Terza parte / Un'altra storia? Conversazione con Igiaba Scego e Carlo Greppi

16 Novembre 2020

Continua la conversazione con Carlo Greppi e Igiaba Sciego sul tema del colonialismo, (qui la prima parte e qui la seconda parte) nel senso più ampio del termine, e dei presupposti inesplicitati di una immagine del mondo e della storia eurocentrica, bianca e maschile che si riflette nella cultura contemporanea.

 

EM. Contro l'immagine del continente dell'oralità e del racconto infinito, Africa antica di Fauvelle dedica ampio spazio alle storie della scrittura sul continente: sono diversi i regimi di storicità e le diverse strategie di memoria culturale – stili documentari e narrativi – adottate nel tempo e nelle varie società, da quelle più “immobilistiche” e mitologiche volte a garantire l'effetto di una permanenza eterna nel mondo dei cacciatori raccoglitori, a quelle epiche legate all'Islam e all'eroismo civilizzatore, a quelle che come l'Etiopia cristiana rielaborano su base scritta la tradizione precedente: il lettore rimarrà sorpreso dall'elencazione dei vari sistemi di scrittura, della loro varietà e diffusione, e anche sovrapposizione e compresenza (ad esempio dall'Egitto al Corno d'Africa o nelle città-stato di Kenya e Tanzania).

Riprendendo le teorie di Jack Goody e sottolineando l'inventività di un'antropologia della scrittura stratificata e complessa, Fauvelle propone la teoria di un «letteralismo riservato»: la scoperta del potere della scrittura è tale che essa viene riservato a pochi e preservato, come precisa strategia egemonica delle élite, come un sapere segreto che viene custodito da specialisti a beneficio dei gruppi sociali dominanti.

 

IS. La parola scritta dà un potere, ma non dobbiamo sottovalutare l'importanza in genere dell'oralità. Io me ne sono resa conto in famiglia. Mia madre non ha potuto svolgere degli studi regolari, è riuscita solo a frequentare due settimane di prima elementare a Mogadiscio, da suore italiane. Era dotata e le volevano insegnare a suonare il pianoforte. Ma poi il dovere, mia madre e le sue sorelle erano orfane, l'ha chiamata ad altri compiti. Fino a nove anni è stata una pastore nomade nella fitta boscaglia somala, poi ha vissuto a Mogadiscio e non è stato facile abituarsi al ritmo di una città sedentaria, affacciata su un oceano ruggente. Lei e le sorelle si sono dovute arrangiare, a scapito dell'istruzione. La scuola le è servita a decifrare l'alfabeto e a leggere alcune parole, e le è servita quando anni dopo è venuta in Italia in esilio insieme a mio padre, entrambi in fuga dal feroce regime militare di Siad Barre. Oltre la firma, mia madre non ha mai scritto niente in vita sua. Non ha mai letto un romanzo intero o un articolo intero. Per gli standard occidentali potrebbe essere definita ignorante, e forse non ha letto Jane Austen (che però mi ha regalato e di cui mi ha fatto vedere tutti i film), ma ha sempre avuto grande curiosità per il mondo e una memoria, data dall'oralità, prodigiosa. Mia madre inoltre è una poetessa: la Somalia ha una serie di complicate forme di poesia a seconda dei ritmi e delle rime, qualcosa che si è sempre tramandato oralmente, e per una nata in Occidente come me, difficile da comprendere. Ho sempre guardato la poesia orale somala con ammirazione.

 

