Sebald, l'amanuense della Storia
Chi ha conosciuto Sebald e ha avuto modo di seguirne da vicino il percorso letterario, come era accaduto al suo amico e editore Michael Krüger, sapeva che tra la sua scrittura letteraria e i suoi saggi non esistevano confini precisi e che soprattutto le sue perlustrazioni critico-letterarie erano quasi sempre alla ricerca di un nucleo latente, spesso rimosso, qualcosa di ‘unheimlich’, un grumo di disperazione, un’avvisaglia di imminente distruzione. Rivisitare criticamente l’opera di un autore era per lui un modo di ripensare la storia: quella che si sedimenta negli oggetti desueti, nelle memorie minime dell’infanzia o nelle biografie anonime di coloro che sono scomparsi e non hanno lasciato nulla di sé.
Il recente volume adelphiano intitolato Tessiture di sogno, titolo di un saggio su Nabokov compreso nel volume, accoglie testi che si presentano come riflessioni di tipo saggistico e altri che l’editore classifica come “Prosa”. Una distinzione che, per quanto legittima se osservata da lontano, a una visione ravvicinata si rende quasi superflua dinanzi alla filigrana riflessiva e autoriflessiva che sottende in forme diverse tutte le sue scritture. Nondimeno la combinazione dei testi raccolti nel volume si rivela come un esaustivo compendio delle diverse facce dello scrivere sebaldiano e soprattutto ne mette in luce i punti di orientamento teorici.
Le ‘tessiture’ del titolo racchiudono una visione dell’accadere che diffida della linearità del tempo storico e delle ampie e rassicuranti prospettive critiche: Sebald è semmai un amanuense della storia che ne copia i minuti dettagli annodando frammenti di passato, memorie di un tempo di cui si sono perse le tracce. La tela della sua scrittura, proprio perché rigetta la composizione rettilinea del racconto, ha il carattere del saggio, nel senso che Adorno e Benjamin hanno dato a questa parola: un errare senza meta alla maniera del flâneur, un indugiare sul dettaglio con l’intenzione di sottrarsi a una spiegazione totalizzante degli eventi per riuscire in questo modo a salvarlo dall’oblio e afferrare un qualcosa che assomigli, con molte cautele, alla verità.
Questo procedere in svariate direzioni, inframezzato da apparizioni improvvise, ha una sua intima analogia col sogno. Non a caso proprio Benjamin, le cui tracce in Sebald sono evidenti, stabilì la relazione tra il tempo storico, il tempo della veglia e il tempo del sogno affermando che la memoria del passato procede in forma onirica, mediante immagini che affiorano improvvise e che altrettanto rapidamente si dileguano nel momento del risveglio: “Non è che il passato getti la sua luce sul presente – scrive Benjamin – o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione”. La relazione tra passato e presente, dirà sempre Benjamin, “non è un decorso ma un’immagine discontinua”.
Questa idea che il passato affiori in modo imprevedibile, al di fuori di ogni narrazione, da una profondità che non conosce la ratio della storia, Sebald la fa propria dandole tuttavia un preciso connotato etico. Se Benjamin vedeva nella missione salvifica della memoria la missione del materialista storico, Sebald vi legge un dovere morale. Un dovere che scaturisce dall’indelebile colpa del popolo tedesco che si è reso complice di un regime criminale come quello nazista, corresponsabile del genocidio del popolo ebraico e della distruzione del proprio paese.
La colpa collettiva è lo spettro che aleggia in molti dei saggi raccolti nel volume adelphiano.
Ad esempio in Costruzioni del lutto. Günter Grass e Wolfgang Hildesheimer, dove viene affrontata la questione rilevante di come possa essere rappresentato narrativamente l’immenso fardello morale che grava sui tedeschi. La postura di Sebald è qui apertamente critica verso l’assenza di un reale confronto con il dramma della guerra e con l’immane distruzione che ne è conseguita, in primo luogo in Germania.
La domanda che chiude la riflessione sulla impossibilità del lutto è una dichiarazione di aperto scetticismo nei confronti della funzione narrativa tradizionale: “A partire dalle circostanze qui delineate viene naturale domandarsi se il dominio della finzione su ciò che è realmente accaduto non sia di pregiudizio alla scrittura della verità e al tentativo di crearsi una memoria”.
