Ugo Stille. L'uomo nato due volte
Alexander Stille nel suo recente libro La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America uscito da Garzanti, va a raccontare, a prima vista, la storia di due straordinarie persone. Sono sua madre Elizabeth Bogert – donna ribelle e fascinosa, colta e irriverente, figlia di un algido giurista wasp di Chicago – e suo padre Ugo Stille – leggendario corrispondente del Corriere della Sera negli USA per oltre quarant’anni e dal 1987 al 1992 direttore dello stesso quotidiano.
L’uomo nato due volte
Dei due viene ricostruito l’ambiente famigliare – due universi quanto mai diversi, visto che da un lato c’è la colta e benestante borghesia puritana alla quale appartengono i Bogert e dall’altro c’è l’odissea dei Kamenetzki, la famiglia ebrea nella quale, nel 1919 a Mosca, nasce Mikhail Kamenetzki, destinato a non poche traversie: abbandona con i suoi la Russia bolscevica, approda nell’Italia mussoliniana, compie brillanti studi a Roma e stringe fondamentale amicizia con Giaime Pintor con cui condivide una decisa opposizione al fascismo. Dopo le leggi razziali, c’è l’angoscia del cercare un rifugio dove riparare. Solo nel 1941 troverà, negli USA, la sua nuova patria e, di lì a poco, un nuovo nome: Ugo Stille, lo pseudonimo con cui aveva firmato assieme a Giaime i suoi primi articoli. Con questo nome rinasce, aprendosi un nuovo destino. Non senza aver prima rimesso piede in Italia. Inquadrato nelle forze americane che sbarcano in Sicilia e ripercorrono tutta la penisola. Il fatto di occuparsi, a poco più di 25 anni, in divisa, della stampa e propaganda degli Alleati in varie città italiane, sarà per Mikhail Kamenetzki-Ugo Stille un viatico alla professione giornalistica nella quale spiccherà.
Ritornerà infatti di lì a breve negli USA come corrispondente del Corriere della Sera. Per quarant’anni si caratterizzerà fra gli ambienti politici e culturali che contano come fondamentale trait d’union fra l’Italia e l’America. Rimarrà a New York sino a quando assumerà la direzione del quotidiano milanese che lascerà, per motivi di salute, nel 1992, tornando nella sua amata casa di Manhattan dove, nel 1995, muore.
Delle guerre coniugali di lunga durata
Del padre e della madre – con eguale intensità e ampiezza – Alexander Stille ripercorre in questo libro sia le traiettorie personali (quella di Elizabeth Bogert è meno pubblica ma tanto coinvolgente quanto quella del marito) sia l’incontro che li fa conoscere (lei, già sposata, arriva ad un party col marito: conosce il giornalista italiano e se ne va via con lui, che sposerà appena ottenuto il divorzio). Soprattutto si sofferma su quel lungo e devastante scontro che costituisce il loro matrimonio, durato quasi mezzo secolo.
Sotto il tetto che condividono avviene, tra i due, una specie di implacabile guerra accesa da sensibilità lontanissime, da caratteri contrapposti, da attitudini che non riescono mai a confluire serenamente in una tregua, per breve che possa essere.
Dei matrimoni felici, come suggerisce Tolstoj, non vale la pena di parlare. Ma quello che emerge dal libro di Alexander Stille è ancora una volta la prova di come tutti gli altri matrimoni – infelici e complicati al punto giusto, e soprattutto duraturi, altrimenti c’è poco da raccontare – possano essere un giacimento narrativo formidabile.
Da questo punto di vista il libro di Stille è degno di affiancare un altro classico sulle “guerre coniugali di lunga durata”: quel Ritratto di un matrimonio con cui Nigel Nicolson racconta il lungo, improbabilissimo e pur tuttavia duraturo e forse, alla fine, non del tutto infelice incontro, tra suo padre, lo scrittore e diplomatico Harold, a cui piacciono i bei ragazzi, e la madre, Vita Sackville-West, nota sia per i bei libri sia per i giardini ancora più belli fatti sbocciare nel parco della sua mansion. Ma anche per le tempestose relazioni con altre donne, tra cui la breve love-story con l’amica Virginia Woolf.
Good Company, Bad Company: una vita suddivisa
“La forza delle cose” oltre a dire, attraverso queste due vite, qualcosa di niente affatto banale sulle guerre che riempiono i matrimoni, è anche il ritratto di un’altra guerra, ancora più insidiosa: quella che ognuno, soprattutto se diventa un personaggio pubblico ed è gratificato da un ruolo prestigioso, può muovere contro se stesso.
L’autore è implacabile nel sintetizzare la lunga marcia che impegna Ugo Stille contro se stesso e nel farne intravedere le conseguenze: “Mio padre conduceva un’esistenza biforcuta, schizofrenica: la sua vita professionale era interamente italiana, quella personale interamente americana. Nella vita sociale legata al suo lavoro era affascinante e meraviglioso, in quella familiare era alternativamente affascinante e impossibile. Credo che mettesse in atto un’operazione di economia psichica estremamente complessa simile alla strategia che gli alti papaveri della finanza adottano per salvare le compagnie in difficoltà: dividere la compagnia in due, una “buona” e una “cattiva”, per spostare tutti gli asset “tossici” nella “bad company” e tutti quelli validi nell’altra compagnia che così può essere rimessa sul mercato nelle condizioni migliori. A quando pare mio padre scaricava le sue nevrosi e le sue ansie più profonde, le sue paure e insicurezze, la sua rabbia e l’odio di sé nella sfera della vita privata, rovesciandole soprattutto su mia madre…”.
