Viaggio a Tōkyō | I pesci sono ovunque

21 Dicembre 2014

Tokyo è una città di mare, ma non sembra. Stando nel centro della città non lo si percepisce mai. Il vento non porta odor di salmastro. Il porto è talmente grande e affollato di capannoni ed edifici commerciali che a mala pena si vede, in lontananza, il mare. Però i pesci sono ovunque.

 

 

A Venezia c’è un piccolo negozio di cose giapponesi, accanto alla Casa di Goldoni, che per anni ha esposto in vetrina due grosse carpe di ottone che si intersecavano sinuose come se nuotassero nell’acqua. Erano molto belle, ma carissime. Le ho lasciate sempre, a malincuore, lì finchè qualcuno non se l’è comprate e al loro posto è comparso un colorato ventaglio. Mi sono consolato andando a vedere le due panciute carpe nella vasca-fontana di pietra all’ingresso del Museo di Ca’Rezzonico. Nuotano e si scontrano in continuazione in un piccolissimo spazio. Ce n’era anche una terza ma l’acqua alta, che un giorno è arrivata fin lì, l’ha uccisa. Le due sopravvisute sono evidentemente così forti che nulla può ammazzarle, nemmeno i bambini che, quando il custode è voltato, le accarezzano indelicatamente e lanciono loro pane, caramelle e pop corn.

 

 

Una domenica mattina, nel piazzale principale al centro del Parco Ueno ho visto allineati una cinquantina di recipienti circolari in tela blu plastificata. Dentro ognuno di essi nuotavano delle enormi carpe colorate a chiazze aranciani, gialle e bianche. Una folla silenziosa e ammirata, di adulti e bambini, osservava dall’alto le evoluzioni dei pesci, le fotografava e segnava su dei foglietti il numero corrispondente alla vasca. Si trattava di una gara di bellezza (e soprattutto: di robustezza) di carpe. Poco distanti delle variopinte bancherelle servivano cartocci fumanti di pesce fritto e patate dolci. Era inevitabile che sorgesse, nella mia mente malata, il sospetto che le carpe che non avevano suparato la prima selezione…

 

 

Ben altre sensazioni, ed emozioni, ho provato al Mercato del pesce, che, dicono, sia il più grande e antico del mondo. Si assiste, all’alba, all’asta dei tonni in un enorme salone fumante per le differenze di temperature. Le bestie arrivano congelate e vengono buttate giù per terra dai comioncini, come se fossero dei lastroni di pietra. A queste cataste rigide e grigiastre si avvicinano quasi in punta dei piedi i grossisti che, con dei coltellini appuntiti, fanno dei carotaggi dai grandi ventri. Prendono un tocchetto e se lo infilano tra il braccio e il polsino per farlo rapidamente scongelare. Poi ne valutano il colore, la consistenza e il sapore della carne. In pochi minuti si fanno affari per parecchi milioni: tutto con poche grida, in un quasi rispettoso silenzio per quesi cadaveri irrigiditi dal gelo e dalla morte. Da lì si passa, stando attenti a non farsi travolgere dai velocissimi moletti, stracarichi di casette, guidati da frettolosi pazzi convinti di essere in un circuito automobilistico, nel dedalo delle centinaia di bancarelle, con zone di alta specializzazione: tentacoli di polpo; pinne; interiora di tutte le sfumatura tra il grigio e il rosso; pesciolini secchi per il brodo; vongole, conchiglie, ostriche, cozze di ogni dimensione, alcune ancora pulsanti della bestia dentro; anguille guizzanti in catini esposti su piccoli banchi in equilibri instabili. Le uova di riccio, essiccate e ben allineate in eleganti scatole di legno, sembrano grossi datteri o albicocche. Molti pesci vengono ammazzati lì per lì con un preciso colpo di lama, oppure venduti vivi. In particolare, una specie di grosse sogliole nere e carnose sono servite, in alcuni raffinati ristoranti, ancora vive e appena sgocciolate, su una tavolozza di legno e tenune ferme con sei piccoli spilli. L’abilità del consumatore, o del cameriere, consiste nel tagliare, con l’ausilio di affilatissimi bisturi, la pelle ed estrarre la polpa uccidendo il più tardi possibile l’animale. La carne, appena spruzzata di una salsina violacea, permette, secondo la credenza tradizionale, di assimilare con un boccone tutta la vitalità del pesce. Mi sono rifiutato di fare questo pasto, ma sono andato invece in una delle anguste bettole dentro l’area del mercato a mangiare le famose zuppe fatte con gli scarti. Buonissime, ma meglio non chiedere che cosa ci sia dentro. La mia aveva come base lo sperma di merluzzo.

