Speciale

Ti scrivo. Cani randagi

22 Novembre 2015

Caro Pasolini,

 

com'era in uso presso quelle culture arcaiche alle quali lei si dichiarava tanto affezionato, allo scadere della quarta decade dalla sua scomparsa mi rivolgo alla sua ombra, cieca e immemore, che si trascina vagabonda per l'oscura desolazione dell'Ade.

Chi la reclama è un figlio della mutazione antropologica di cui lei andava denunciando le storture e le abiezioni, un esponente di quella generazione che è cresciuta, un po' per scelta e un po' per circostanza, senza padri, o quanto meno senza padri nobili.

In questo senso, a lei che è sempre rimasto figlio, voglio rivolgere la mia attenzione.

Non fosse stato per l'ondata celebrativa che ha interessato la sua figura nel corso dell'anno che si va chiudendo, non mi sarei mai permesso di venire a disturbarla nel suo oblio, tanto più considerando che il suo corpo e la sua voce erano per me dimenticati.

Lei ai miei occhi è stato tutto fuorché un maestro; un lontano ricordo di gioventù, un cliché – che molto spesso mi è capitato di citare a sproposito – scoperto grazie ai Blonde Redhead e non certo per tramite della scuola, dove non l'ho mai sentita nominare, o di mia madre, che riferendosi alla sua persona l'ha sempre e solo definita "un porco".

Il motivo di questa evocazione non risiede nella domanda di un consiglio, di una parola di conforto o di uno sguardo sul futuro, come si faceva nei tempi antichi: ciò che mi porta sulle sponde limacciose dello Stige, a contemplare il nero abisso delle sue vuote orbite scavate, è la profonda compassione che nutro verso di lei, verso la sua anima tormentata, verso il suo corpo straziato.

Compassione che è condivisione di un comune sentire, di un'affinità che prevede la scelta: non certo pena, non pietà.

La pietas, in senso classico, implica un sistema di doveri reciproci che si viene ad instaurare tra i padri e i figli: è un istituto sociale, un valore fondante; nulla di più lontano dal sodalizio che vige tra i branchi di cani randagi, dove ci si incontra e ci si abbandona soltanto in base alle esigenze del momento.

"Fratello dei cani" è un verso che è risuonato in un passaggio di Corpi eretici, dramma musicale di Mauro Montalbetti e Marco Baliani in cui si racconta della sua vita e della sua morte, andato in scena qualche settimana fa e al quale ho avuto la fortuna di assistere; l'ha scritto lei, Pasolini, in chiusura del suo testamento: se ne ricorda?

Trascorsi appena un paio di giorni, ecco che proprio nell'anniversario della sua tragica scomparsa mi viene affidato – curiosa coincidenza – un cane, un piccolo segugio di cui io e Barbara avevamo da tempo deciso di prenderci cura: avvistato intorno ad Anagni in evidente stato di denutrizione, vagava in agro, in quel mondo non interpretato dove, secondo le antiche credenze, solo la maschera segnava il limite del dominio degli uomini e il loro punto di contatto col non-umano.

Catturato, costretto in un rifugio e trasportato in una realtà che non è la sua, mantiene un piglio malinconico sebbene mostri segni di un buon carattere e di una lieta propensione al gioco.

Il suo apparire – ai nostri occhi – nelle sembianze di una creatura adorabile, deriva tanto dalla sua pura incoscienza del destino, quanto dalla nostra consapevolezza di averlo sottratto a una fine crudele; eppure, quando si lancia per rotolarsi tra le aiuole spelacchiate e piene di spazzatura del centro di Roma, nell'affannoso tentativo di ristabilire un contatto con la terra, viene da domandarsi da dove nasca il nostro diritto ad avergli prestato soccorso.

Sentirsi randagio tra gli uomini, straniero nel mondo, inadatto a questa vita può essere inteso, al di fuori delle visioni gnostiche dell'esistenza, come un anelito estremo verso la propria libertà individuale.

Ma a guardare Lampone e la tranquilla soddisfazione con cui riposa nel calore e nella sicurezza del nostro appartamento, non si fatica troppo nel sorvolare sul pensiero che, quando sarà addomesticato e avrà imparato a obbedire, i forti legami che intrattiene con una selvaggia libertà ideale si andranno ad assottigliare sempre di più, sino a sfumare in un ricordo lontano.

Dal momento però che questo ancora non è accaduto, è grazie a lui che sono giunto sin quaggiù; perché sa, Pasolini, i cani randagi conoscono bene le vie degli inferi.

Le dirò di più: sebbene il mio abbraccio fraterno venga negato alla sua ombra evanescente, sono sicuro che a lui, al contrario, sarà permesso di poter leccare le sue ferite.

 

 

Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.

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