Franco Brevini / Simboli della montagna
Il symbolon unisce, il diabolon divide. Così ci dice l’etimo dei due termini greci.
E i simboli della montagna non fanno eccezione: uniscono coloro che si sentono attratti dai suoi valori, dalle sue narrazioni e ne condividono la più potente delle emozioni, quella del sublime. Un sentimento ambiguo di attrazione e terrore per ciò che già anticamente era considerato il limite, oltre al quale l’uomo perde ogni controllo razionale di se stesso e del suo posto nel mondo. La montagna, fin dalle età più remote, si è presentata nella sua inaccessibile alterità. Ma proprio perciò ha generato in chi l’osservava il desiderio di sfidarla, di conquistarla.
Questa tensione polare, dove gli estremi si uniscono, dove l’unheimlich, il perturbante, fa da contraltare alla volontà di potenza e la paura si unisce al coraggio, è esplorata da Franco Brevini in un libro di gradevolissima lettura dal titolo elegantemente referenziale: Simboli della montagna.
Si tratta di una selezione di oggetti ad alta densità simbolica in cui si raccolgono e compendiano gli umori e le oscillazioni dell’immaginario collettivo degli ultimi due secoli: gli animali (l’aquila, il camoscio, lo stambecco, il cervo), la montagna dalla geometria perfetta ossia il Cervino, lo chalet svizzero, l’Edelweiss, Heidi e la piccozza.
Di questi che sono a un tempo oggetti culturali e immagini della memoria collettiva, l’autore ripercorre la genesi e ci spiega come abbiano assunto fisionomie diverse nel corso del tempo, incontrando declinazioni talvolta paradossali ma sempre riconducibili a una comune elaborazione mitologica che pur avendo origini antiche ha dispiegato tutto il suo potenziale iconico e mitopoietico a partire dal Romanticismo. Vale a dire da quella età perennemente in bilico, come aveva acutamente osservato Hermann Broch, tra l’aspirazione all’assoluto e la banalità del kitsch.
Questo fondamento aporetico percorre l’intera vicenda Otto e Novecentesca dell’ideologia della montagna e Brevini è particolarmente acuto nell’osservarne le dinamiche e a fornircene gli esiti diagnostici.
Dal libro si ricava l’impressione che l’immaginario della montagna sia stato una sorta di antesignano di una tendenza che si è andata consolidando nel Novecento, quella tipicamente borghese dell’inflazione dell’eroismo, che da stato d’eccezione si trasforma in esibizione della prestazione estrema ad uso e consumo di una platea in cerca di emozioni facili e fini a se stesse.
La montagna alla portata di tutti è anche la montagna che si svuota della sua aura sacrale e perfino della sua fama di luogo delle mille maledizioni: “Le montagnes maudites – scrive Brevini – non erano solo le dimore elettive dei draghi, lo erano anche delle anime senza pace dei trapassati, degli spiriti che facevano cadere le valanghe d’inverno e i blocchi di roccia e di ghiaccio in estate”. Questa distanza dall’umano, sottolineata dalla verticalità inaccessibile della sua misteriosa presenza, ha cessato di esistere quando il progresso scientifico e la colonizzazione sistematica di ogni esotismo hanno reso possibile la sua appropriazione da parte degli umani. Si è trattato di un’inesorabile domesticazione, come descrive bene Brevini, non priva di progettazioni avveniristiche, talora realizzate ma in alcuni casi fortunatamente abortite come quella che prevedeva la costruzione di un tracciato ferroviario fino alla punta del Cervino. L’alpinismo moderno, che poi significa l’alpinismo tout court, è figlio di questa Entzauberung der Welt, del disincantamento del mondo come l’ha chiamato Max Weber.
Nondimeno, a dispetto di tutte le strategie scientifiche, tecnologiche e commerciali che l’homo faber borghese ha messo in atto per assoggettare e normalizzare la montagna, resta pur sempre un’alterità irriducibile fatta di improvvisi e inattesi mutamenti, di insidie imprevedibili. È su questo terreno ancora risparmiato dalla ragione strumentale e dalla pianificazione economica che gli ostinati adepti della montagna ricercano ancora oggi le ragioni delle loro avventure. La montagna, o forse è meglio dire alcune montagne, alcune vie d’alta quota, conservano infatti un’indomita resistenza alla pianificazione della conquista e gli alpinisti veri ne sono consapevoli e trovano nell’imponderabile la motivazione che li spinge a osare.
Simboli della montagna non è una radiografia dell’oggi, per quanto non manchino acute osservazioni sulle degenerazioni consumistiche che rischiano di distruggere gli equilibri ecologici delle vette alpine. È soprattutto un libro della memoria alpina, uno sguardo attento a mille dettagli rivolto alle origini della grande conquista, al tempo in cui le vette più alte delle Alpi erano ancora remote e inaccessibili e un manipolo di aristocratici inglesi decise, nella seconda metà del 19° secolo, di conquistarle con l’aiuto determinante dei montanari del luogo. Particolarmente significativa e narrativamente straordinaria è stata la conquista del Cervino, la montagna che Ruskin chiamò «il più nobile scoglio d’Europa». Un vero romanzo con tanto di protagonista e antagonista e la vittoria unita alla tragedia.
Brevini ha saputo offrire un intreccio che dalla narrazione passa con sorprendente naturalezza al saggismo, dal racconto delle grandi ascensioni al libro di Georg Simmel dedicato alle Alpi dove il filosofo maestro di György Lukács e Walter Benjamin osserva come «In alta montagna, la liberazione dalla vita intesa come casualità, oppressione, isolamento e meschinità, ci perviene (…) non dalla pienezza stilizzata della passione della vita, ma dal distacco da quest’ultima; qui la vita è come intessuta e presa in qualcosa che è più silenzioso e più immoto, più puro e più alto di quel che potrebbe essere essa stessa».
Nel libro di Brevini si colgono gli echi di una molteplicità di risonanze a cui l’esperienza della montagna ha dato luogo e l’autore ci accompagna con affabile leggerezza in un mondo che pensavamo di conoscere ma che continua a sorprenderci nella sua eterna e sempre diversa alternanza di avventura e pensiero, di passioni e ragione.
In questa molteplicità di piani risiede una delle prerogative che rendono il libro di piacevolissima lettura per uno spettro ampio di lettori.