Se l’oggetto della narrazione sono le “vittime della storia divenute polvere e cenere” si rivela falso ogni tentativo di ricostruzione armonica di ciò che è accaduto. La sola scelta adeguata alla sfida è il montaggio dei frammenti, delle immagini prive di contorno, dei relitti che galleggiano sopra il mare dell’oblio. Soltanto grazie a questa ricomposizione le mute e casuali testimonianze del passato assumono i connotati allegorici che Baudelaire leggeva negli scarti, negli stracci, raccolti dagli chiffoniers di Parigi: testimonianze mute della distruzione che è intimamente connaturata al male della storia, quelle macerie che Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia associa al ‘progresso’.
Da questo punto di vista l’opera di Peter Weiss, a cui è dedicato uno dei saggi più belli della raccolta, appare a Sebald emblematica: il suo percorso artistico che transita dall’attività pittorica a quella letteraria è uno sforzo continuo di produrre una visione allegorica del proprio tempo.
“Il quadro Der Hausierer, «Il venditore ambulante», dipinto da Peter Weiss nel 1940, ritrae un tetro paesaggio industriale, davanti al quale ha piantato le tende un piccolo circo che conferisce all’intera scena un carattere stranamente allegorico. (…) In questo autoritratto di Weiss il bisogno di entrare là dove dimorano coloro che non sono più alla luce e in vita si fa espressione di un incondizionato ripiegarsi verso la propria fine”.
L’autore della Ästhetik des Widerstands (Estetica della Resistenza) appare a Sebald come colui che meglio di altri ha saputo sottrarsi alla funzione edulcorante che in definitiva prevale, spesso a dispetto delle intenzioni degli autori, nelle rappresentazioni dei drammi della storia.
Il punto nodale non è il ‘che cosa’ ma è il ‘come’: la narrazione per Sebald è in molti casi una tecnica di sopravvivenza che raggiunge lo scopo rimuovendo l’esperienza reale della morte. Se la scrittura viceversa vuole afferrare la verità deve togliere il velo della finzione e farsi mimetica della distruzione e dello smembramento del vivente.
L’analogon di una scrittura realmente votata alla rappresentazione della verità è, secondo Sebald, la malinconia, un’intonazione che attraversa le sue scritture narrative, si pensi agli Emigranti e a Austerlitz, e si fa tema esplicito in Tessiture di sogno. Tra gli snodi più significativi quello che riguarda Il diario di una lumaca di Günter Grass, che Sebald vede in bilico tra l’ottimismo di una possibile rigenerazione morale dei tedeschi e la tentazione malinconica che si è “introdotta di straforo nel suo bagaglio come fellow traveller e angelo della cattiva coscienza”.
Anche qui il tema sono i limiti della narrazione e la sua funzione subdolamente anestetica che impedisce una visione della verità di ciò che è accaduto.
Al tema della rappresentabilità del male assoluto Sebald dedica una riflessione radicale che si impone per la sua implacabile anatomia della rappresentazione poetica e delle sue costitutive patologie. Si intitola: Tra storia e storia naturale. La descrizione letteraria della distruzione totale. Un tema che sarà da lui ripreso più volte e che sarà al centro delle sue ‘Lezioni di poetica’ di Zurigo del 1997.
Qui vengono esaminati i rari tentativi della letteratura tedesca del dopoguerra di fare i conti con la distruzione reale delle città tedesche, per esempio con i terrificanti bombardamenti di Amburgo che distrussero in pochi giorni la città trasformandola in una landa spettrale.
Dal romanzo di Hermann Kasack, Die Stadt hinter dem Strom (La città oltre il fiume), Sebald cita questo passo: «Delle case, nelle strade lì intorno, si ergevano solo le facciate, sicché – guardando di sbieco attraverso i telai delle finestre vuote – si riusciva a vedere la volta del cielo».
A questo romanzo pubblicato nel 1947 Sebald accosta una testimonianza dello stesso tragico evento di Hans Erich Nossak, Der Untergang (La fine), scritta nell’estate del 1943, all’indomani del bombardamento della RAF, da cui Nossak si era miracolosamente salvato: entrambi questi testi evidenzierebbero un’analoga indecisione tra il desiderio di rappresentare l’atrocità della guerra e la tentazione mitologica di trasformare la distruzione in un’icona ideale del male che domina il mondo.
