La violenza: un fatto complesso / Vendetta e delirio

7 Agosto 2021

Il libro di Arianna Barazzetti, Complessità della violenza, uscito da poco per Mimesis, è il risultato di una serie di percorsi di ricerca sulla violenza realizzati in Cile, in Brasile e in Italia: la violenza di un golpe, la violenza nelle miserie della favela a Rio de Janeiro, la violenza che emerge dal lavoro clinico nelle carceri del nostro paese. Si tratta di un testo teorico impegnativo, denso e ben articolato, di quasi quattrocento pagine. Dalla lettura emerge un primo nodo fondamentale: la violenza non riguarda i soggetti in quanto isolati, ma un clima; qualcosa che appartiene sempre a una comunità oppure a un’istituzione sociale. Nelle democrazie, la violenza dovrebbe essere vietata ai cittadini perché monopolio delle forze dell’ordine e delle forze armate, dovrebbe essere esercitata solo in caso di estrema necessità, ma questo non accade. Non c’è paese democratico in cui singoli o gruppi di esponenti della polizia non commettano abusi, o non vi siano gruppi, non riconosciuti o semi-riconosciuti, che non scorrazzino armati, come nelle mafie locali, negli squadroni fascisti della morte, tra le guardie della rivoluzione, nel ku-klux-klan o altre simili aberrazioni comunitarie.

 

Il tema “violenza” ha sempre a che fare con qualcosa che riguarda il soggetto collettivo: comunità, istituzioni, gruppi. Si tratta di analizzare la questione dell’inconscio come fenomeno sociale, di far uscire dal nucleo istintivo o pulsionale delle singole reazioni individuali, il contesto nel quale il fenomeno violenza diventa canone, ossia principio regolato. Inoltre l’evento violento è un oggetto visto da differenti punti di vista: un reato, una rivolta, una rivoluzione, un golpe, un abuso, ecc. 

La logica dell’inconscio ci porta a parlare di classi simmetriche: se un albanese è violento, gli albanesi sono violenti; se un italiano è razzista, gli italiani sono razzisti. Quel che accade, a proposito dell’oggetto “violenza”, è il passaggio da un episodio, l’elemento di un insieme, a una conclusione generale: ogni elemento dell’insieme è attribuibile all’insieme. Questa logica dell’inconscio è stata osservata da Ignacio Matte Blanco e da Gregory Bateson: la violenza, da episodica, diventa sociale e si espande, almeno nell’immaginario delle parti tra loro in opposizione; reazionari-rivoluzionari, destra-sinistra, cattolici-protestanti, nazionalisti-universalisti, fedeli-infedeli, ecc. 

 

Provo a sviluppare una provocazione; una generalizzazione ancora maggiore: “tutti gli uomini sono violenti”. Qualsiasi elemento appartenente alla classe “uomo” è violento, il che vuol dire anche: “io, che sono uomo, sono violento”. Confessione scomoda, ma perché? 

La prima risposta potrebbe essere data da coloro che si sono occupati di Neurobiologia della violenza, come si intitola un testo di Jan Volavka scritto nel 1995. Il testo di Volavka scrive che i fattori sociali esistono, certo; in maniera generica e cronachistica parla della violenza negli Stati Uniti. Benché suggestivo, il suo lavoro tuttavia non aggiunge molto di nuovo, è privo di ricerca storico-sociale, come se la violenza si generasse nel vuoto del sistema nervoso, benché corroborato da fattori esterni che slatentizzano qualcosa di innato. 

Questo tipo di ricerca, che riguarda l’attivazione neurologica della condotta violenta sotto determinate circostanze, è interessante. Se riguarda il regno animale, mostra che ci sono segnali che attivano nell’organismo un certo tipo di condotte. Per esempio, in un’aquila si può attivare una condotta feroce in relazione alla vista di un agnello, ma questo lo aveva già scritto da qualche parte un certo Nietzsche. 

 

Tuttavia dobbiamo chiederci se nell’“uomo” si sia generato un tipo di violenza diversa, intraspecie. Quel che Nietzsche ha definito, usando un termine francese, ressentiment. Se il rapace dà la caccia al topolino, l’uomo dà la caccia a se stesso come un altro.