Mia madre in questo è più vicina ai trovatori medievali, a Dante; c'è una tecnica raffinatissima e uno sforzo mnemonico da titani. Quindi l'oralità non è una diminutio, qualcosa di inferiore, ma qualcosa che ha nutrito e nutre ancora quella che definiamo cultura alta. Una catena di uomini e donne che hanno reso possibile un immaginario. La parola scritta a volte riesce a dialogare con il patrimonio orale, perché in molti degli esempi citati in Africa antica la parola scritta è potere, altre volte è supporto. Non sempre sono messe l'una contro l'altra. Ma dialogano, quando sono in grado di dialogare. Non sempre riescono infatti, penso sempre al somalo scritto. La scrittura in Somalia è stato un travaglio, la forma scritta attuale è stata imposta da Siad Barre con l'acquisizione dei caratteri latini per trascrivere i suoni del somalo. Ma Siad Barre è solo l'ultimo di una catena. Infatti le discussioni su come trascrivere una lingua ricca di sfumature come il somalo, dolce e aspra allo stesso tempo, lingua con prestiti arabi, hindi e italiani, era impresa ardua. Furono tanti gli alfabeti esaminati. L'alfabeto arabo, una forma detta osmania molto vicina agli attuali caratteri amarici o appunto i caratteri latini. Furono scelti quest'ultimi con una imposizione, forse non una scelta felice. Da profana, sento nella forma scritta dell'alfabeto latino una freddezza che non c'è nella poesia orale. Chissà, se fosse stato scelto un altro alfabeto e se non fosse stata imposta dall'alto la scelta da parte di un padrone della nazione... Ci sono tanti casi nella storia in cui oralità e scrittura dialogano. Per uscire dal perimetro africano, vi porto in America Latina, esattamente a Cajamarca in quel lontano 16 Novembre del 1532. L'episodio è noto. L'inca Atahualpa affronta il conquistador Francisco Pizarro e il suo seguito.

 

C'è una disputa con il domenicano Vicente Valverde sulla vera religione e la parola di Dio. La tragedia scatta quando Valverde porge il testo scritto, il vangelo, e Atahualpa non riuscendo ad ascoltarlo, lo getta per terra. Questo gesto porterà alla sua detenzione e alla sua morte. L'episodio è stato interpretato in molti modi. Sono nati in epoche successive testi scritti, spesso in doppia lingua quechua-spagnolo, dove i fatti di Cajamarca danno ragione a Atahualpa la cui oralità non è più vista come un limite, ma per quello che è effettivamente: un altro modo di ascoltare il mondo. In questi testi, che poi entrano in rappresentazioni precolombiane e si integrano con il Carnevale, Atahualpa tradito dagli avidi spagnoli, ritorna in vita e ritrova la parola (quindi la cultura orale) grazie a un testo scritto. In questo suo ritrovare le parole, c'è anche una forte critica al colonialismo. Rispetto alla parola scritta come barriera di élite, come qualcosa da maneggiare in pochi, il continente africano ha risposto con le campagne educative che dalla decolonizzazione in poi sono state importanti in vari punti del continente e soprattutto oggi il passato dell'Africa che Fauvelle ci descrive, riprende vita nelle parole degli scrittori e scrittrici contemporanei, che mettono in scena la complessità di un continente che va conosciuto anche nella sua storia passata. Insieme a Fauvelle, una lettura che vorrei tanto si facesse in Italia, giovani e meno giovani, è il romanzo di Maryse Condé Segu, in due volumi che narra delle vicissitudini del regno Bambara nell'Africa del Settecento. Un libro che fa vedere i rapporti del continente con l'Islam e ci porta dentro la tratta negriera che tanto ha lacerato il continente. 

 

CG. Se ci pensate lo stesso confine tra “preistoria” e “storia” – arbitrariamente stabilito intorno a cinquemila anni fa – è decretato, in fin dei conti, dall'apparizione della scrittura, anche se bisognerebbe aggiornare il file e rendersi conto che quella “grande invenzione” in realtà andrebbe declinata indubitabilmente al plurale – e di recente se ne è di nuovo discusso in maniera seria e approfondita anche oltre la cerchia degli addetti ai lavori. A proposito di questa capacità della cultura di superare gli steccati tra accademia e grande pubblico, mi viene da citare Yuval Noah Harari, una sorta di star della divulgazione mondiale, ormai. Nella sua “breve storia dell’umanità” di enorme successo editoriale (Sapiens. Da animali a dèi) sottolinea come ci sia una fitta «cortina del silenzio» che si stende sulla storia che precede la rivoluzione agricola, circa dodicimila anni fa, perché non sappiamo cosa si raccontasse nelle società di cacciatori-raccoglitori, e (osserva opportunamente) «questa è una delle più gravi lacune della nostra comprensione della storia umana», della quale non conosciamo che brandelli di una minuscola sezione. La rivoluzione agricola – è ancora Harari – «costituì le fondamenta dei sistemi politici e sociali di larga scala»: il surplus di cibo, prodotto con il duro lavoro delle nuove comunità stanziali, permise di costruire palazzi, fortezze, monumenti e luoghi di culto.

