Scuola: la classe in scena
Riaprono le scuole, ricominciano i corsi all’università e un coro unanime esprime soddisfazione per l’agognato ritorno in aula. Altri dibattiti – la Regina Elisabetta, le elezioni e il nuovo governo di destra – appassionano i media. Eppure, dopo tre anni di didattica online o mista, qualcosa meriterebbe di essere se non discusso almeno segnalato. Provo a farlo sul lato università, quello che meglio conosco, attraverso lo specchio di una similitudine cui lezioni online e lezioni in presenza possono essere facilmente collegate: cinema e teatro.
Teatro e cinema sono due strumenti di comunicazione fondati sulla performance e sul corpo di un attore che imita azioni e situazioni immaginarie inducendo il pubblico a ritenerle come reali. Il teatro è anzi una delle vie più antiche e universalmente diffuse della narrazione e della trasmissione di informazioni o contenuti ritenute (o diventate) decisive per una società o per una ‘cultura’: dalle tradizioni giapponesi, alla tragedia greca fino alle rappresentazioni religiose del medioevo e al teatro dell’assurdo del Novecento.
Lo spettacolo teatrale è straordinariamente efficace: simulando l’illusione della realtà persuade e seduce il pubblico, ne condiziona i valori e i comportamenti. Consapevole di questa capacità straordinaria e dei suoi rischi (trasmettere valori o informazioni sbagliate o peggio dannose) Platone aveva teorizzato la superiorità della poesia epica in cui il narratore racconta e assume la voce dei diversi personaggi (oggi diremmo il romanzo) rispetto al teatro fondato sull’azione drammatica in cui i personaggi riproducono in modo diretto un reale ingannevole e bugiardo.
Il teatro lascia meno spazio alla riflessione e alla critica del destinatario, l’illusione scenica convince e trascina senza possibilità di controllo. Come aveva già scritto un altro filosofo, Gorgia, vissuto ad Atene quando appunto fioriva la grande stagione del teatro greco, la parola – la parola in performance – è un potente signore che compie azioni straordinarie: convince il pubblico a soffrire o a gioire per la prosperità o la sfortuna di persone e vicende a lui estranee come se fossero proprie.
Quanti hanno avuto la fortuna di seguire lezioni di maestri universitari ne ricordano certo ancora il timbro e le modulazioni della voce, la loro azione scenica: in piedi e in continuo movimento (come Ezio Raimondi) oppure seduti dietro la cattedra o più informalmente su di essa (come Umberto Eco); con il gesso in mano a compilare formule infinite o schemi su una lavagna presto trasformata in una mappa illeggibile e per questo ancora più preziosa (mi raccontano amici scienziati di professori che per non cancellare calcoli complessi continuavano a scrivere sul muro); oppure con una borsa piena di libri da cui attingere citazioni e frammenti di sapere o bellezza trovando immediatamente e con naturalezza la pagina giusta senza alcuna esitazione (ed è il caso di Alfonso Traina).
Tutto questo era ed è teatro, anche per quanti non sono maestri ma comunque bravi e appassionati professori. A partire dal costume che si indossa o si indossava: la cravatta o il gilet, l’informale maglietta quasi lisa in stile campus americano, la camicia con le maniche arrotolate a significare impegno e passione. La lezione in presenza è fatta di corpi, di fatica fisica: in un seminario per dieci studenti può diventare anche dialogo e interazioni. In un’aula con due o trecento persone rimane la performance monologica di un solo mattatore. E soprattutto, per docenti e discenti, si tratta della costruzione con ruoli diversi di un rituale antico di cui si è parte e che è vissuto in modo collettivo: un rituale che dura almeno dai tempi della lectio medievale, ma a guardarci bene potremmo trovarne anticipazioni e schemi simili anche in età precedenti.