Perché ciò accada, ci vuole un codice suppletivo, un surplus, una consuetudine. La preda umana, si trasforma in sacrificio. Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo, Bataille in La parte maledetta e in Il limite dell’utile, Burkert, in Homo Necans, e molti altri, hanno descritto questo fenomeno. Il nodo cruciale che indagano questi autori è il passaggio dal sacrificio umano alla sostituzione, al posto dell’uomo, di un animale; conquista mai definitiva, che consiste nel sottrarre la persona designata alla morte. 

 

 

Questo salto iperbolico – la dialettica dell’illuminismo – ha prodotto una discontinuità, ma reversibile. Se la sostituzione del capro all’uomo sottrae la vita umana alla potenza degli dei, non la sottrae alle relazioni umane. 

Alla sottrazione si sostituisce il codice, che limita la violenza, ma, nel limitarla, la prescrive. Il rito segna un passaggio straordinario, da una condizione all’altra, il codice designa la normalità. Il codice non sottrae l’uomo alla violenza, perpetrata o subita, ma canonizza la violenza dentro pratiche regolate. La caccia intraspecie viene regolata, come le normali pratiche venatorie, ma permane. Barazzetti sonda questo fenomeno: la violenza come canone. 

Passiamo alla storia clinica singolare. Si parte da un uomo che chiama Pjetër: versione albanese di Pierre, evocando l’opera, curata da Michel Foucault, su Pierre Rivière. 

La storia di Pjetër riguarda un delirio che emerge a partire dalla trasgressione di un codice di vendetta, riapparso dopo la caduta della feroce dittatura comunista di Enver Hoxa: il Kanun, diffuso soprattutto nelle zone montane del nord Albania.

 

Che significa codice di vendetta? È possibile che la vendetta, gesto per noi tra i più aberranti, si possa sottoporre a codici? E quali potrebbero essere questi codici? Si tratta di codici che Pjetër ha trasgredito, producendo il delirio della fine del mondo

Bisogna farsi un’idea del Kanun, inquadrarlo dentro consuetudini comunitarie, al di là del bene e del male, in vigore ovunque, in modo clandestino o semi-clandestino. Sono i codici dell’inconscio sociale. Pier Paolo Pasolini, per esempio, ha mostrato i moderni codici italiani nei rapporti stato-mafia. Sono quei codici che rendono leale un esercito al governo finché il governo è gradito all’esercito, i codici dei golpe, che hanno portato al potere Pinochet.

Il Kanun albanese, invece, è un antico codice consuetudinario patriarcale che prevede un assetto familiare di rigida sottomissione al maschio più anziano da parte del resto della famiglia; il dominio, alla morte del patriarca, passa di mano in mano al maschio più anziano che gli succede nel clan familiare. Per l’aspetto specifico della vendetta, leggiamo il testo di Barazzetti: 

 

“La protezione dei membri della comunità comprende l’obbligo morale di applicare la violenza all’interno di precisi schemi di ritorsione e vendetta, finché l’onore del gruppo non sia stato ristabilito. Colui che soddisfa questi obblighi sanciti dal Kanun viene onorato ed elogiato dagli altri membri del gruppo, al contrario, chi non rispetta tali regole viene considerato impuro, codardo e costretto a subire pesanti umiliazioni da parte della comunità” (p. 301).

 

Le vicende di Pjetër sono complesse e singolari, tipiche dei casi di psicologia giuridica ai quali la razionalità classica non riesce a dare spiegazione: non c’è un movente, né una qualunque ragione colposa definibile. Pjetër, secondo il Kanun, avrebbe dovuto uccidere, sì, ma ha ucciso le persone sbagliate, ha esagerato, è deragliato. Perciò è stato condannato a morte dal capo del suo clan, suo fratello. Per non togliere al lettore il gusto dell’opera di Barazzetti, scriverò qui solo questo: Pjetër ha esagerato. Questa condanna riverbera in maniera talmente intensa nella vita del reo, da produrre un delirio: l’Apocalisse, la fine del Mondo.

In carcere, Pjetër delira, invoca l’Apocalisse e Barazzetti scrive, richiamandosi a Ernesto De Martino: “Il delirio apocalittico di Pjetër non distingue il proprio mondo da quello degli altri. La fine del mondo … il tradimento del Kanun … coincide con la fine di Pjetër” (P. 312). Da leggere.

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