Sapere di sognare e darsi un corpo
Che lingua parlano gli uccelli e qual è il loro orizzonte? Da questo interrogativo ‘modesto’, termine che implica mitezza e temperanza, nasce l’opera rifulgente proposta alla Biennale Teatro 2023 da Armando Punzo, Leone d’oro di quest’anno, insieme alla Compagnia della Fortezza. Naturae – la valle della permanenza – questo il titolo – porta a temporaneo compimento un lavoro di ricerca durato otto anni. Iniziata con Shakespeare, è per stazioni successive approdata al paradiso del mistico sufi Farîd ad-Dîn 'Attar. La ‘valle della permanenza’, là dove si può restare, segue la ‘valle dell’annientamento’, dove si muore a sé in quel doloroso divenire che è la cifra esatta del proprio essere.
Naturae – la valle della permanenza
La scena, un tappeto di sale di abbagliante biancore, è conclusa sul fondo da una parete-muraglia bianca e nera. Agli angoli, in attesa, strutture e cubi cavi che fanno pensare a un quaderno di prima elementare a quadretti sfuggito alla bidimensionalità. Spazio definito, contenitore e recinzione: guai a uscirne, guai a credere che sia l’unico possibile. Un bilico tra obbedienza e disobbedienza, disciplina e annuncio di un possibile scarto. Richiamo all’ordine, invito all’andare oltre. Non a caso, nell’angolo in alto a destra, cataste di libri impilati sul pavimento saranno presto disposti sui ripiani di un’improvvisata libreria: la parola, scarnificata fino all’osso, affidata quasi interamente a voci fuori scena, può (deve?) a sua volta uscire dall’involucro libro, dispiegarsi e spiegarsi attraverso l’azione dei corpi su altri corpi nello spazio-tempo della scena.
L’umano corpo-fortezza, individuale e monadico, caro al bianco sogno di onnipotenza occidentale, qui cede a una più umile e realistica appercezione del reale: il corpo non è ‘in sé’, ma nell’intreccio con il corpo altrui, umano e non umano, e con la materia delle cose. Dunque è un corpo in costante trasformazione, affetto, impressionato, mai per sempre, mai nello stesso modo. Il suo tempo non è l’implacabile tempo lineare che inchioda al passato proiettando verso un futuro già tracciato. È un corpo piegato e duttile, ben cosciente della propria e altrui vulnerabilità, affidato a quella rischiosissima contiguità che consente di mettere al lavoro le proprie ferite, ma anche di infliggerne e di riceverne altre. Corpo che si fa e si disfà in relazione, la sua indipendenza è una favola e una condanna.
Al centro di quel friabile rettangolo senza orizzonte delimitato sugli altri tre lati dal pubblico c’è, ancor prima che spettatrici e spettatori prendano posto, Armando Punzo. Presenza aerea e lieve in abito nero, mercuriale genius loci ilare e benigno, sorride a ogni singolo membro della compagnia e al suo insieme. Come un direttore d’orchestra con la propria bacchetta e il movimento delle mani, con quel sorriso Punzo pare dirigere una sinfonia. La sua compagnia a poco a poco si rivela davvero un ensemble musicale. Ogni attore è interprete ed esecutore di una partitura musicale che lo vuole protagonista accanto a tutti e a ognuno degli altri. Il suo strumento/corpo entra ed esce, ascolta, tace, si insinua, riesplode, urla, sussurra, canta, piange, scherza, stringe, accelera, precipita. I movimenti si alternano, si sovrappongono, si incalzano: allegretto, allegro moderato, vivace, vivo, vivacissimo, allegrissimo, presto, larghissimo, adagissimo, lentissimo, grave, solenne, altero, sostenuto, larghetto, adagio, andante. Gli strumenti/corpo si accostano, si separano, si lasciano per poi cercarsi di nuovo, si aprono un varco non contro, ma insieme. A stringere quel legame, in un’invariata luce meridiana che non offre il riparo dell’ombra, le musiche originali e il disegno sonoro di Andreino Salvadori, parallelo sapiente maestro di scena.
