco a Sogni di Virgilio Sieni (che è presente al festival anche con Solo Goldberg Improvisation) e Ads di Richard Maxwell, che sta già lavorando in paese con trenta cittadini.

 

Un altro aspetto utile per raccontare questa quarantaduesima edizione sono le immagini del catalogo, che sono tre. Tre disegni che contengono molte storie e che raccontano un mondo immaginifico, infantile e crudele; tre disegni che sembrano scene teatrali. Mari Kanstad Johnsen propone un gioco estremamente serio che due bambine stanno portando avanti su un tappeto-scena, mentre una casetta bidimensionale prende fuoco. Questa immagine ha da subito interrogato noi e il teatro sul potere “incendiario” di una scena al contempo dura e delicata. Ci saranno parecchie occasioni in cui incontrare il disegno: dall’incontro con molti disegnatori ospitati in una puntata di Radio gun gun, al giornale disegnato che accompagnerà e commenterà le giornate di festival, alla proiezione di corti d’animazione.

 

Per un festival che, con molta semplicità, si è preso la libertà di andare a cercare affinità con artisti anche al di fuori del recinto teatrale, il disegno è sicuramente una delle sponde a cui abbiamo guardato con interesse, ma non è la sola: basti guardare i lavori musicali o la quantità di incontri in programma, i libri che non riguardano squisitamente il teatro, ma che sono un aspetto importante dello spazio-tempo che abbiamo cercato di costruire.

 

 

Dal 2009 si è ripresa l’antica definizione di “Festival Internazionale del Teatro in Piazza”, com’era nata nel ‘71. Quest’anno, forse per la prima volta, ci sono degli spettacoli teatrali nati dentro ai teatri che escono e vanno sulla piazza. Come avete lavorato e qual è l’immaginazione che vi ha guidato in queste scelte?

 

Cristina Ventrucci: Nel triennio appena compiuto, con Chiara Guidi, Enrico Casagrande ed Ermanna Montanari sono state poste una serie di questioni al luogo pubblico per eccellenza, la piazza. Quindi la carica utopica accesa da quel luogo era già molto presente e si è rafforzata per noi con l’idea di trovare il punto di incontro possibile oggi tra il teatro e la città. Ci ha accompagnato in questo la visione delle foto d’archivio del festival, che ne mostrano l’origine, fatta di assembramenti di spettatori seduti per terra di fronte all’arrivo degli artisti: quello che più colpisce in quelle immagini è lo sguardo delle persone, aperto e vivo come di fronte a una sorpresa. Così, quello che abbiamo pensato non è stato di costruire un palco sulla piazza, come per innalzare un intrattenimento, ma creare una situazione di accoglienza degli artisti che è allo stesso tempo e sullo stesso piano di una “chiamata” agli spettatori. Quindi abbiamo provato a individuare spettacoli che potessero prestarsi o ripensarsi alla luce di questa sfida, lavori che avessero elaborato una forte relazione con lo spettatore. Come quello di Codice Ivan, che ha accettato di ripensare per questa situazione lo spettacolo GMGS_What the Hell Is Happiness rivelandoci che la nostra domanda è andata a sollecitare il loro desiderio di uscire dalle mura del teatro per incontrare, con questo lavoro sulla ricerca ossessiva della felicità, un altro pubblico e un altro spazio. Come quello di César Brie la cui scelta può apparire più semplice – dal momento che lui ha sempre praticato una forma di teatro in relazione diretta con la comunità – e in realtà non lo è, perché presenta con Karamazov un lavoro corale, creato in teatro con un gruppo di giovani attori, e fondato su un equilibrio delicato, che però ci è sembrato capace di aprire quello squarcio. E poi con Nascita di una Nazione, dell’Accademia degli Artefatti, che tratta proprio dell’arrivo in una città di alcuni attori e del loro sguardo sulle macerie che vi trovano, con una domanda disincantata e feroce sull’arte e la sua necessità. Ma ad accettare per primi di attraversare quel baratro, quel nodo di pieno e vuoto che la piazza rappresenta, e a rilanciare visionariamente il gioco, è stato Zapruder filmmakersgroup, che ha accolto la sfida spostando l’asse tra il reale e l’immaginario…

 