La pandemia ha brutalmente interrotto questo rituale mentre il mondo inevitabilmente era già cambiato. Nelle aule vi sono ormai i millennials, come si usa dire: avvezzi a controllare in diretta su wikipedia (ma anche sulla Treccani online) i nomi o gli eventi o le teorie enunciate o semplicemente riferite e alluse nel corso della lezione. I più arcaici prendono appunti su un laptop, ma la maggior parte lo fa direttamente sullo smartphone – e nel frattempo butta un occhio ai social. Anche i docenti sono ormai tutti aggiornati ai nuovi strumenti: non più libri né fogli di appunti, ma slides, link al web, video youtube tanto per chi insegna storia del cinema, ovviamente, quanto per chi si occupa di chimica organica e presenta agli studenti la spettacolare clip realizzata dal collega australiano in cui si riproduce un esperimento o semplicemente si mostra la mescolanza degli elementi.
Il teatro didattico tradizionale già da tempo era diventato una sorta di teatro sperimentale, e contemporaneo: a suo modo multimediale. A beneficio probabilmente di tutti: maggiore efficacia dell’azione didattica (se la lezione è bene preparata), maggiore possibilità di fruire (meglio il videoproiettore e lo schermo che consente di vedere anche in ultima fila rispetto alla lavagna e alle formule che sforano fino al muro). Restava la dimensione prevalentemente unidirezionale, broadcasting per citare il gergo di oggi, della comunicazione; con un livello di interazione possibile e in casi fortunati (o di eccellenza) efficace. Restavano, ed è opportuno dirlo fin da subito, le file vuote degli studenti-lavoratori o di quanti per varie ragioni hanno accesso limitato (per difficoltà di deambulazione, o per ipoacusia o perché ipovedenti): o non hanno del tutto accesso perché residenti altrove e privi di risorse per trasferirsi.
Poco male, questi ultimi hanno sempre potuto scegliere, talvolta loro malgrado, corsi universitari senza obbligo di frequenza. E anche questo va detto subito: un insegnamento che si propone aperto senza obbligare a frequentarlo è una contraddizione su cui prima o poi si dovrà ragionare. Restando nella metafora è come dire: abbonatevi alla stagione teatrale, e per quanti non potranno assistere all’Amleto sarà comunque possibile leggere il libro, disponibile anche in edizione economica.
Possiamo forse fare un primo, magari capzioso – ma inevitabile – ragionamento. L’università pubblica e di massa, in questa sua dimensione di necessario coinvolgimento in presenza di un ‘pubblico’ di studenti, conserva un inestricabile elemento elitario. La popolazione studentesca presente in aula, anche prima della pandemia, di fatto è selezionata sulla base del reddito (le risorse per vivere fuori casa o per studiare senza la necessità di lavorare), della presenza o meno di disabilità, e dell’eccellenza (uno studente bravo frequenterà anche se indigente e disabile, e supererà gli altri, perché otterrà borse di studio e troverà comunque modo di accedere anche a luoghi difficili: in ragione delle sue specifiche doti e caparbietà, tuttavia, e non della facilitazione che il sistema gli avrà messo a disposizione).
Per queste categorie, e probabilmente per la maggior parte degli studenti, la fine della DAD è sicuramente una buona notizia. Il teatro continua. Tra l’altro, laddove non vi sia quell’obbligo di frequenza, con molte file vuote perché è anche vero che a volte la sera si fa tardi e la mattina si resta a letto, o che quel professore è noioso oppure che tutto si trova nel libro o nella dispensa e frequentare è inutile. Al di là delle consuete questioni di principio, certo nobili e importanti, di fatto il tema della presenza/distanza si riduce spesso, anche nelle richieste degli studenti, a questa invero misera tassonomia. E quindi, ancora una volta, bentornato al teatro delle lezioni in cui le eccellenze si incontrano, i pochi studenti bravi e i professori, maestri o meno, comunque orgogliosamente e finanche giustamente convinti della propria eccellenza.
Ritorniamo alla teoria della performance del teatro e del cinema. Da oltre un secolo, infatti, il teatro ha subito la concorrenza spietata di un altro sistema di comunicazione ‘drammatico’, in cui agiscono i corpi, portatore di una straordinaria forza suggestiva e in grado di trascinare il pubblico con ancora maggiore efficacia. Nel cinema, il patto con lo spettatore che accetta di ritenere vere e reali azioni assolutamente inverosimili sposta ancora più in alto l’asticella. A teatro, dai tempi di Eschilo e fino a Shakespeare, è possibile simulare la presenza di un fantasma sulla scena, e tutti fingono di credere o accettano di credere che questo sia presente e reale: lo spettro del re Dario o del Re di Danimarca. Il cinema rende possibile far vedere un adolescente punto da un ragno arrampicarsi sui muri e lottare contro un uomo che si trasforma in sabbia.