In quest’atto provvisoriamente finale di Naturae, la tessitura ritmica intreccia i corpi e la loro vicenda in una geometria di colori e di forme la cui bellezza e lo stupore che la bellezza genera hanno una necessità stringente. Difficile distinguere i corpi dai costumi che indossano o che dai corpi si fanno indossare, difficile vedere gli oggetti di scena se non come protesi di corpi che di quegli oggetti sono a loro volta protesica diramazione.
“Il centro cambia secondo la posizione dell'osservatore, di conseguenza cambia l'orizzonte, che non può più essere guardato come un limite fermo e invalicabile”. Tutto muove, si muove e obbliga a muoversi. I costumi, disegnati da Emanuela Dall’Aglio, sono pelle e muta. I loro colori sbavano nei corpi, li tingono, li sfigurano, li riconfigurano, ne manifestano l’irriconoscibilità e l’irriducibilità al per sempre uno.
E i giocosi elementi scenici ideati da Alessandro Marzetti e dallo stesso Punzo – palloni, rami, scale a pioli, ombrelli, tappeti, una gigantesca mano-statua, un trionfo di frutta, una corazza, ciotole, bicchieri, un ventaglio fuori misura che fa pensare al volo di Icaro – si allineano sullo stesso spettro di tinte: bianco, rosso e nero. Qua e là l’eccezione del giallo e del blu. Eppure, in Naturae non c’è niente di lineare, di prevedibile, di regolare. L’azione scenica corre sul filo teso del possibile e del non ancora accaduto, qua e là in modo scherzoso, altrove implicando la minaccia, la sfida, la lotta.
Mai ordine cieco, mai caos gratuito: una terza modalità, tutta agita su linee di fuga capaci di opporsi tanto al primo quanto al secondo. La gratuità non esiste.
E una discrezione assoluta nei confronti del pubblico, una vicinanza mite ma non condiscendente che impedisce di guardare la scena e chi la abita come se fosse altro da te. Qui la quarta parete non c’è. A un tratto tre performer scelgono uno spettatore o una spettatrice e gli/le consegnano il capo di un filo rosso che parte dal loro costume. L’invito è a tenerlo stretto, a non lasciarlo andare. Tuttavia ciò che lega il corpo dell’attore a quello dello spettatore non è il gesto in sé, bensì lo sguardo che a esso si accompagna. È uno sguardo che invita con forza alla reciprocità. Intimo, sfrontato, chiede di essere ricambiato o perlomeno sostenuto. L’azione dura l’eternità di oltre un minuto ed è ad alta intensità erotica: non sono i corpi a rompere la distanza, ma quel guardarsi che è un riconoscersi, lì, in quel momento, per sempre, io te, tu me.
Si chiederà, chi legge, perché io non abbia fin qui fatto alcun cenno alla specificità della Compagnia della Fortezza, nata e cresciuta all’interno del carcere penale di Volterra. A chi volesse saperne di più consiglio il magnifico libro di Armando Punzo, Un’idea più grande di me. Conversazioni con Rossella Menna (Luca Sossella Editore, 2019). Non credo si potrebbe dire meglio che cosa è stata e continua a essere l’appassionata avventura artistica che lega un uomo di teatro ad altri uomini chiusi in ‘un luogo di pena’. Mi preme invece tornare al vortice emotivo, un vero e proprio spostamento, che la visione/ascolto di Naturae oggi irrevocabilmente produce. Sarà perché dal 2020 abbiamo tutti sperimentato gli effetti traumatici di un controllo assoluto sul nostro corpo in nome del ‘bene comune’, ma oggi la soglia tra dentro e fuori è meno netta. Quando non si è più padroni della propria vita e del proprio pensiero, “la prigione è grande come il pianeta. E lo scopo dei suoi muri non è tener dentro i prigionieri e rieducarli, ma tenerli fuori ed escluderli”.
Quando nella scena finale dell’opera di Punzo tre performer prendono a ruotare come dervisci, lo stato di trance verso cui si dirigono è anche nostro. Sulle spalle, a mo’ di croce o di ali, un attore porta una delle ingombranti strutture a griglia, due stringono in pugno un cubo cavo. Il regista/performer e la musica li spingono a vorticare più in fretta, in un crescendo tenero e violento. Ed è lì che lo spartiacque noi/loro definitivamente collassa, nel punto esatto in cui il loro vertice si rispecchia nel nostro fondo.