S. B. Noi abbiamo inteso la piazza come una sfida “alta” per il teatro e la scelta, sin dal triennio scorso, di riprendere il sottotitolo originale del festival non era né nostalgica né ironica. Tuttavia la piazza resta comunque un luogo pieno di contraddizioni: è anche il terreno in cui ci si confronta con un’amministrazione comunale che chiede grandi numeri, pensando che il teatro debba essere rappresentazione di un pieno di spettatori, di una collettività del consenso o luogo d’intrattenimento. Proprio da questa ambiguità del luogo su cui abbiamo scelto di lavorare, insieme agli Zapruder è nata l’immagine di lavoro che concluderà il programma della piazza: I topi lasciano la nave (Yes Sir, I can Boogie). È una maratona di ballo liscio, una delle tradizioni folkloriche della Romagna, rispettata in tutte le sue regole: iscrizione, pettorine col numero, giuria e premio finale. La prova è sfinente e i concorrenti vengono giudicati sulla tecnica ma anche sulla resistenza fisica. Zapruder farà la regia operando uno slittamento fondamentale: tutti i ballerini avranno la musica in cuffia mentre gli astanti sentiranno un sonoro creato dall’amplificazione e dalla rielaborazione in diretta, operata da Francesco “Fuzz” Brasini, dei passi composti dai ballerini sul palcoscenico. Possiamo già immaginarci da un lato la scena che lentamente si svuota, finché non rimane una sola coppia a ballare, e uno spazio sonoro che, invece, si riempie in maniera sempre più inquietante di un corpo sonoro. La bellezza della scena svuotata è una delle questioni con cui stiamo abitando questa idea di piazza.

 

Rodolfo Sacchettini: Per parlare di piazza occorre partire da una constatazione: non siamo negli anni Settanta, né nel Novecento: la piazza e il teatro son diventate molto diverse oggi. Lo scorso triennio i progetti hanno provato a interrogare gli artisti su come reinventare una forma artistica in luoghi pubblici. Progetti fra i più vari: dalla fiera di animali a un concerto costruito su tre torri, ma il teatro canonicamente inteso non c’è mai stato. Credo invece che tutti i progetti di quest’anno siano più propriamente teatrali e prendano alla lettera quel sottotitolo: facciamo davvero il “teatro in piazza”, come fosse un atto duchampiano. Nel ribaltamento contemporaneo a cui siamo abituati, per il quale si possono proporre certe cose solo attraverso un movimento a spirale, arrivare a questa presa letterale del sottotitolo è stato il frutto di un percorso lunghissimo.

 

Il festival ha sempre avuto una tradizione di approfondimento, di pensiero critico che lo accompagna. Anche quest’anno sono molti gli incontri pubblici, i tentativi di “pensare il teatro”.

 

R. S. Santarcangelo è sempre stato un luogo di produzione di cultura teatrale, in questo senso sentiamo di dovere ascoltare la sua lunga storia. Soprattutto in tempo di crisi, l’elaborazione critica ha un’importanza centrale. Lo scorso inverno abbiamo inaugurato “Memorie dal sottosuolo”, in cui chiediamo ad alcuni studiosi di teatro di raccontarci lo spettacolo che ha cambiato la loro vita di spettatori. Il progetto continuerà durante il festival con Piergiorgio Giacché, Maria Nadotti e Leonetta Bentivoglio.

Accanto a questi ci saranno incontri non propriamente teatrali, legati al Premio “Lo Straniero”: con Mario Perniola, filosofo di estetica, attento lettore dei grandi cambiamenti di oggi. Un’altra presenza importante sarà quella di Adele Corradi, che è stata insegnante a Barbiana ed era una delle persone più vicine a Don Milani.

 

Abbiamo già parlato della storia quarantennale del festival. In che modo vi state relazionando ad essa?

 

R. S. È una domanda che ci poniamo spesso, ma altrettanto spesso la dimentichiamo: la storia del festival è immensa. Più andiamo avanti più la scopriamo. La nostra idea è che Santarcangelo continui a essere un grande laboratorio di produzioni e di nascite: il festival è sempre stato un luogo dove si elabora il futuro. Tutto questo è difficile da predisporre e soprattutto è il frutto di un’alchimia. A volte anche le migliori intenzioni non sono sufficienti: possiamo “solo” lavorare per fare in modo che ci siano tutti gli ingredienti necessari perché dal presente nasca qualcosa.

 

 

Una domanda per Massimo Marino. Rileggendo l’editoriale del festival del 2003, l’ultimo di cui sei stato condirettore, colpisce la scelta di mettere al centro le macerie, di evocare concetti quali “il deserto”, con la consapevolezza di un’unica strada possibile: muoversi nel disastro e tentare lentamente di ricominciare. Sono passati oltre dieci anni, e quelle parole sembrano oggi una profezia. Cosa è accaduto in quell’anno? E negli anni successivi?

