Speciale

Libera dalla misura / Scuola. Valutazione, meritocrazia e premialità

21 Gennaio 2017

La riflessione sulla competizione di Beatrice Bonato, insegnante di scuola superiore e studiosa di filosofia, tocca tutti gli aspetti della realtà sociale: Sospendere la competizione, 2015 discute la presenza costante e inavvertita degli elementi agonici della sfida, del merito, della valutazione nelle trame sottili dei discorsi che orientano le nostre vite.

La logica della competizione – guerra, sport, politica, mercato e su tutto educazione – è infatti stata naturalizzata ed ha assunto il ruolo di forza dinamica biologica fino a diventare un potente meccanismo di produzione di soggettività, che determina condotte individuali all'interno di scenari considerati socialmente desiderabili. 

L’ideologia della valutazione oggi dominante è infatti strutturata come insieme di pratiche “di sapere e potere” e trova nelle società contemporanee applicazioni sempre più pervasive e diffuse: si vuole rispecchiamento oggettivo della realtà ma è piuttosto (secondo la definizione datane da Valeria Pinto) «uno strumento informativo-operativo» che «crea le realtà limitate che di volta in volta valuta (ossia indirizza, modifica, determina)». È dunque un dispositivo governamentale in senso foucaultiano, cioè un prodotto di ingegneria sociale correlato alla definizione di un homo naturaliter œconomicus

(Vedi: La valutazione; Cosa significa insegnare?; Giovanni Leghissa. Neoliberalismo).

 

La forza del modello competitivo sembra derivare «tanto dalla perentorietà con cui viene applicato, quanto dal suo radicamento nella cultura di cui siamo eredi», scrive Bonato: «nella costellazione concettuale che chiamiamo neoliberalismo, la nozione di competizione riveste una posizione significativa, forse fondamentale. […] Funziona come un importante tassello della costruzione di un progetto sociale, politico pedagogico che ha tutta l'aria di essere l'indiscutibile e intrascendibile orizzonte del presente e del futuro».

Il libro fornisce innanzitutto una genealogia della competizione che attraversa la storia del pensiero, da Platone a Hobbes, da Hegel a Nietzsche, da Girard a Fukuyama, e incrocia la storia della filosofia con il pensiero biologico e sociologico. I lavori di Derrida, Lacan, Sloterdijk, Agamben, Nancy, Boltanski sono mobilitati nell’analisi decostruttiva del paradigma competitivo, di cui sono esplorate diverse dimensioni: sfida, gioco, violenza, rischio, interesse, auto-perfezionamento, volontà di potenza, riconoscimento, godimento. I miti agonistici emergono come tratto costante della soggettività occidentale, nella fondamentale ambivalenza che oppone il miglioramento di sé, nella cura e nell'amore, alla squalifica dell'altro e alla rivalità che mettono gli individui in conflitto per le risorse fondamentali, siano esse materiali o simboliche, per culminare con l’atomizzazione e reificazione sociale all'interno del mercato, luogo altrettanto mitico e snodo della descrizione capitalistica del mondo.

 

Un’intera sezione del libro è dedicata alla scuola come laboratorio in base allo «scambio simbolico tra scuola e governo generale delle vite»: si è assistito alla prova generale di una (sedicente) grande svolta competitiva e meritocratica che ha inteso la scuola come azienda per poi considerare tutta la società come una scuola così intesa, in cui sentirsi costantemente “messi alla prova” e “sotto esame” per meritarsi il diritto a una vita desiderabile, in nome del grande cambiamento epico/epocale, di linee guida di indirizzo europeo e sotto la spinta di istituzioni sovranazionali.

«Qui, nel breve giro di alcuni anni, si è avviato un vasto esperimento di trasformazione delle logiche gestionali e professionali nonché dei profili comportamentali dei soggetti coinvolti nella vita scolastica». Qui si è vissuto in modo disorganizzato e scomposto, a tratti isterico e cialtronesco, la riforma valutativa imposta dall’alto e senza formazione, fatta di “buone pratiche”, indagini, questionari e innovazioni spesso prive di rapporto con la realtà ma coerenti con le parallele politiche del lavoro, della sanità e del welfare.

