Scontri di civiltà

16 Febbraio 2015

Era il crepuscolo. L’auto era grande, ma allo stadio finale. Troppo vicina al muro: come fanno gatti randagi o colombi, quando in città cercano un angolo per morire. Lungo la parte posteriore l’uomo aveva steso uno straccio e ci si coricava sopra. Ho fatto gli ultimi metri verso casa. Prima di entrare, mi sono voltato verso quei due relitti. C’era qualcosa di incomprensibile: perché non si metteva sulla schiena, perché non scivolava sotto la macchina, perché in mano non aveva una chiave inglese? Su un palmo di vento mi hanno raggiunto le aspirate forti del Corano. Allah, il soffio divino. Salito in casa, ho aperto la finestra; sono rimasto a contemplare quel fossile spirituale che respirava su un marciapiede di Milano, finché si è incamminato con la coperta sotto il braccio. Con una carta geografica, ho traguardato i tetti nella direzione del suo inchino: l’auto non era sua, gli era solo servita da riparo per volgersi perfettamente alla Mecca. Non ci si inginocchia davanti a una automobile, solo davanti a Dio. Chi dice che l’Islam è troppo orgoglioso e assolutista per adattarsi al nostro mondo dovrebbe inciampare in questa umiltà, stesa fra gli interstizi dell’asfalto.

 

Mi tornava alla memoria mentre ascoltavo le notizie di Parigi. Quell’uomo, in cosa crede? Certo, non nelle responsabilità personali, come noi europei moderni, ma in quelle collettive e storiche, delle grandi masse o magari dei continenti. Nelle registrazioni francesi risuona la voce di uno degli attentatori: «Voi bombardate la Siria e l’Iraq, massacrando ogni giorno bambini. “Noi” non abbiamo ucciso civili. Abbiamo dei codici di onore». Per “loro” è semplicemente una guerra: con la redazione di Charlie, ma in cui “noi” siamo già tutti arruolati, se accettiamo Charlie e il sistema in cui si pubblica. Del resto, già distinguere così tra “loro” e “noi” è guerra. Bush aveva reagito all’11 settembre dichiarando «Siamo in guerra». Dal 2001. Contro di “loro” non esiste “de-terrenza”: un concetto (usato per le armi nucleari nella Guerra Fredda) che significa “terrorizzare l’avversario paralizzandolo prima che agisca”. Come suggerisce la calma delle loro telefonate un attimo prima di morire, di cosa possono avere ancora paura? Tutte le misure di sicurezza, tutte le nuove immense spese, serviranno a poco. O forse serviranno a surriscaldare l’odio e la paranoia collettiva in un gioco di riarmi. Non si accumuleranno più studi e analisi, in cui si sottolineano le diversità ma ci si accetta, solo sospetti: così si sarà tentati di ricorrere alla violenza per primi.

 

Poco dopo la strage, un collega di Parigi manda una mail circolare: “Io non sono Charlie”. Vuole distinguere, usando la propria mente. Proviamo anche noi. La libertà di espressione non si esercita nel vuoto, ma nella società e nella storia: fitte di altri diritti, con cui deve essere bilanciata. Per l’Europa e per l’Italia, fra l’altro, con un diritto alla diversità: al suo riconoscimento e al suo rispetto, che hanno dovuto ricevere più attenzione da quando la piramide della società posa su un pianterreno di immigrati. L’Europa è più centralizzata e sottoposta a interventi statali dell’America. Questo vale anche per la libertà d’espressione: il Mein Kampf di Hitler è vietato in Germania, ma in libera vendita negli Stati Uniti. Nella società multietnica di oggi sarebbe meglio spostarsi verso il modello americano. Là, il Primo Emendamento della costituzione proibisce al parlamento di varare qualunque legge che limiti la libertà di espressione. I ragionevoli argini all’arbitrio e all’eccesso nell’uso di questi diritti sono ottenuti attraverso auto-limitazioni. Come sappiamo da Hollywood, dove per le pellicole con temi sessuali si producono una versione europea ed una americana, castigata. Con la diffusione del “politicamente corretto”, l’informazione degli Stati Uniti si è poi auto-imposta dei limiti nei confronti delle minoranze: afro-americani, omosessuali, disabili vengono presentati facendo attenzione a separare la critica dalla condizione di appartenente a quel gruppo. Si scriverà: il ladro che ha commesso furto, non il ladro “latino”, anche se è tale e se il giornalista odia i latinos.

 

Maurizio Cattelan, Charlie don't surf, 1997

 

