Viaggio in un libro
Ho un problema con i libri che parlano di paesaggi: quasi mai ti fanno vedere la cosa di cui parlano. Penso che la lingua letteraria sia quella più adatta a parlare in termini non specialistici del mondo che ci circonda. Un libro sul paesaggio deve far venire voglia di spegnere la televisione e uscire. Deve essere un invito a disertare il divano e a scegliere quello c’è fuori. Per me un autore che produce questa sensazione è Gianni Celati. I libri sul paesaggio scritti dai saggisti spesso hanno il difetto di usare il linguaggio delle astrazioni mentre un paesaggio è sempre una cosa concreta, un ammasso di dettagli. E forse lo strumento migliore per avvicinarsi ad esso è la poesia, la poesia in quanto scienza delle eccezioni, dei dettagli. Non penso alla poesia come atletica del sentimento, come stimmate di una sofferta vita interiore. Penso alla poesia che viene dall’osservazione del mondo. Il mondo esterno osservato con un occhio intimo e distante, un’osservazione ravvicinata e panoramica.
Altri paesaggi, il libro pubblicato per le edizioni Franco Angeli (2010, pp. 328, € 39.00) dallo spagnolo Joan Nogué è importante, anche se non si sottrae ai limiti di cui parlavo prima. C’è lo sforzo di un atteggiamento più obliquo, meno canonico, meno imbalsamato. Lo studioso spagnolo non dispone di una lingua luccicante, ma lo sguardo sulla materia è appassionato, coinvolto e coinvolgente. Insomma, è un libro che sono riuscito a leggere per intero a differenza di quello che mi è capitato con altri libri che portavano nel titolo la parola “paesaggio”.
Nel caso dello studioso spagnolo basta scorrere l’indice per capire che siamo di fronte al tentativo di fare un catalogo dei paesaggi, di quelli smarriti o in via di smarrimento, ma anche dei paesaggi che si formano e si deformano ogni giorno sotto i nostri occhi. Forse il problema sta tutto nella parola, forse non è chiaro di cosa parliamo quando parliamo di paesaggio e allora la parola diventa sempre più inflazionata. Alla fine paesaggio diventa sinonimo di mondo, diventa semplicemente il pezzo di mondo esterno a cui di volta in volta ci capita di rivolgere l’attenzione.
Possiamo guardare da fermi o camminando, possiamo guardare in mezzo o sul bordo, possiamo guardare rovine o abissi, luoghi ignoti o luoghi celebri. Una cosa è certa, lo spazio esterno pare sempre più ricco di luoghi ibridi, meticci, pare una messa in scena del caos che regna nella nostra mente. Il paesaggio si è rotto, è diventato luogo del groviglio: la visione di una cosa è sempre la visione di qualcos’altro. Quando parliamo di paesaggio sembra ormai che non pensiamo a cose nette, precise, come il cielo, il mare, il deserto, ma a una geografia dello sfinimento in cui gli “spazi di eccezione” sembrano prevalere su quelli tradizionali, dove l’osservazione diventa una sorta di “requiem del paesaggio”. Insomma, si comincia col guardare e ci si accorge che è un guardare che ci fa stare male: dall’estetica si passa all’etica, dalla contemplazione alla lotta.
Il libro di Nogué è un tentativo, è la somma di una serie di articoli e questo suo carattere frammentario paradossalmente evita un difetto che c’è in tanti libri sul paesaggio, dove sembra prevalere il piano progettuale, le cose che si vogliono dire. E invece bisogna essere sorpresi dal paesaggio, bisogna essere disposti ad accoglierlo e a respingerlo, a sentire l’impuro e l’invisibile, a indagare l’adiacenza di cose diverse. Scrivere del paesaggio, cioè del mondo, significa allontanarsi dalle astrazioni, significa avere lo sguardo di un cane, significa anche annusare gli odori, i rumori che non ci sono più e gli odori e i rumori che stanno arrivando.
Mi piacerebbe leggere un libro in cui a un certo punto l’autore confessa la sua impotenza e magari si ferma sulla pagina come un mulo che s’impunta e non vuole andare più avanti. Nogué ci dice che bisogna considerare la dimensione liminare del paesaggio, il suo essere sempre tangibile e intangibile. Abbiamo davanti a noi i residui del passato ma anche i residui di un futuro che non arriva, abbiamo davanti a noi spazi costruiti dal disfacimento della civiltà e dai vagheggiamenti di un futuro a cui abbiamo smesso di credere. Siamo impalati nel presente, siamo impalati nella compresenza di cose che non si parlano, che si danno le spalle eppure pretendono di stare insieme. E allora siamo obbligati a “sguardi divergenti, percezioni incrociate” come dice un altro bel titolo di uno dei capitoli di questo libro che non vuole sancire nulla, anzi sembra solo dirci: attrezziamoci diversamente se vogliamo capire qualcosa del mondo che ci circonda.
Il nostro benessere non dipende dal fatto che abbiamo un buon lavoro e un buon conto in banca e una bella casa e una bella famiglia, ma dalla qualità del mondo esterno. E possiamo mettere davanti a noi tutti i cancelli che vogliamo, il mondo esterno è ormai come il palmo di una sola mano e stiamo tutti dentro, siamo linee che s’intrecciano e dobbiamo trovare un modo tutto nuovo di essere, che parta proprio dalla capacità di percepire in maniera più immaginosa quello che siamo. Insomma ogni buon libro è un tentativo, è una ricerca. E da questo punto di vista il libro di Nogué ha lo spirito giusto.
Mi sento di avanzare qualche riserva sulle aspettative che l’autore esprime verso la città. A mio modo di vedere c’è da aspettarsi qualcosa di più e di meglio dai paesi. Nelle mie letture sui libri che parlano di paesaggi trovo molto spesso la città e la campagna, quasi mai le creature che stanno in mezzo, cioè i paesi. È una mancanza grave e a mio avviso inspiegabile. Si può gettare lo sguardo sul grattacielo o sul teatro greco o sul campo di grano, ma ci sono anche quelle creature tanto diverse tra loro che sono i paesi come sono adesso, piccole anime stralunate in un territorio stravolto.