Il falsario come vittima del sistema / Troppo veri per essere falsi

23 Marzo 2016

Dei veri falsi

 

Nel buio pesto una torcia elettrica illumina la superficie di antichi dipinti, di quelli che hanno fatto la storia della pittura: così comincia l’ultimo documentario di Luciano Emmer (Bella di notte, 1997), che si aggira per la Galleria Borghese appena riaperta e, in una rêverie notturna, ci mostra le opere come se le vedessimo per la prima volta. Così comincia anche il documentario Un vrai faussaire di Jean-Luc Leon, appena uscito nelle sale francesi. Solo che qui non siamo alla Galleria Borghese ma al tribunale di Créteil e i 150 quadri conservati sono legati con lo spago, messi sotto sequestro e destinati a essere distrutti in quanto falsi. L’autore è Guy Ribes, acciuffato nel 2005. Questa disgrazia è stata la sua fortuna: la sua identificazione ha reso possibile il documentario che gli sta dando celebrità. Già, perché un falsario vive nell’anonimato ed è conosciuto solo a una cerchia ristretta di attori del mercato dell’arte. In fondo i falsi che conosciamo e di cui si ha notizia sono giocoforza dei cattivi falsi. I falsi ben riusciti non li conosce nessuno, esposti nelle sale dei musei, delle gallerie e delle collezioni private, illustrati nelle pubblicazioni delle case d’asta e persino nei cataloghi ragionati.

Guy Ribes è un personaggio picaresco. Cresciuto in un bordello lionese tenuto dai suoi genitori e con un trascorso da mercenario, è un pittore autodidatta e frustrato. Per la disinvoltura con cui si esprime davanti alla telecamera, per l’aria burbera, per la tendenza a spararla grossa, per la corporatura ricorda più Depardieu che Elmyr de Hory, il falsario ritratto da Orson Welles in F for Fake, colui che aveva 60 nomi e personalità: Ilamar, Hory, Heury, Bory, Sury... 60 nomi con tutte le varianti di U, R e Y.

 

F for fake, Orson Welles.

 

Il falsario è un bon vivant che, terminato un dipinto, intasca i soldi e parte un mese per far la festa (“faire la java”). Finiti i soldi rincasa e si rimette al lavoro. Non parla di euro ma di “brique”, ovvero 10,000 franchi. Una gouache di Chagall, che realizza in 45 minuti, gli rende 15 brique – e ne ha realizzate tra le 300 e le 500. È un pittore prolifico: con oltre trent’anni di carriera alle spalle, ha una produzione stimata attorno ai 5000 falsi, sparsi nei musei, nelle collezioni e nei cataloghi di tutto il mondo. Il falsario s’infiltra nel sistema dell’arte e se la ride quando, col suo occhio infallibile da connaisseur, riconosce nei cataloghi di vendita e persino nei cataloghi ragionati, un’opera di sua mano.

Il falsario è un grande bugiardo, pronto a presentare la sua carriera avventurosa come quella di un pirata; i suoi squallidi “arnaque” diventano colpi di Arsenio Lupin. È un voyou senza complessi e morale (i truffati sono dei poveri coglioni), un filibustiere che specula sulla credulità e la brama di facoltosi collezionisti di appendersi in casa un capolavoro.

 

Ma il falsario è anche la prima vittima del sistema, il primo credulone quando un diavolo lo tenta suggerendogli che il suo talento grafico potrebbe rendergli un mucchio di soldi. Il falsario non è un animale solitario ma fa parte di una giostra in cui figurano venditori, galleristi, collezionisti, fabbricanti di falsi documenti, esperti prezzolati, presunti parenti degli artisti, vedove maliarde che devono liberarsi discretamente del loro patrimonio artistico per sovvenire ai bisogni dei figli, e altre figure intermedie. Improbabili se isolate, diventano attendibili se prese insieme.

Il falsario in realtà non fabbrica “un Matisse”, “un Picasso”, “un Modigliani” ma un oggetto che ha valore solo in quanto merce di scambio, un investimento che il collezionista farà circolare nel mercato. E dal momento che è accompagnato dal suo certificato di autenticità, il falso entra di diritto nel corpus dell’artista e a quel punto c’è poco da fare. Il falsario pentito che rivendicasse la paternità dell’opera contraffatta non troverebbe nessuno ad ascoltarlo perché nessuno ha più interesse a far emergere la verità. E poi chi prenderebbe sul serio la parola di un falsario? Quando un falsario riproduce un’opera scomparsa di cui si è conservato solo il certificato d’autenticità, il falso sostituisce l’originale, e se l’originale rispuntasse fuori, non verrebbe riconosciuto.

 

Un falso Vermeer.