L’olimpica distanza
Pochi, tra coloro che ebbero professionalmente a che fare o seguirono in tanti anni l’attività di Stille, colsero fino in fondo non solo la portata di questo sdoppiamento esistenziale ma anche la progressiva distanza – emotiva, intellettuale, di organizzazione della vita quotidiana – messa dal giornalista tra sé e la realtà circostante. Per oltre 40 anni l’uomo che ha rappresentato il miglior osservatore e analista delle cose americane dal punto di vista italiano ha trascorso le sue giornate, a parte le uscite sociali in cui era brillantissimo e apprezzatissimo ospite, a casa sua. Stava in pigiama, leggendo giornali (che poi ammucchiava ostinatamente, sino a ridurre buona parte dell’abitazione a un deposito demenziale di carta ingiallita), telefonando, bevendo caffé, fumando continuamente, consultando libri. Poi, quando giungeva il pomeriggio, saliva in studio a scrivere e dettare a Milano l’articolo per il giornale. Quindi scendeva in cucina e assaltava il frigorifero, svuotandolo.
Quest’uomo, che la vita aveva messo alla prova non poco nei primi vent’anni della sua vita, diventato adulto e approdato in un nuovo mondo, aveva indossato la parte del personaggio Ugo Stille: il giornalista a cui tutti accreditavano fonti di altissimo livello dentro i servizi segreti, la diplomazia, la stessa Casa Bianca, vista l’impressionante capacità analitica che sapeva esercitare sulla realtà politica. “Il suo alter ego giornalistico – scrive il figlio – era una sorta di ‘io’ idealizzato, un personaggio dominato da una logica ferrea e da una cristallina chiarezza di pensiero, olimpicamente distante dagli eventi e capace di gettare uno sguardo spassionato e chiaroveggente sul confuso dramma umano che si svolgeva sotto di lui”.
Se manca qualcosa
Un’immagine rivelatrice di questa devastante contraddizione interiore emerge molti anni dopo, a Milano, quando Stille è da un anno direttore del Corriere della Sera. È arrivato in un giornale di cui sa poco, almeno circa le dinamiche interne, e in un Paese – è l’Italia che vede il lungo governo di Bettino Craxi e l’assurgere del leader del PSI come ago della bilancia della vita politica nazionale – che forse conosce ancora meno. È angosciato – ricorda il figlio – dal timore che l’approdo in Italia possa fargli perdere la cittadinanza degli USA e il passaporto americano a cui tiene tantissimo. Conciliare le sue abitudini con i ritmi e gli oneri della direzione di un quotidiano si rivela una sfida difficilissima per chi, come lui, ha fatto della procrastinazione, dell’olimpico distacco, del non prendere posizione, la sua regola di vita.
“Vedi – dirà, dopo la morte di Ugo, sua sorella Lally, rivolgendosi al nipote – in un certo senso gli mancava una forte bussola morale. Lui non prendeva mai posizione su niente. Una cosa che gli era utile sul suo lavoro quando si trattava di vedere tutte le sfaccettature di un problema: ma nella vita personale gli mancava qualcosa…”.
Ecco, forse è proprio questa la cosa essenziale che il libro di Alexander Stille aiuta a capire: cosa succede – nella vita di ognuno, ma a maggior ragione di coloro che hanno la responsabilità di un ruolo pubblico – se manca qualcosa…
Gli scalini del camper
Nel maggio del 1988 il PSI, chiamato a congresso, incorona a Milano, negli spazi dismessi dell’Ansaldo che l’architetto Panseca ha popolato di piramidi di vetro, il suo leader. Ad omaggiarlo sono arrivati esponenti politici da tutto il mondo. Il mondo dell’industria si tassa per sponsorizzare l’assise che costa complessivamente un miliardo di lire. Durante i sette giorni del congresso, Bettino fissa il suo quartier generale in un camper posto all’ingresso dell’ex-fabbrica e lì arriva Stille.
Stille ha 69 anni ma ne dimostra molti di più. È già malato. La sua salute, nel corso della direzione del quotidiano milanese, peggiorerà progressivamente rendendolo, per non brevi periodi, una sorta di direttore “a sua insaputa”, affiancato, spesso di fatto sostituito, dal vice-direttore Giulio Anselmi.
Arrivato al camper di Craxi, Stille sale faticosamente i gradini e va a salutare il leader. Probabilmente non si rende neppure conto del significato, anche simbolico, di sottomissione che il gesto rischia di assumere.
Dopo di lui a salire le scale del camper, per omaggiare Craxi, è un imprenditore milanese. Si chiama Silvio Berlusconi.