 

 

Una sera mi hanno portato a cena nel migliore ristorante...  calabrese di Tokyo (da Elio). All'ingresso foto alle pareti di tutti i commensali più famosi: un presidente (Scalfaro) e parecchi politici italiani; Armani e molti altri stilisti; una miriade di calciatori (da Del Piero a Totti). E poi caciocavallo appesi come impiccati e bottiglie ovunque. Pienissimo di giapponesi eleganti (alcune signore davvero bellissime; dicono che le donne dimostrino tutte 10 anni di meno: sguardo maturo e fisico da ragazze). Mi aspettavo il peggio ed ero anche un po' contrariato di dover sprecare una cena mangiando una parodia della cucina italica al posto dall’amato sushi. Invece, mai mangiato così bene alla calabrese da anni! Materie prime straordinarie, tutte a chilometro zero (a parte il vino e l'olio che vengono dalla Calabria). Pare che un gruppo di calabresi (tutti parenti del selfmademan Elio con i capelli tinti e la voce da tenore) si sia insediato a Hokkaido e produca là tutto: persino forme di parmigiano davvero notevole e ricotta profumatissima). E' questa la globalizzazione buona?

 

Nella perfetta efficienza di Tokyo, i tassisti sono un vero disastro. Quasi nessuno parla o capisce l’inglese. Non conoscono la loro immensa città (e dire che ora sono aiutati dal navigatore satellitare!). Sbagliano spesso strada e si incartano in giri a vuoto tra strade e stradine. Certo, non sono aiutati dal fatto che a Tokyo le strade e le piazze non hanno nome. Gli indirizzi sono qualcosa di molto lungo e complicato. Hanno come punto di riferimento una certezza (in genere: la stazione della metropolitana) e da lì si diparte una descrizione, che pare immaginaria, di luoghi e percorsi. I clienti più avveduti si portan dietro fotocopie di cartine dettagliate e gli stranieri cartellini con i nomi dei luoghi limitrofi in ideogrammi. Il tempo della corsa, se si parla il giapponese, trascorre in spiegazioni e chiarimenti sulla destinazione voluta. Nel frattempo si apprezzano le trine e i merletti bianchi che adornano i sedili del taxi. Poi, col passare del tempo, ci si rende conto che l’autista si sta perdendo: inizia a girare a vuoto, scruta perplesso il navigatore, si guarda attorno in cerca di un improbabile indizio stradale, sbuffa sommessamente e poi, costernato, accosta al marciapiede. Non bisogna essere dei geni per comprendere che l’unica cosa da fare è ringraziare, pagare, scendere rapidamente e cercare di arrangiarsi. A patto però di non chiedere informazioni a qualche gentile passante. Si cadrebbe dalla padella nella brace. Così facendo, lo si getterà nel panico e si metterà a dura prova il suo pessimo inglese. Cocciutamente, nonostante facciate di tutto per dissuaderlo, tenterà di accompagnarvi scrutando il suo cellulare e confrontando l’immagine sul suo piccolo schermo con il vostro foglio (con l’indirizzo e la piantina stampata). A un certo punto, il passante che ha perso, e vi ha fatto perdere, un sacco di tempo si arrenderà all’evidenza: non ha la minima idea di dove dovete andare. Questo lo intristisce molto, soprattutto perché mette in crisi la sua nipponica autostima.

 

Quando il 122esimo imperatore del Giappone, Meiji (che di vero nome faceva Mutsuhito ed era nato nel 1852) morì, il 13 novembre 1912, l’anziano e barbuto generale Nogi Maresuke e la sua triste moglie dimostrarono il loro attaccamento a lui, ammazzandosi secondo il codice dei samurai (junshi). La casa nella quale commisero il suicidio, si trova oggi accanto al piccolo Tempio eretto in suo onore.

 

Una bella e gentile signora, tutta vestita di bianco, alla quale chiedo, sotto la pioggia scrosciante, se sia proprio quello il luogo che cerco, mi conduce al lavacro e mi insegna pazientemente a fare le abluzioni purificatrici con i pentolini dal lungo manico. Nella casa c’è la statua ad altezza naturale (davvero piccolo!) del generale e varie foto con la moglie in kimono e persino con un gruppo di baffuti cosacchi, in ricordo della vittoria sui russi a Port-Arthur.

 

La figura del generale Nogi è centrale nel romanzo Il cuore delle cose di Natsume Sōseki (pseudonimo di Kinnosuke Natsume), pubblicato in Giappone nel 1914 (trad. Gian Carlo Calza, Neri Pozza 2006), che narra del rapporto tra un giovane studente e un maestro, conosciuto fortuitamente a nell’antica capitale medievale di Kamakura. Il maestro vive in una condizione di totale isolamento dal mondo nella sua residenza a Tokyo. con il proposito di vivere come un morto, meditando anche al suicidio, senza però mai metterlo in atto sino ad un evento storico che gli cambia prospettiva: il suicidio appunto del generale Nogi, seguito della morte dell' imperatore. Negli ultimi giorni di vita, il maestro scriverà la lunga lettera all'allievo, descrivendogli la sua esperienza personale con il solo scopo di aiutarlo a capire, almeno in minima parte, ciò che siamo. A questo punto, con la consapevolezza di continuare a vivere nell'anima del giovane, decide di togliersi la vita.

Anche Roland Barthes ha ricordato il generale in uno degli ultimi capitoli, Il volto scritto, del suo bellissimo libro sul Giappone, L’impero dei segni, riproducendo, e commentando da par suo, le fotografie di Nogi e di sua moglie. Secondo lui, il generale sembra non avere volto, a differenza della moglie che si vede come “abbia deciso di non parlare del senso della Morte, nemmeno con il volto”.

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