 

Dei falsi originali

 

Nel documentario il protagonista realizza quattro quadri: un Picasso, uno Chagall e un Léger, ognuno in una mattinata, e un enorme Matisse in 4 sedute di 4 ore ciascuna. Lo sentiamo respirare affannosamente mentre il pennello esita, danza davanti alle trasparenze liquide o a un intrico di linee astratte, come se dietro quella mano e quel polso ci fosse veramente Matisse o Picasso. La concentrazione e la tensione sono palpabili: basta una disattenzione per mandare in aria tanto lavoro, per rovinare quelli che il falsario chiama affettuosamente i suoi “balourds”, una parola che viene dall’italiano balordo e che potremmo tradurre con goffaggini. E quando una macchia d’inchiostro o di colore cade sul foglio la vediamo sotto i nostri occhi trasformarsi in un elemento coerente dell’insieme.

Il falsario ha bisogno di tempo per impossessarsi dello stile di un pittore. In questo processo d’apprendimento anche i tentativi andati a male sono utili: ricopiare più volte un disegno di Picasso permette di comprendere come funziona dal di dentro. Il tentativo finale, quello buono, viene fuori da sé, con pochi colpi di pennello, come in quella storia (falsa probabilmente) sul pittore giapponese.

Tecnicamente il falsario non ricopia nessuna opera esistente. Di un artista si sforza di copiare con mano ferma un solo elemento: la firma, che appone non da sinistra a destra, impresa destinata a fallire, ma da destra a sinistra. Il resto è un pastiche, un dipinto “alla maniera di” che combina elementi presenti in diverse opere originali ma mai dati assieme. Nella loro selezione e combinazione risiede l’elemento d’originalità del falsario, come in una tauromachia di Picasso, in cui toro, torero e stadio provengono da diversi schizzi del maestro. Un pastiche postmodernista, che all’originalità e alla sperimentazione linguistica della parodia modernista sostituisce la copia e la citazione, e che spiega forse l’interesse suscitato oggi dai falsari e dalla loro biografia (penso a Wolfgang Beltracchi). Solo che il loro unico intento è l’inganno e la speculazione. Per questo il nostro non cerca la perfezione: in ogni disegno c’è una voluta irregolarità, come negli arabeschi dei tappeti persiani perché la perfezione appartiene solo al divino. Un’opera troppo leccata insospettisce subito, mentre quello che cerca il falsario è l’autenticità, quel “non so che” che semina il dubbio e fa pensare: “potrebbe essere originale”.

A Parigi esiste un museo dedicato alla contraffazione che ospita opere di Guy Ribes. Espongono dei veri falsi, mentre alcuni musei espongono, senza saperlo, dei finti veri.

 

Museo della contraffazione di Parigi.

 

Dei falsi veri

 

Nel 2006 l’agenzia Factum Arte ha scansionato a colori e in scala 1:1 Le nozze di Cana del Veronese, un dipinto di quasi 70 mq. strappato dal refettorio di San Giorgio di Venezia e portato al Louvre di Parigi nel 1797, oggi esposto nella sala della Gioconda. Grazie a un archivio di immagini digitalizzate di 400 gigabyte in 1591 file individuali e a una stampante costruita per l’occasione, che dà l’illusione che i pigmenti siano stesi su una tela preparata a gesso, nella copia sono visibili persino i tagli incisi dall’esercito napoleonico per trasportarla più comodamente. Questo facsimile mostra dettagli ormai invisibili nell’originale a causa dell’usura del tempo, dello sradicamento dallo spazio per cui era stato concepito, dell’installazione infelice, tale per cui non si può vedere il Veronese nella sua interezza senza intruppare contro i turisti assediati attorno alla Monna Lisa. Il facsimile rimette in circolazione l’originale attraverso un processo digitale, ovvero lo ri-materializza attraverso la sua compiuta de-materializzazione.

Che l’originale vada esplorato attraverso le sue copie? È quanto si chiede Bruno Latour in un saggio del 2011 sulla migrazione dell’aura e sull’ossessione per la versione originale tipica della nostra epoca e, nello specifico, della pittura. In questo medium sopravvive un legame indissolubile tra un originale, un luogo e l’aura: “Solo l’originale possiede un’aura, questa misteriosa e mistica qualità che nessuna versione di seconda mano potrà mai acquisire”. Da qui lo spregio in cui la nostra cultura tiene la copia, una parola associata alla contraffazione, alla falsificazione, al tradimento.