 

Oltre il novanta per cento degli umani era ormai, all'epoca, costituito da agricoltori, ma il loro lavoro permise a una minoranza di «re e regine, funzionari governativi, soldati, preti, artisti e pensatori» di riempire i libri di storia parlando di loro stessi: «La storia è stata determinata da pochissime persone, mentre tutti gli altri aravano campi e portavano secchi d’acqua», scrive lo storico israeliano, ricordandoci che non tutti – in realtà: quasi nessuno – riescono consapevolmente a lasciare traccia di sé, in questo mondo.

La scrittura, in estrema sintesi, permise a pochi privilegiati di registrare – e poi di leggere – quanto stava accadendo o era accaduto intorno a loro. Poi, nello scorrere dei millenni, questo «letteralismo riservato» (per riprendere la felice definizione di Fauvelle) in molte società, specie nel mondo occidentale, si è ampliato a dismisura, questo è innegabile. Ma l'elefante nel salotto rimane la questione dell'oralità, che si relaziona indissolubilmente con il problema delle “tracce” che lo scorrere del tempo lascia – che siano intenzionali o che siano detriti che si depositano contro ogni previsione.

 

 

Da diversi decenni, per fortuna, la “storia orale” gode di una discreta, e talvolta persino invidiabile, reputazione: ci è voluto troppo tempo, ma la storiografia è arrivata ad accettare che le testimonianze orali – trascritte, registrate su supporti – abbiano una dignità parificabile, e talvolta superiore per via della loro temperatura emotiva non rintracciabile in fonti apparentemente più asettiche, ad altro genere di tracce in soggettiva del passato. Rimane un problema di davvero ardua risoluzione il tema della trasmissione di storie e di storia attraverso il prisma deformante dell'oralità: una decina di generazioni che, come in una staffetta, tramandano una storia vera fino a prova contraria e la trascinano fino a noi, magari mutandone i connotati anche in virtù di una “traduzione” in altre lingue, riescono a conservare anche per sommi capi il contenuto originario? Come ci si può approcciare criticamente a questo genere di sapere?

 

Come si possono incrociare queste narratives con altre fonti? Non sono domande alle quali so rispondere con nettezza, naturalmente; mi limito a segnalare l'alto tasso di complessità di tutto quanto non rientra nella storia per come la conosciamo da Erodoto in poi. Soprattutto se c'è di mezzo la memoria umana, «uno strumento meraviglioso ma fallace» secondo Primo Levi. Parallelamente Marc Bloch – riferendosi alla sua esperienza nella Grande Guerra – parlava dei «capricci della memoria [, che] è solita fare del passato una cernita spesso poco giudiziosa. Si ingombra di minuzie senza interesse e lascia che svaniscano immagini di cui anche il minimo particolare mi sarebbe stato caro». Ora, sarà che io sono cresciuto in una sezione privilegiata di tempo, di spazio e di società, e cioè in una casa zeppa di libri e benessere, nell'Europa occidentale degli anni Ottanta-Novanta, e poi in un entourage costantemente attorniato da carta stampata (nei discorsi, nella fisicità delle relazioni), ma pur consapevole di queste irrinunciabili fortune sono fermamente convinto che per salvare le storie particolari e la storia universale, ora che possiamo parlare di alfabetizzazione di massa in ampie aree del globo, sia necessario scriverle, prima o poi. È cruciale che queste planino nella forma-libro, o in altri “contenitori” analoghi che le sappiano salvaguardare. La scrittura e la lettura non sono più un privilegio, ed è una conquista che giova alla crescita culturale del pianeta intero.