 

Massimo Marino: Il 2003 era un anno particolarmente insidioso, per la storia stessa di Santarcangelo e non solo. Gli anni successivi sono stati molto bui. Il festival si è poi riavviato molto lentamente e dopo un periodo quasi sciagurato, nel 2008 c’è stata un’edizione passaggio, senza direttori artistici [“Potere senza potere”, n.d.r]. Poi è arrivata l’idea di passare agli artisti romagnoli la guida del festival, accanto ai quali è cresciuto questo comitato critico-organizzativo che si è trasformato nell’attuale direzione.
Santarcangelo è un gatto dalle molte vite, ogni tanto ti sembra che sia sul punto di morire, e poi rinasce sotto i tuoi occhi. Rinasce perché è un festival che, come alcuni altri, anche se in modi contraddittori, riesce a fare ciò che i teatri non fanno ormai più. I festival sono uno specchio del genio italico, sono capaci di sopravvivere nonostante gli assessori, le ansie delle piazze di paese, nonostante l’incapacità di dialogare con istituzioni ed esperienze vicine. I festival sono l’unico momento di vitalità della scena italiana, proprio perché creano degli spazi di pensiero, di riflessione sulla realtà, sull’utopia e sull’immaginazione. Sono luoghi di indagine.

 

Passando al lato “artistico”, chiederei a Bruna Gambarelli di Laminarie di raccontarci quale è stata la relazione che si è creata con la direzione, il modo in cui, insieme, avete progettato una presenza di Laminarie con un progetto così “fuori formato”.

 

Bruna Gambarelli: L’esperienza di Dom – La Cupola del Pilastro, spazio che abbiamo in gestione a Bologna da qualche anno, è ostinata, molto dura, si confronta con un territorio difficile. Il tentativo è quello di tenere sempre l’opera al centro. È evidente che un progetto come quello Dom è frutto del desiderio delle persone che la abitano, e questo desiderio diventa più forte man mano che viene condiviso con chi lo ritiene importante. Santarcangelo 12 ci dà l’occasione di presentare tutta la ricerca che è stata fatta quest’anno, compiendo una sorta di trasloco: portiamo a Santarcangelo un pezzo del nostro mondo. Lo spettacolo, Combinazioni, mette insieme il lavoro multiforme che abbiamo svolto dedicato a John Cage: ci saranno parti del lavoro che Febo del Zozzo ha creato con la danzatrice Simona Bertozzi; ci sarà la nostra scuola d’arte per i bambini, “Il tuono”, che si è particolarmente concentrata sullo studio della musica; presenteremo anche la nostra rivista, “Ampio Raggio”, che è lo spazio nel quale ci prendiamo il lusso di riflettere.

 

 

M. M. Uno dei crucci che ci siamo sempre posti negli anni della nostra direzione era il rapporto con i cittadini. Adesso come reagiscono i santarcangiolesi?

 

S. B. Il paese ha un rapporto vitale con il festival, nel bene e nel male. Nel settembre 2010 fu organizzata una discussione da un gruppo di cittadini: era il momento in cui Ermanna Montanari del Teatro delle Albe ne prendeva la direzione. In quell’occasione c’erano molti giovani e adulti, appassionati di teatro o di arte o di altro ancora. Ognuno esprimeva il suo punto di vista sul festival, tra critiche e ringraziamenti, dubbi e pareri positivi. Un altro momento di confronto molto importante, che precede ogni edizione, è il consiglio comunale. Da un lato Santarcangelo è molto accogliente, e l’essere tornati a occupare le piazze, le grotte comunali, i negozi, fino ad arrivare nelle case private è stato molto apprezzato. L’aspetto più di attrito, di conflitto, è la percezione che si fatica ad avere sulla portata internazionale delle proposte. Non tutti sono in grado di comprendere la dimensione non solo locale del programma. È un’accusa che ha a che fare con una “non risposta” rispetto a una domanda di intrattenimento che ci viene sempre posta. Noi scegliamo uno scarto, una relazione con la domanda che adotta strumenti non consueti, come la serata di ballo liscio in cui solo chi danza può sentire la musica.

 

R. S. Invece di inventare una stagione invernale abbiamo organizzato un “Anno Solare”: non aveva senso costruire un calendario teatrale in città, e noi abbiamo scelto di rispondere scegliendo dei lavori presenti nelle città vicine, accompagnando i partecipanti con un pullman, una vera e propria “Compagnia di giro”, ma composta da spettatori. “Anno solare” ha avuto quindici appuntamenti da febbraio a maggio, compresa l’apertura di alcuni momenti di lavoro degli artisti in residenza. Crediamo che questo progetto abbia dato una spinta al festival, soprattutto per costruire un luogo che non si accendesse solo durante i dieci giorni del festival, ma che rendesse visibile il lavoro nascosto che si fa durante l’anno.

 

 

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