Il volto segreto di un poeta dimenticato / Villa Piccolo a Capo d’Orlando
Qualcuno ha detto che una casa è il volto di chi la abita. E come ogni volto anche la casa è un labirinto di segni, aperture, passaggi. Alcuni si aprono, altri rimangono ostinatamente chiusi, nonostante l’insistenza di chi li fissa con il suo sguardo. Così certe storie mostrano meglio d’altre come nulla fosse già deciso dall’inizio e come tutto si sia fatto, pezzo per pezzo, con i frammenti del Caso e i materiali di scarto della Storia.
Come ogni volto anche le case sembrano dei paesaggi da attraversare o almeno da ammirare a debita distanza. Esistono almeno due diverse forme di stratificazione di questi paesaggi. Una è spaziale, riguarda l’accumularsi sul suo verso visibile di un’infinità di combinazioni, di pieni e di vuoti, di forme e delle loro metamorfosi. L’altra è temporale. Vi si sentono le diverse mani che nel corso degli anni si sono succedute a toccare quegli oggetti, a vivere quelle stanze. Ne risulta un paesaggio complesso, come un palinsesto fatto di scritture e riscritture sopra un’unica superficie, in cui non si sappia più a chi attribuire certi segni e a chi certe propensioni.
Se ogni casa è il volto di chi la abita, Villa Piccolo è almeno tre volti. È il volto di Agata Giovanna, la botanica. È il volto di Casimiro, il pittore, barone di Calanovella. Ed è il volto di Lucio, il poeta. I tre fratelli Piccolo hanno vissuto qui insieme alla madre, la baronessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò. Ciascuno, a modo suo, ha plasmato l’ambiente che ora visitiamo, sulle alture sopra la costa di Capo d’Orlando, in provincia di Messina. Come un Giano bifronte, anche la villa, circondata dal verde, è dotata di uno sguardo doppio: con uno guarda il mare, con l’altro si riposa dall’orizzonte infinito, rivolgendosi verso il giardino interno.
Qui il gioco del Caso si è mischiato con la fiera determinazione delle passioni di ciascuno, rispettivamente la botanica, la pittura e la poesia. Il Caso ha il volto di un padre che scappa con una ballerina, come nella più classica delle cronache. Aveva ragione da vendere quello che diceva che l’amore è una commedia. Per farla breve, quando muore lascia la famiglia indebitata, a cui per un soprassalto di destino la Storia aggiunge anche la crisi economica del ’29. La madre e i figli sono costretti a lasciare il palazzo di famiglia a Palermo e a trasferirsi qui. All’inizio del Novecento dev’essere stato un luogo remotissimo dove non è difficile immaginarseli, nella dignità del portamento nobile, seguiti da tutta una scia mediterranea di pettegolezzi e di dicerie.
Mi chiedo quanto questo balletto dell’amore, il senso di tradimento, il dramma sociale, le lacrime, l’inveire, ecc., sia stato però essenziale, se non addirittura fondamentale, per lo sviluppo delle passioni dei tre figli e per l’invenzione stessa di questo luogo non più solo come residenza di campagna, ma come spazio di vita e di sperimentazione. In quante biografie importanti ritroviamo lo stesso senso dell’esilio, l’esperienza dell’abbandono e della perdita, di cui oggi sempre più fatichiamo a riconoscere un segno di vita da onorare? Quante vite si fanno di queste lontananze che inventano nuove costellazioni?
Se della crisi veniamo a sapere dai racconti, di queste stanze l’occhio di oggi non vede che l’opulenza di residenza aristocratica, in cui ci muoviamo come dei voyeur: le porcellane, le cineserie, il pianoforte suonato da Wagner, un forziere del ‘400 dalla serratura complessa perfettamente funzionante, il tavolo apparecchiato sfarzosamente, come se gli ospiti di casa attendessero di pranzare da un momento all’altro, le librerie, le fotografie, le stoffe, i numerosissimi ritratti fotografici... Aperto negli anni ’70 e poi ripristinato nel 2014, sulla base delle fotografie fatte da Casimiro, il museo restituisce ottimamente la disposizione spaziale di queste vite aristocratiche, quasi le mettesse in posa per mostrarle alla posterità.