 

Un esempio? Come conosciamo la storia di Toussaint “Louverture”, il “Robespierre nero” che instaurò la prima repubblica “non bianca” della storia in scia alla Rivoluzione francese in una lotta di dodici anni contro vari nemici (i bianchi locali, i soldati francesi, gli spagnoli, una spedizione britannica, un ultimo attacco francese)? Principalmente grazie a un libro, forse un po' apologetico, certo, ma divenuto un pilastro della cultura storica novecentesca; Louverture non era certo un personaggio immacolato, ma il valore storico, catartico e simbolico della sua vicenda è quasi unico nella storia umana recente. La vicenda di Louverture è stata resa immortale oltre ottant'anni fa (era il 1938) da Cyril Lionel Robert James nel suo I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, un libro che trasuda visibilmente il tempo in cui fu scritto rivelando tra le altre cose come a fine Settecento la tratta atlantica e la schiavitù fossero ancora la base economica del vecchio continente e persino della Rivoluzione francese. Come riesce a farlo? Usando, in netta prevalenza, documenti scritti. Le sue prime fonti, in ordine di apparizione, sono opere di viaggiatori, nobili, politici, prelati, archivisti, antropologi, filosofi e storici francesi – e più in generale di nativi europei –, per poi sprofondare nel racconto attraverso la documentazione prodotta, vien da sé, dai colonizzatori. Il libro stesso si apre con la frase: «Cristoforo Colombo sbarcò per primo», dando il via alla sua storia con l’arrivo degli europei nelle Americhe. È un vecchio vizio, anche in tempi differenti e autori non sospetti, quello dell'eurocentrismo: ma a volte questo deriva da una mancata produzione scritta delle società “altre” o da una conoscenza non sufficiente di queste da parte di chi ne scrive. 

 

Con il suo lavoro di ricostruzione, racconto e militanza culturale James ha però regalato una verità inscalfibile a noi posteri: «Se oggi uno dovesse suggerire a qualche potenza coloniale bianca», scriveva negli anni Trenta, che tra coloro che domina «ci sono uomini di abilità, energia, capacità, lungimiranza tali che tra cento anni i bianchi saranno ricordati soltanto per i contatti avuti con i neri, si avrebbe un’idea di ciò che conti, marchesi e altri magnati coloniali dell’epoca pensassero» dei ribelli quando scoppiò la rivolta dei “giacobini neri”. Che ci serva, nel presente: i libri regalano nuova vita a vicende la cui memoria sta evaporando; la storia – anche la più tragica – sa ispirare chi la narra e i suoi destinatari. Purché sia guardata con serietà, e in tutta la sua complessità. 

 

EM. La storia della tratta atlantica e del colonialismo resta fuori da questo libro. Il primo tema, senza negarne l'importanza e la drammaticità, ha una centralità che si deve alla disumana e straziante questione della schiavitù, da cui deriva la subordinazione e la marginalizzazione di milioni di afroamericani nei secoli e l'urgenza dei temi della emarginazione, della povertà e della violenza negli Usa di cui Black Lives Matter si fa portavoce oggi. Nel campo di studi ci sono state anche notevoli innovazioni: penso da un lato al già citato libro Storia della schiavitù in Africa di Lovejoy, che ha contestualizzato la questione della schiavitù prima della tratta coloniale occidentale; dall'altro si rende necessaria una riscoperta della schiavitù nel Mediterraneo, per lungo tempo ignorata o comunque trascurata.

 

IS. La schiavitù nel Mediterraneo non può essere sovrapposta alla tratta atlantica. Ci sono differenze notevoli, come spiega Salvatore Bono nel fondamentale Schiavi. La schiavitù nel Mediterraneo era reciproca, musulmani (e non solo, penso ai numerosi cristiani ortodossi, come i greci o ai circassi) erano schiavizzati in Europa e cristiani schiavizzati in Nord Africa. Penso a Miguel de Cervantes, diventato schiavo nei territori dell'attuale Algeria. Inoltre non è una schiavitù che si basava sul colore della pelle. Tra questi schiavi c'erano neri, ma non solo neri. Anzi erano di più le persone di origine araba o turca. Invece come ben sappiamo la tratta atlantica, oltre ad avere una genesi complessa, era più industriale, più legata al capitalismo. Servivano corpi, tanti corpi, come pezzi di ricambio per la piantagione, ed erano “corpi neri”. Questo non significa che essere schiavi in Europa, per esempio nella nostra Italia, fosse una passeggiata. C'erano umiliazioni, maltrattamenti, paure. Ricordo un testo molto interessante di un inglese, diventato schiavo a Livorno e messo insieme ad altri sfortunati al remo in una galera. Leggendo quel diario ho capito quanto fosse galera, la galera. Scusate il gioco di parole, ma parliamo di condizioni invivibili. Quando oggi passiamo per Livorno e guardiamo negli occhi i quattro mori incatenati al bianchissimo granduca di Toscana, capiamo che sono stati legati così al remo e alla nave, prima che Livorno si dotasse di una fortezza, simile ai bagni dei forzati del Nord Africa.