“L’opera di Kasack – commenta Sebald – rispecchia la contraddizione fra la situazione del momento, che è totalmente disperata, e il tentativo di utilizzare i resti dell’interpretazione umanistica del mondo per una nuova sintesi, sia pure negativa”. E poco oltre osserva che “la monumentalità teatrale di una città in rovina, come appare all’osservatore di passaggio, richiama alla mente ciò che Canetti avrebbe scritto in seguito riguardo ai progetti architettonici di Albert Speer: nonostante l’alito di eternità e il carattere sovradimensionato che li caratterizzava, nel loro impianto era già manifesta l’idea di uno stile che avrebbe potuto sviluppare tutte le sue grandiose aspirazioni solo quando fosse giunto allo stadio della distruzione”.
Nel dilemma tra umanesimo e nichilismo si rispecchia il destino stesso della scrittura di Sebald. Anch’egli, per quanto tentato dalla missione salvifica del frammento e dalla resistenza alla sirena della narrazione coesa alla fine, cerca la sua cifra in una costellazione mediana in cui la cruda verità della storia trova un suo riverbero nella pratica di una disseminazione narrativa fatta di accurate ricostruzioni di eventi passati, di memorie autobiografiche e minuziose descrizioni. Il tutto a costituire una miscela affabulante che fa presa sul lettore pur non volendolo tenere avvinto a una storia con un inizio, uno sviluppo e una fine. Questo esito, evidente nei romanzi, è stato reso possibile anche dall’uso della fotografia, una pratica che per Sebald non ha una funzione illustrativa. Le fotografie disseminate lungo i suoi testi costituiscono una sorta di tracciato parallelo, quasi si trattasse della libera e casuale traiettoria che il narrare vorrebbe ma non può percorrere perché la sua intima costituzione glielo impedisce.
In un’intervista del 1997, alla domanda perché compaiono le fotografie nei suoi romanzi rispose: “perché è tipico delle fotografie di condurre un’esistenza nomadica per poi venire «salvate» un giorno da qualcuno”.
Sono i frammenti di realtà a cui la sua prosa non può abbandonarsi in toto, ma che la fotografia restituisce offrendo al lettore una visione del passato fatta di illuminazioni improvvise.
Il saggio che tematizza il potere predittivo delle immagini, e la loro valenza epifanica, rivelatrice di un tempo passato è quello breve ma di straordinaria intensità dedicato a Nabokov: Tessiture di sogno, da cui è tratto, come già si è ricordato, il titolo del libro.
Perché Nabokov? Perché gli esiliati dalla storia, quelli “finiti dalla parte sbagliata senza essersene resi conto”, sono destinati a restare per tutta la vita “sognatori privi di radici che trascorrono un’esistenza postuma, quasi extra-territoriale e in qualche misura illegittima, vivacchiando in camere d’affitto e piccole pensioni”. Così fu per anni la vita di Nabokov, negli anni di Berlino in special modo, “poiché il terrore della Storia, destinato a prolungarsi per decenni, lo aveva irrevocabilmente strappato al luogo delle sue origini, il salvataggio di ogni singola immagine gli procurò senza dubbio forti dolori fantasma, anche se per discrezione Nabokov osserva in genere quanto è andato perduto solo attraverso il prisma dell’ironia”.
Nei suoi romanzi affiorano immagini e improvvise presenze fantasmatiche che Sebald riconduce in via ipotetica all’esperienza fatta a Berlino quando da giovane, per guadagnarsi da vivere, fece la comparsa in diversi film in cui era frequente il ricorso a sosia e a controfigure.
“Strane iridescenze, corrispondenze misteriose e strani incontri casuali” sono frequenti nelle narrazioni nabokoviane e Sebald ne rimane attratto perché nella banale casualità di ciò che accade più che nella supposta razionalità della Storia con la ‘s’ maiuscola egli vede la ragione dello scrivere, avvertendo in ciò un’affinità quasi elettiva con l’autore russo.
In fondo la ragione che lo porta a criticare, talora pesantemente, le ambizioni mitopoietiche degli scrittori tedeschi suoi contemporanei è che la Storia, come scrisse Cioran nel Sommario di decomposizione, altro non è che un «mélange indécent de banalité et d’apocalypse». Sapere restituire questo impasto, riuscire a rappresentare questa banalità del male attraverso le vite reali di chi ne è rimasto vittima è la missione che Sebald si è dato sia nelle sue narrazioni sia nella sua opera di saggista.