 

Eppure, ricorda Latour, copia viene da copius, “fonte di abbondanza”: “Non c’è niente di inferiore nel concetto di copia, ma semplicemente una prova di fecondità”; “per un’opera d’arte essere originale non significa altro che essere l’origine di una lunga discendenza. Quello che non ha progenie, né riproduzione, né eredi, non è chiamato originale ma piuttosto sterile e arido stereotipo” (un buon argomento per giustificare le versioni di greco copiate al liceo?). Le copie aumentano la qualità dell’originale, come in letteratura le diverse versioni di un testo: “Se i canti dell’Iliade fossero rimasti confinati in un piccolo villaggio dell’Asia Minore Omero non sarebbe considerato come un autore, per quanto collettivo, di così grande originalità”. Lo stesso vale per la danza, la musica e il teatro: tanto le repliche saranno numerose, tanto più l’opera sarà feconda, e un’opera non copiata è destinata a morire “come la discendenza di una famiglia senza eredi”.

Nel caso del Veronese l’originale non scompare come nei restauri invasivi con le loro superfici brillanti (Latour cita il caso degli Ambasciatori di Holbein alla National Gallery di Londra). Il fac-simile, al contrario, conferisce originalità all’originale: “paradossalmente, questa ossessione di puntualizzare l’originalità aumenta proporzionalmente con la disponibilità e accessibilità di più e più copie di sempre migliore qualità”. Insomma, conclude Latour con una divertita perfidia critica che uno storico dell’arte non potrebbe permettersi, “Nessuna copia, nessun originale”, perché “Per imprimere a un pezzo il marchio dell’originalità, si deve applicare alla sua superficie l’enorme pressione che solo un gran numero di riproduzioni può procurare”.

Il Veronese ora a Venezia è, rispetto all’originale del Louvre, una versione n+1. Al proposito, lo storico dell’arte Dario Gamboni ha parlato di “originalità condivisa”. Dobbiamo riconsiderare il concetto di originalità (pittorica) e quindi di aura, e non considerali chiusi come una cassaforte. L’originalità è un processo additivo – ed è precisamente questo processo a distinguere quella che propongo di chiamare immagine copiosa.

 

I tre ragazzi livornesi protagonisti della beffa di Modigliani.

http://www.doppiozero.com/dossier/anniottanta/i-falsi-modigliani

 

Dei falsi troppo veri 

 

Nel 1938 il museo Boijmans di Rotterdam acquistò un dipinto attribuito a Vermeer (Pellegrini di Emmaus) per 6 milioni di dollari. Decantato dagli storici dell’arte come il capolavoro del maestro in una rivista prestigiosa come il “Burlington Magazine”, era stato realizzato lo stesso anno da l’ex-restauratore Han Van Meegeren. A lui si risalì per caso quando, finita la guerra, si scoprì un altro Vermeer nella collezione di Hermann Göring. La polizia rintracciò Meegeren che si occupò della vendita al fine di restituire il Vermeer al legittimo proprietario, ma il nostro si guardò bene dal cantare. Accusato di essere un traditore senza scrupoli che dilapidava il patrimonio artistico nazionale, e davanti al rischio della pena capitale, uscì allo scoperto in quanto autore del Vermeer. 

La confessione del falsario non convinse nessuno: il falso sembrava così vero che molti si rifiutavano di credere che fosse veramente un falso. Van Meegeren fu così invitato a dipingere un altro falso Vermeer (Cristo al tempio). Per sei settimane, nella sua cella e davanti a dei testimoni produsse un falso capolavoro che potesse inverare la sua testimonianza – altro che paradosso del mentitore! Il dipinto sembrò così vero da dissipare ogni dubbio: si trattava di un autentico falso. La corte si trasformò in una quadreria piena dei suoi veri falsi. Gli storici dell’arte restarono così contrariati che, secondo i più ottusi, almeno uno dei Vermeer di cui il falsario rivendicava la paternità doveva essere della mano di Vermeer. È difficile che un falso diventato vero ridiventi falso.

Van Meegeren diventò un eroe nazionale, da potenziale collaborazionista all’uomo che aveva truffato i nazisti. Nel 2010 il museo Boijmans gli ha consacrato una mostra in concomitanza con un’esposizione di Vermeer originali. Il destino volle che Göring fosse ancora vivo quando, nel corso del processo di Norimberga, seppe che il suo bel Vermeer era una patacca. Si racconta che fu come se, per la prima volta, si rese conto che esisteva il male nel mondo.

 

Nel suo falso documentario F for Fake Welles riporta un aneddoto sulla cui veridicità è inutile interrogarsi. Un amico di Picasso mostra all’artista un Picasso. “È un falso” dice il maestro, e così ripete davanti a un altro presunto Picasso. Quando l’amico gli fa osservare che lo aveva visto con i suoi occhi firmare queste tele, Picasso controbatte: “Posso dipingere dei falsi Picasso altrettanto bene di chiunque altro”. E meglio di chiunque altro Picasso aveva colto la natura copiosa dell’immagine.

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