Cosa fa chi critica senza porsi limiti? Chi provoca dovrebbe dichiarare il proprio scopo e assumersene i costi. La provocazione è tale perché contiene un volontario eccesso espressivo, che ho già cercato di analizzare nel breve saggio La morte del prossimo. La provocazione ripetuta perde il suo effetto critico: le caricature di Maometto si ripetono, talvolta senza neppure variazioni, da dieci anni (lo Jyllands-Posten le pubblicò per la prima volta nel 2005). Sembrano diventate un braccio di ferro, un fatto personale: Vuoi impedirmi di ripetere le vignette? E io invece insisto. Alla fine “provoca” un risultato opposto: non solo non è più novità ma, come è accaduto negli anni ’60 e ’70, può ritorcersi contro gli autori. Qualcosa di simile sembra essere avvenuto con le vignette di Charlie. Il settimanale fa satira con potenziale politico. Ma qual è il programma che propone, o semplicemente sottintende, offendendo le immagini dell’Islam, ridicolizzandole in sé e per sé? La satira, si dice giustamente, è benefica perché esercita alla critica dei potenti. Charlie non fa satira contro i disabili. Anche i cinque milioni di musulmani, però, non sono un settore potente ma debole della società francese. Dei due fratelli che hanno commesso la strage, uno lavorava saltuariamente come fattorino di pizze, l’altro era iscritto alle liste disoccupati. È giusta una satira contro i deboli, che si sentono derisi non in quanto commettano azioni criticabili ma proprio in quanto appartenenti a un’altra cultura, ad altri valori, a un’altra religione? All’Islam sono finora mancati i vantaggi dell’Europa e oltre sei secoli di elaborazione storica rispetto al cristianesimo (per non parlare dell’ebraismo che ha millenni in più). Neppur troppo tempo fa, anche i cristiani mandavano a morte i “sacrileghi”. Gli spagnoli diedero all’inca Atauhalpa una Bibbia invitandolo (come oggi fanno i fondamentalisti islamici) ad ascoltarla e convertirti: siccome né il testo parlava, né lui sapeva leggere, l’inca lo buttò da parte. I rappresentanti della civiltà e del cristianesimo ne ricavarono un utile pretesto per massacrare lui e i suoi.

 

Invocare la libertà di espressione totale, di tipo americano, è quello che fanno i dimostranti con le matite alzate. Un rito commovente, ma che serve come rassicurazione reciproca all’interno della società francese ferita: mentre non serve, o addirittura è negativo, rispetto ai complessi equilibri tra le culture. Invocare una libertà di espressione assoluta, di tipo americano, ha senso quando si applica fino in fondo il modello americano: che include l’auto-limitazione per non offendere determinati settori della società. Un rito politico e mediatico nato dal Primo Emendamento, del 1791. Per il momento non ha funzionato non solo in Francia (figuriamoci in Italia), ma neppure in Danimarca, dove il maggior quotidiano di destra (lo Jyllands-Posten) fu il primo a pubblicare vignette satiriche su Maometto: per poi chiedere scusa con un editoriale alcuni mesi dopo. Una cultura che negli Stati Uniti ha oltre due secoli non può essere importata dall’oggi al domani: eppure, l’auto-responsabilizzazione e una certa dose di auto-censura sono strade da praticare se vogliamo sopravvivere in una società multietnica. Con la strage delle Torri Gemelle Susan Sontag scrisse che l’America aveva perso l’innocenza. Anche l’evento di Parigi corrisponde a una perdita di candore da parte del bianco frutto europeo, circondato dalla buccia scura delle periferie islamiche. Noi viviamo in un ottimismo occidentale, mercantile, ormai americano. La psicologia collettiva ha sempre un contrappeso nascosto: laici senza Dio, non siamo più abituati a credere al male. Le organizzazioni fondamentaliste avevano preannunciato le loro intenzioni: eppure, quando i sacrifici umani si compiono, la mente europea è raggiunta di sorpresa. Era avvenuto con Hitler, che aveva anticipato le sue aggressioni nel Mein Kampf, ma non fu creduto.

 

Jake & Dinos Chapman, The Sum of All Evil, 2013-2014

 

I proclami fanatici dischiudono culture diverse, ma non sempre per il peggio. Dagli archivi di polizia sui due fratelli attentatori apprendiamo che sul lavoro non stringevano la mano alle donne, che in tribunale non si alzavano in piedi se il giudice era femmina. Anche questo ha una controfaccia nascosta. Una sopravvissuta della redazione di Charlie si è stupita di essere viva. Le hanno puntato addosso il Kalashnikov, ma hanno aggiunto: Noi non uccidiamo le donne. Ma tu devi leggere il Corano. Più tragicamente si è stupito un suo collega: Ai primi spari, ha detto, pensavamo fosse il solito scherzo. Dai mortaretti si è passati ai morti. Noi europei sorridiamo, finché le nostre lacrime non dimostrano a noi stessi il contrario (è avvenuto con la ministro Fornero). Berlusconi faceva le corna nelle foto ufficiali. Hollande – meno volontariamente, ma facendo ridere di più – si è fatto fotografare nascosto dal casco, mentre sul sellino posteriore di uno scooter se la svignava dalla presidenza per una scappatella. Molti immigrati islamici non vogliono integrarsi né ridere con gli europei perché sono convinti – non sempre infondatamente – di avere nella borsa meno soldi ma più dignità.

 

Con la nuova copertina di Charlie – dove Maometto piange – si cerca di non separare più la coesistenza di lacrime e sorriso, umana e psicologicamente vera. Ma anche questa, dovremmo temere, è una considerazione postilluminista, quasi psicoanalitica: sorda, per quel mussulmano naufrago che ha trovato una zattera nella Jihad. Per molti islamici continuerà lo scandalo. Che non consiste, va notato, nel rappresentare il profeta in sé, ma nel farne caricatura. È un “sacrilegio” che sta allargando la sua diffusione: Charlie normalmente vende 60.000 copie, ma il nuovo numero è arrivato di colpo a tre milioni; e ci si sta attrezzando per tirarne cinque. Serve davvero la loro diffusione? Tre, cinque milioni di offese a una religione sentita come diversa sono come altrettanti nuovi voti alla destra estrema. Sono scelte in favore del minaccioso “scontro di civiltà” di cui, dopo qualche anno di pausa, ora si tornerà a parlare. Significano credere a una contrapposizione tra Cristianità e Islam che trabocca in guerra civile dei monoteismi.

 

Questo testo è uscito in versione breve su il Venerdì di la Repubblica.

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