Infatti, se una forma di valutazione della programmazione e dello svolgimento è legittima, utile e necessaria in ogni cosa, non è detto che lo siano gli strumenti con cui questa viene attuata nella sfera scolastica, in particolare non «è ovvio che si debba farlo attraverso pagelle e voti».

 

 

In questo senso viviamo un potente ritorno conservatore, se non una persistenza di lungo periodo, della religione del voto. Chi la segue, sembra essere inchiodato all’ottenimento di risultati misurabili e all’istituzione di rigide prassi metodologiche e disciplinari per raggiungerlo, mentre il senso di ogni valutazione dovrebbe essere capire come si fanno bene le cose, servendosi anche di strumenti sensibili. Capire come raggiungere la consapevolezza delle proprie procedure di conoscenza e di quali pratiche mettere in atto per perseguirle e consolidarle nel modo più efficace.

Ignorando decenni di grande ricerca sulla valutazione, sull’autovalutazione e sul lavoro di gruppo e sul loro valore formativo, in Italia mi pare si sia preferito prendere direttamente spunto dalla più deleteria (e fallimentare) esperienza aziendalistica, convocare guru e potenziare i dirigenti per scatenare una serie di parole chiave – agenti del cambiamento, mission, vision, customer – e una serie parossistica e tecnicizzante di acronimi ministeriali in un diluvio di burocrazia, con l’effetto di sdoganare il più profondo sentimento anti-ugualitario dentro la scuola e offrire all’esterno lo spettacolo di un’offensiva contro “l’insegnante", prototipo del fantasma del collettivo, del pubblico e di un diverso tempo del lavoro da snidare, depotenziare e mettere all’angolo in quanto inattuale nel terzo millennio.

 

La meritocrazia in questo senso è la farsa più offensiva e pericolosa, perché a differenza del merito, che avrebbe anche un senso e riguarda le capacità di ognuno, è la messa in pratica di un’ideologia che ricalca forme di mimesi e omologazione autoritaria. Bonato ricostruisce la storia del concetto, già di per sé inquietante: si tratta della distopia descritta da un romanzo di Michael Young che nel 1958 immaginava un sistema sociale oppressivo, basato sulla capacità lavorativa. Il fatto che i teorici contemporanei della meritocrazia non ne abbiano colto l’aspetto negativo assumendolo come modello positivo dovrebbe dire molto (del resto, come non pensare a quando 1984 di Orwell è diventato prima programma di intrattenimento e poi modello narratologico di soft power per vari governi?).

Bonato coglie con precisione il senso della meritocrazia e la sua differenza dal merito.

«La meritocrazia è un progetto in cui l’individuazione del merito di ciascuno è l’altra faccia della selezione negativa di qualcun altro, anzi di molti altri». Infatti se si volesse davvero migliorare la qualità dell’insegnamento si dovrebbe sostenere con risorse adeguate il sistema educativo in tutti i suoi aspetti e per quanto riguarda il personale scolastico favorire il ricambio generazionale e stabilire chiaramente procedure di formazione, accesso, carriera; e così stabilire il rapporto tra compensi e incarichi sulla base delle competenze richieste per ricoprirli; contestualmente consolidare l’esistente e promuovere l’innovazione con forme di sostegno a percorsi e progetti, finanziandoli seriamente e retribuendo le persone coinvolte in relazione al lavoro dedicatovi.