Het Land Nod
Het Land Nod, la terra di Nod, della compagnia belga FC Bergman, cui quest’anno è stato assegnato il Leone d’argento veneziano, è un’opera ‘muta’. Questo piccolo ed energetico collettivo nordico che si direbbe abbia in odio le parole, sembra tuttavia non saper rinunciare a ciò che di solito le parole veicolano: teoria, citazioni e racconto. Partiamo dunque da lì, da questa apparente contraddizione, che da un lato li porta a ricalcare con rigore assoluto le pratiche lunari dei clown circensi, la tecnica del mimo, il vocabolario corporeo e le gag dei grandi comici del cinema pre-sonoro, e dall’altro li spinge ad affollare la scena di citazioni e allusioni fin troppo chiare e di ‘effetti’ acustici e visivi la cui prevedibilità finisce per produrre noia e una vaga irritazione.
Il titolo intanto. Per sapere dove mai sia la terra di Nod bisogna prendere in mano la Bibbia, per la precisione il suo primo libro, quello della Genesi. Al capitolo 4, 16 si scoprirà che “Caino si allontanò dal Signore e abitò nella regione di Nod, a oriente di Eden”. Dunque siamo nel paese del fratricida, che tuttavia – scrive nelle sue Antichità giudaiche lo scrittore e storico ebreo Yosef ben Matityahu, più noto come Giuseppe Flavio, nato a Gerusalemme nel 37 d. C., ma cittadino di Roma – “continuò a far del male, ricorrendo alla violenza e al furto, introducendo unità di misura e confini e costruendo città fortificate”.
Che sia questo biblico riferimento a giustificare la sontuosa ricostruzione di una sala del KMSKA, il Museo Reale di Belle Arti di Anversa, all’interno di un capannone della zona industriale di Marghera? Vi è esposta la riproduzione di un’unica tela, il Gesù in croce tra i due ladroni, un dipinto a olio su tavola (424 x 310 cm) realizzato nel 1620 dal pittore Pieter Paul Rubens. L’opera, che per le sue dimensioni è un vero impiccio per il personale del museo addetto alla sua installazione e manutenzione, nella pièce crea problemi anche ai visitatori. C’è chi, al vederlo, perde i sensi, chi la ragione e la creanza, e chi lo usa come semplice fondale per qualche distratto selfie.
I performer, esecutori stupefacenti per coesione, resistenza fisica e una precisione a orologeria, sembrano mirare a una comicità elementare, a tratti vagamente trash. Strappano la risata al pubblico trasformandosi in maestri della caduta e della fuga, in acrobatici esperti di arte della resistenza. Si ride perché quella comicità ci è familiare e perché certi luoghi comuni fanno ridere nostro malgrado. Nel frattempo assistiamo a una scena che sembra ricreare la sequenza forse più celebre del Jules e Jim di Truffaut, e poco dopo a una rivisitazione della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, quindi – senza una vera ragione, se non appunto quella del gioco citazionistico che schiude una serie infinita di possibili universi visivi – alla riproposizione de Il Corpo di Cristo morto nella tomba, il dipinto di Hans Holbein il Giovane su cui Dostoevskij si interrogherà a lungo ne L’idiota.
Non credo ci sia bisogno di rivelare il laborioso colpo di scena finale, anch’esso in bilico tra farsa, slapstick e collassologia applicata al mondo della cultura e ai suoi cimiteriali templi, per dire che ciò che non convince fino in fondo in Het Land Nod è proprio la sua natura di pastiche ad alto contenuto di glamour. Se, come i migliori comici insegnano, la profondità sta nella superficie, la sensazione che qui i FC Bergman aspirino a qualcosa di diverso, di più serio e profondo, produce un vago disagio. Il loro giocarsi, mettendo non poi così scherzosamente alla berlina la cultura che li ha prodotti e li riproduce, rischia di ridursi a un farsi gioco del pubblico, a lasciarlo con un palmo di naso.
Le fotografie di Naturae di Armando Punzo e Compagnia della Fortezza sono di Stefano Vaja; quelle di La terra di Nod di FC Bergman sono di Kurt Van der Elst. Il sale di Volterra della scena di Naturae è delle Saline Locatelli.