 

Una storia cruenta di stenti, di brande piene di pulci, ma anche di schiavi che si organizzavano: i primi caffè a Livorno furono fatti da schiavi turchi che insieme a tutti gli altri rivendicavano diritti, come per esempio un luogo degno per la sepoltura dei musulmani e delle moschee per la preghiera. Inoltre esisteva la possibilità di riscattarsi dalla schiavitù: si tratta di una storia complessa, con tante sfumature e che ha riguardato molte persone. Quindi non è utile sovrapporre, ma cercare di capire cose in comune e differenze. Leggendo i lavori di Salvatore Bono o Giovanna Fiume mi sono trovata come Lafanu Brown, la protagonista del mio romanzo La linea del colore, a guardare con sgomento la fontana dei quattro mori di Marino e cercare di capire come mai oltre a due schiavi uomini, facilmente identificabili con prigionieri di guerra, c'erano anche due donne nere a petto nudo. Nel libro ricostruisco una storia che porta a Lepanto, alla famosa battaglia del 1571, a due mondi come quello ottomano e quello cristiano che si fronteggiano. Guardando quella fontana capisci che la parola “moro” è tutto e niente. Non significa in questo caso solamente essere africani, ma anche musulmani, genericamente schiavi o persone subalterne. Ripercorrere la linea del colore in questo caso per la protagonista – che viene dall'America – è impossibile, nemmeno tenta ma sa che c'è un legame con quelle donne incatenate, che sono figlie o sorelle delle sue antenate. La mia protagonista, Lafanu, ma anch'io, sa che sono sorelle. E questo basta per creare una sorellanza. Sentimentalmente è così, ma poi storicamente dobbiamo capire che le storie sono diverse e complesse. 

 

CG. Certo, Miguel de Cervantes, l’autore di quello che è uno dei personaggi letterari più noti dell’ultimo mezzo millennio, ha preso parte alla battaglia di Lepanto citata da Igiaba. Cervantes si era arruolato senza particolare fervore ideologico, venne ferito al petto e perse l’uso della mano sinistra (divenne “Il monco di Lepanto”); dopo qualche anno nel sud Italia fu poi catturato dai corsari nel mar Mediterraneo e fatto schiavo. Se Cervantes avesse perso la mano destra, in battaglia, forse non sarebbe mai diventato l'autore del Don Chisciotte e la sua sarebbe la storia di uno dei tanti soldati provenienti dal più potente impero dell’epoca che, dopo aver combattuto a Lepanto, divenne schiavo, per essere infine riscattato dopo cinque anni, con ferite psicologiche difficili da cicatrizzare e varie tentate fughe alle spalle. Una storia peraltro non dissimile da quella che racconta un personaggio del libro, a lungo in schiavitù nel Mediterraneo e infine approdato, per vie rocambolesche, in Spagna. Sulla terra «non c’è gioia che sia uguale a quella di conseguire la libertà perduta», dice l’ex schiavo nel corso della narrazione delle sue peripezie, dopo aver scoperto che un suo compagno di prigionia di allora era riuscito anche lui a fuggire.