Questo non sarebbe possibile in un teatro, e non solo per ragioni tecniche: si tratta di un livello di realtà finzionale (il fantasy, il fantascientifico) che non ammette la fisica presenza di un corpo che compie realmente quelle azioni. Omero può raccontare del mostro Polifemo che mangia i compagni di Odisseo, e nell’Odissea televisiva del 1968* di Franco Rossi, Lamberto Bava ce lo può mostrare con effetti scenici artigianali ma strepitosi. In un teatro questa scena può avvenire solo in modo indiretto, attraverso un racconto da parte di uno dei personaggi (e questa la funzione del ‘messaggero’ nella tragedia greca).
Oppure può essere lasciato all’immaginazione del pubblico con l’episodio agito dietro la scena, magari con suoni e rumori allusivi. Insomma, il cinema, come strumento ‘drammatico’, consente di fare cose che il teatro non può fare. Probabilmente questa capacità di far vedere tutto, di prendere per mano il pubblico e fargli vivere esperienze anche impossibili oppure di condurlo attraverso il tempo e lo spazio con più facilità, ha reso il cinema un mezzo più ampio, diffuso e amato rispetto al teatro. Meno di élite. E lo spiegava bene già Pasolini nei famosi dibattiti sul ‘cinema’ della fine degli anni 60 con il famoso esempio del bracciante calabrese (e per dire come sono cambiati i tempi, oggi quello stesso tipo sociale fa la fila per vedere i bronzi di Riace, alla fine restituiti dal mare, mentre i braccianti, di altra etnia, dal mare ci arrivano in Calabria quando non naufragano).
Non si tratta di dire se sia meglio o peggio; di certo è più nuovo (ha solo un secolo di vita non diversi millenni), di certo ha avvicinato alla performance drammatica un pubblico straordinariamente più ampio rispetto a quello del teatro. Molti conoscono Re Lear; difficile quantificare il numero di quanti lo hanno visto a teatro. Molti conoscono La dolce vita; presumibilmente, anche senza una consapevole scelta, hanno avuto o avranno occasione di vederlo prima o poi al cinema, in TV, su Youtube.
E arriviamo dunque a concludere questo parallelismo tornando alla didattica. Immaginiamo uno di quei maestri (in fondo si tratta solo di trent’anni fa) di fronte a una webcam mentre fa lezione e la registra. Non tutti gli attori di teatro diventano bravi attori di cinema, e viceversa. Ci accorgiamo subito che non ha senso pensare a Roberto Longhi – uno dei professori più amati appunto dallo studente universitario Pasolini – alle prese con un power point condiviso su Zoom con cui spiegare Piero della Francesca.
Tra vent’anni forse altri scriveranno su queste stesse pagine, raccontando di nuovi maestri che hanno agito in questo millennio, nella post-moderna età post-pandemica, con lezioni memorabili, in streaming o registrate, magari con milioni di visualizzazioni sul social che prevarrà in quel futuro prossimo, eppure così distante.
Possiamo però tutti noi – quanti insegnano, quanti frequentano lezioni, quanti semplicemente si pongono il problema – immaginare un modo diverso di concepire la didattica che sia più vicina alla performance cinematografica rispetto a quella teatrale.
Nella primissima fase della pandemia, primavera del 2020, agli albori della DAD, il corpo docente si è subito diviso tra apocalittici che paventavano la trasformazione degli atenei in università telematiche e integrati, pronti a sfruttare le potenzialità (e comodità) del nuovo sistema. Poi come noto la situazione è degenerata, le lezioni registrate o in streaming sono diventate parte di una quotidianità, più o meno sofferta: in attesa della palingenesi che solo quest’anno è arrivata dopo un anno cosiddetto ibrido, e forse il peggiore (lezioni in aula per i pochi e mascherati presenti; contestuale trasmissione via streaming per i molti rimasti a casa o nelle proprie città).