 

Assistiamo invece a una apologia dell’efficientismo che ignora la conoscenza elementare della sociologia della scuola, volta a pubblicizzare l’“eccellenza”, sia tra i ragazzi che tra i docenti, a esporre il meritevole e il “super-professore” attraverso il gioco della distinzione tra buoni e cattivi, con l’idea retrostante che ci sia una massa amorfa di incapaci e perdenti, esclusi naturalmente a partire dal ranking a cui si trovano inchiodati. Tra i difetti di questo sistema, che sfrutta i più tristi sistemi di omologazione verso il basso e di premiazione come adulazione del potere, c’è l’ignorare che qualunque cosa sia l’eccellenza quasi mai questa è solo il prodotto del sistema che si vorrebbe promuovere con il discorso premiale, ma è un risultato stratificato che ha altre cause, complesse da comprendere e riprodurre. E sicuramente poco funzionale alla narrazione individualistica e agonistica che necessita di semplificazione e scorciatoie comunicative per funzionare.

Proprio nel rapporto tra uno, pochi e molti storicamente si realizza l’autobiografia della nazione, basti pensare al fascino del leader forte e al rapporto tra minoranze e masse. La questione mi sembra dunque la meta-pedagogia intrinseca e interna alle pratiche educative stesse, che ha nella promozione e nell’educazione del collettivo e della ricerca del bene comune il suo cuore pulsante. 

 

Ph Emmet Gowin.

 

In una scuola media torinese di un quartiere che ha al suo interno tante difficoltà quante iniziative per rispondere ad esse un gruppo di docenti ha messo in atto una particolare forma di protesta contro le recenti disposizioni ministeriali volte a premiare “i docenti meritevoli” contestando proprio le logiche di individuazione/esclusione che ne stanno alla base.

Come si legge nel loro documento pubblico, dopo aver stabilito criteri i più inclusivi possibili e rappresentativi delle diverse forme di attività e di didattica praticata, «la scuola media statale Bobbio, plesso di via Ancina 15, nella persona dei suoi insegnanti insigniti del bonus di merito, dichiara di non riconoscere il valore conferito dal Ministero al bonus in oggetto. Per tale motivo, gli insegnanti accettano il bonus esclusivamente per reinvestirlo in progetti e materiale utile alla scuola in cui lavorano».

Non contrari alla valutazione del proprio lavoro, i docenti contestano una scuola «in cui la presunzione di merito diventa il pretesto per una guerra tra poveri a causa della quale viene meno il principio di collegialità», individuato come aspetto vitale e obiettivo prioritario di ogni comunità educante.

 

Nel documento chiedono non incentivi nelle forme eroico-spettacolari del singolo, ma una «riforma strutturale che ci doti di tutto quel materiale necessario e di cui siamo sempre più privi». «La scuola non è un concorso di bellezza, al massimo è una corsa ad ostacoli il cui superamento dipende dalla collaborazione di tutti, non dalla performance individuale. Chiunque abbia mai lavorato in una scuola sa che l'attività di un solo docente, per abile e meritevole che sia, senza la collaborazione degli altri membri del consiglio di classe, è pratica vana destinata al fallimento».

La scuola come ecosistema e bene pubblico e comune, in altri termini.

 

Come scrive Bonato, «non si può nascondere che le finalità democratiche di una scuola tesa a formare cittadini responsabili ed essere umani capaci di realizzare le proprie attitudini in una società giusta, contrastano apertamente con gli obiettivi meritocratici sottesi alla politica sempre più invadente delle competizioni tra scuole, delle gare e dei premi per i più bravi».

La scuola è infatti irriducibile e non sovrapponibile allo sport, alla gara, al mercato, all’azienda, al lavoro, benché ne sia ovviamente correlata e sia capace di insufflarvi le sue energie. Se dunque è il luogo in cui è esercitata l’“offensiva neo-liberale”, lo è altrettanto della resistenza ad essa e della proposta di possibilità differenti, scartate dal modello dominante; è a scuola che, parafrasando Lacan, si impara che non ci sono titoli «per misurare il valore delle vite»; che nella quotidianità si possono sperimentare pratiche non competitive, «attività individuali o collettive incentrate sull’effettivo interesse per ciò che si studia o si fa». «Spazi di vita» sottratti «al regime della mera efficienza tecnica» e restituiti «a una dimensione comunitaria libera dalla misura».

 

Beatrice Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Milano-Udine 2015.

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