 

Arrivando a includere in un gioco di specchi tra finzione e realtà anche lo stesso Cervantes nel suo racconto dei tentativi di trovare una via di fuga, l'autore ci fa capire quanto spesso, poi, la storia sia una questione di punti di vista. All’epoca, era del tutto normale vedere europei in condizioni che per secoli sarebbero state appannaggio dei nativi degli altri continenti. Europei schiavi – un accostamento che stride, letto oggi, anche dopo aver soppesato le peculiarità della schiavitù mediterranea e le differenze con quella straziante e pachidermica tragedia che fu la tratta atlantica. Nella penisola iberica, in età moderna, la popolazione non si stupiva al vedere schiavi cristiani che si erano liberati né arabi in catene, «poiché tutta la gente di quella costa era assuefatta a vedere gli uni e gli altri», anche se – come sottolinea uno studioso di Cervantes, Diego Clemencín – quelli che se la passavano peggio erano solitamente gli arabi in terra iberica. In ogni caso pochi secoli fa, in Europa, era un’esperienza piuttosto comune quella di finire in schiavitù, ed è bene ricordarlo perché è uno dei tanti scorci che ci mostra traiettorie spiazzanti di subordinazione e di marginalizzazione che riguarda – ne parlavamo nelle “puntate” precedenti – chi percepiamo spesso come parte del “nostro” gruppo umano. Come le si raccontano, questo genere di storie? Le si può mettere in relazione con quelle degli “altri”? 

 

Insisto sulla schiavitù “bianca” perché lo fa, a mio avviso egregiamente, la storica Linda Colley nel suo libro Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo, 1600-1850, che copre oltre due secoli dell’età moderna, raccontando come il sogno di supremazia globale dell’impero britannico generò un gran numero di prigionieri oltremare «perché si trovarono a essere di colpo degli intrusi onnipresenti e, di conseguenza, talora, disperatamente vulnerabili». Perché il rapporto tra le dimensioni territoriali di un paese e la sua “potenza” esplode in «momenti paradossali e punitivi», non soltanto rispetto «a chi viene invaso e conquistato ma anche all’invasore stesso, al guerriero che con tanta facilità rischia di essere fatto prigioniero». «Sarebbe bello – aggiungeva Colley introducendo il suo libro – poter pensare che tali problemi possono ormai essere consegnati senza timore al regno della storia. Ma sarebbe anche imprudente.» E questo mi permette di ricordare che ogni libro di storia e ogni discussione che orbita intorno alla storia è, implicitamente o esplicitamente, una critica o una legittimazione dell’esistente, un giudizio sul tempo in cui viviamo noi, una presa di posizione anche identitaria che mette in relazione passato e presente, talvolta ingarbugliando i nostri preconcetti e le nostre convinzioni. Ricordare anche la storia dei soprusi patiti dagli antenati degli europei di oggi ci permette forse di amplificare la nostra capacità di comprendere le rivendicazioni dei discendenti di chi per secoli ha subito la furiosa sete di conquista e di denaro dei colonizzatori “bianchi”. Forse, ripeto, purché si tengano in equilibrio il sacrosanto impegno civile e un onesto bisogno di scavare, di sapere. Bloch – permettetemi di citarlo integralmente, perché viene strattonato spesso in maniera impropria – lo diceva con parole di invidiabile trasparenza: «Un motto, in sintesi, domina e illumina i nostri studi: “comprendere”.

 

Non diciamo che il bravo storico è estraneo alle passioni; ha per lo meno quella. Motto, non nascondiamocelo, carico di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, motto carico di amicizia. Persino nell’azione, noi giudichiamo troppo. È comodo gridare “a morte!”. Non comprendiamo mai abbastanza. Chi è diverso da noi – straniero, avversario politico – passa, quasi necessariamente, per un cattivo. Anche per condurre le lotte che non si possono evitare, un po’ più di intelligenza delle anime sarebbe necessaria; a maggior ragione, per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, purché rinunci alle sue false arie da arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. Essa è una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro tra gli uomini. La vita, come la scienza, ha tutto da guadagnare dal fatto che questo incontro sia fraterno».

La storia è un lungo incontro tra gli uomini, un tentativo di racconto universale. Sappiamo poco – a volte quasi niente – delle storie di chi ha solcato altri mari e altre terre, soprattutto in epoche remote, è vero. Ma se vogliamo incontrarlo, prima o poi, dobbiamo farci guidare da questa volontà. E che questo incontro, a proposito di “sorellanza” e dell'incompiuta rivoluzione francese, sia fraterno. 

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