E nella ritrovata normalità, c’era d’aspettarselo, da molte parti la DAD torna a essere invocata: perché le aule sono troppo affollate, perché gli affitti sono troppo cari e la crisi economica incide, perché il video è un linguaggio di riferimento per le nuove generazioni…
Della lezione-teatro si è detto; qualche riflessione ora sulla lezione-cinema, ma potremmo dire sulla lezione-televisione: è vero che La televisione non esiste come scriveva Pasolini nel 1963, ma i tempi, è un fatto, sono decisamente cambiati. E nella forma cinematografica della performance didattica può esserci qualcosa di buono; ad altri, o ad altri tempi le riflessioni su cosa si perde e su cosa si guadagna ripensando i modi della istruzione superiore in un’università sempre più di massa (ma ancora, in Italia – e per fortuna – pubblica).
Il corpo scenico nella lezione-cinema può apparire più freddo, ma il volto del docente e i suoi particolari altrimenti non percettibili, la profondità dello schermo rendono tutto in un certo modo più coinvolgente. L’uditorio è raggiunto – fatti salvi i problemi di banda – nella sua completezza e con la stessa intensità. Non vi è solo un generico copione: la scaletta o il power point (e lo dico subito, non è questo lo strumento migliore), ma può esserci una sceneggiatura più ampia e articolata, se preparata. E’ possibile allestire una scenografia ed anzi variarla nei diversi ‘tempi’ della stessa lezione: non solo il classico fotogramma con la libreria in bella esposizione, ma con un po’ di immaginazione, e una videocamera che non sia quella fissa e consueta del laptop, introdurre per esempio panoramiche e campi lunghi.
Tre minuti di inquadratura di un tavolo di lavoro, prima dell’inizio della lezione, costruiscono già una sequenza significativa che spinge il pubblico a curiosare su fogli, oggetti, libri posti in apparente ma calcolato disordine su un desktop reale con cui si può entrare in contatto. È una vicinanza non da poco. Nel palcoscenico della cattedra ogni professore, come si dice, ci mette la faccia. Ma davanti allo schermo questa esibizione è amplificata.
Occorre essere più in ordine, o in un disordine ragionato a segnalare passione e dedizione; occorre truccarsi e adornarsi, creare un kosmos, parola greca che indica appunto tanto la bellezza, quanto l’universo quanto la pratica di ‘truccarsi’. La voce non deve lottare con gli impianti audio che friggono, il bisbiglio o semplicemente l’inefficienza acustica di molte aule: ma può essere calibrata e modulata. Diventare calda, morbida, energica, distaccata, assertiva, appassionata sulla base delle parole che via via fluiscono. Il docente, anche se non è un attore consumato, può imparare a recitare (ed è, credo, più facile per i non avvezzi senza la presenza di imbarazzi prossemici)
Questi i primi dati essenziali del corpo e dell’ambiente scenico in una esibizione attraverso il video. E già se ne intuiscono le potenzialità e le difficoltà: non mi riferisco a quelle tecniche e dei diversi hardware, ma piuttosto al software. Alle modalità con cui per tradizione e imitazione i docenti sono da secoli, o da millenni, programmati a questa forma certo straordinaria e piena di fascino di lectio. Modalità che non vanno ripetute quando si sta davanti a uno schermo e si parla con un pubblico di sei o seicento studenti come se ci si rivolgesse direttamente ed esclusivamente a ognuno di loro.
Questa è la magia del cinema, o della televisione; queste le ragioni che hanno portato l’arte della decima musa a superare in termini di pubblico e di efficacia gli altri generi: al punto che negli anni sessanta dello scorso secolo uno dei nostri più intensi romanzieri e poeti, ancora Pasolini, si inventa regista e autore di film memorabili per continuare a comporre poesie o a raccontare storie con l’unico linguaggio che il suo tempo gli concedeva.
Come il cinema ha saputo superare l’élitarismo, ormai borghese, del teatro e della poesia, così la lezione-cinema è in grado forse di costruire un linguaggio di relazione che non possiamo trascurare. E proviamo, per concludere, a fare qualche esempio per contrasto.
In primo luogo il cosiddetto feedback. Il ‘rumore’ e la dispersione, insieme a timidezza e inerzia (è difficile per uno studente rompere la finzione ‘teatrale’ e ardire di salire sul palcoscenico) in molti casi impediscono forme dialogiche; dietro lo schermo si può avere una grande facilità di reazione, tempi lunghi per articolare e formulare domande, media diversi cui affidarli (solo l’audio, la chat, audio e video insieme per i più arditi). Mentre si segue il flusso della lezione questa può essere ripensata e collocata, da ciascuno, nel proprio universo, nel proprio computer, nel proprio bagaglio di attrezzi.
Il contesto performativo è orizzontale e di completa condivisione del luogo, senza i vincoli gerarchici dello spazio ben strutturato dell’aula, con la cattedra – simbolo di potere e autorità – posizionata frontalmente davanti a una platea indistinta. Ma questo non riduce la funzione autorevole, ed anzi il docente può condividere tutto il suo tavolo di lavoro: biblioteca, appunti e fogli, lo spazio intimo e provvisorio del proprio hard disk.
Può alzarsi e prendere un libro per verificare una citazione non prevista: apre comunque una finestra enorme sulla sua vita di studioso, sul suo quotidiano e la condivide, innesca il meccanismo fondamentale dell’apprendimento, come prima dei pedagogisti suggeriva già Aristotele, l’imitazione. Ed è l’imitazione del reale il fondamento tanto del teatro quanto del cinema; e tanto più vivo questo meccanismo si ritrova nel potere illusionistico e seduttivo del cinema che ingrandisce il volto.
E infine: il video è un mezzo forse poco familiare per questa generazione di docenti; magari non lo sarà per la prossima. Sicuramente non lo è per i discenti: video, streaming, chat e tutto non necessariamente da un desktop ma a portata di mano nello smartphone. Questa forma di comunicazione che a noi appare riduttiva, inferiore, impoverita (e forse tutto questo è vero, almeno per adesso) è in realtà abituale, consueta, familiare per gli studenti. In molti casi è il canale privilegiato per l’acquisizione di informazioni e competenze, quasi sempre è lo strumento principe di comunicazione, almeno lo è per quanto è ritenuto importante da questi interlocutori di cui si dovrà pur tenere conto.
Platone, come noto, svalutava il nuovo e dirompente medium, la scrittura, e proponeva di mantenere viva la sapienza attraverso l’oralità. Lo stesso Platone è comunque a noi noto perché è diventato uno dei più efficaci scrittori del mondo antico. Credo che la nostra età in qualche modo assomigli a quel periodo di transizione tra persistenza, talora nostalgica, dell’oralità ed efficacia della scrittura che troverà compimento nel successore stesso di Platone, e cioè Aristotele.
Il «maestro di color che sanno», come lo definirà Dante, si caratterizza per la sua impressionante collezione di libri e per la sterminata mole di appunti scritti, di suo pugno e dagli allievi, per le lezioni che oggi continuiamo a leggere e studiare. Aristotele, il migliore allievo di un maestro teatrale come Platone che gli altri compagni prendevano in giro e con ostilità bollavano come il “lettore” per la sua abitudine di appartarsi con un rotolo di papiro in mano.
Anche se in piccolo, come nanerottoli sulle spalle di giganti, stiamo vivendo una transizione simile tra la scrittura e il teatro e la video-oralità liquida della rete; dobbiamo quanto meno tenerne conto, soprattutto quando è in ballo la formazione superiore delle nuove generazioni. Perché sia efficace. Perché le conoscenze non siano cercate altrove.
Non so e nemmeno mi interessa sapere se il teatro sia superiore al cinema, se la lezione tradizionale sia meglio di quella in streaming, se i canti orali dei poemi omerici siano meglio o peggio della scrittura laboriosa e ricercata di Virgilio, se i webzine siano meglio dei magazine. Credo che in questa fase storica una lezione a distanza, in video, sia più difficile e impegnativa di una lezione in aula. Credo anche che questa modalità continuerà a essere richiesta, se non preferita, dalle prossime generazioni di studenti.