Della casa Lucio ha scritto che era il luogo di ingressi di paesaggio. Dobbiamo allora completare l’analogia che apriva questo racconto: una casa non è solo un paesaggio o un insieme di paesaggi, ma è anche il luogo che attira altri paesaggi a raggiungere questo, ad accompagnarsi, ad accoppiarsi. Sono i numerosi intellettuali che nel corso degli anni verranno a fare visita ai Piccolo, in particolare a Lucio. Sono paesaggi umani, ma non solo: sono anche i paesaggi animali che qui si trovano particolarmente a loro agio, con la presenza di numerosi cani e gatti nel corso dei decenni. Aggiungete anche i paesaggi sovrannaturali, le presenze di fantasmi e spiritelli, i segreti abitanti delle stanze e dei boschi, le cui apparizioni Casimiro ha fissato nei suoi “acquerelli magici”, e avremmo un primo quadro della vivida follia del luogo.
Dei tre fratelli mi limiterò a parlare soprattutto di Lucio, seguendo il cui nome sono arrivato sino a qui. Ci sono artisti il cui lavoro pare non essersi espresso in maniera migliore che nella propria biografia. La loro opera più riuscita sembra essere la loro vita o per lo meno l’immagine che essa è stata capace di condensare presso i suoi contemporanei.
Dopo aver ottenuto il riconoscimento da parte di Eugenio Montale, Lucio pubblicherà con Mondadori le raccolte Canti Barocchi (1956, con la prefazione proprio di Montale), e poi Gioco a nascondere (1960). Con Scheiwiller darà alle stampe Plumelia (1967) e un anno prima della morte la rivista “Nuovi Argomenti” ospita sulle sue pagine il racconto dal titolo Le esequie della Luna (1967).
Eppure ci sono artisti, scrittori, intellettuali elegantemente incapaci di amministrare il loro successo. Lucio appartiene senz’altro a questa dinastia segreta e intramontabile. Sono storie difficili da decifrare. Non stanno semplicemente nell’ombra, che si tratterebbe tutt’al più di illuminare. Qui a farla da padrona è, come spesso accade nel Sud, Sua Maestà la penombra, Regina di tutte le case. Ci si protegge dalla luce, e dalla luce invadente si proteggono anche i preziosi averi di famiglia. Con gli scuri socchiusi e i pesanti tendaggi tra sé e il sole. A Villa Piccolo questa penombra si arricchisce di un’intenzione esoterica. È nella penombra che pullulano le presenze di spiriti e a fantasmi. La vera protagonista qui è lei, che non appartiene a nessuno ed è fatta della luce fortissima che da fuori sbatte contro la resistenza cocciuta delle persiane e delle tende. Devo pensare alla prima scena del Gattopardo in cui le tende svolazzano mentre tutti i presenti, vestiti di nero, sono inginocchiati nella cappella del palazzo. È una scena fatta della contrapposizione sognante tra la durezza della genuflessione sul pavimento e le voluttuose movenze delle stoffe, sospinte dal vento, nella penombra dell’ambiente. Com’è noto, Visconti aveva girato il film a partire dal libro del cugino dei Piccolo, quel più famoso Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che in questa villa soggiornerà spesso e volentieri e che proprio qui scriverà parte del romanzo. Di Casa Piccolo Tomasi scriverà nei suoi Racconti: “in questa villa ritrovo non soltanto la «Sacra Famiglia» della mia infanzia, ma una traccia, affievolita, certo, ma indubitabile, della mia fanciullezza”. Qui incontra anche un ambiente in cui la cultura, tanto quella umanistica quanto quella scientifica, sono di casa e vi trova soprattutto il proprio luogo adottivo.
All’ignoranza che avvolge oggi il nome di Lucio Piccolo concorrono certo molti fattori. Sicuramente nel panorama italiano degli anni ’50 e ’60 i suoi componimenti con il loro barocchismo e le movenze cariche di simbolismi dovettero sembrare vagamente anacronistici. Nel tempo delle avanguardie era una poesia che disorientava il lettore con il suo ricorso a una musicalità rara e colta.
Ma esiste ancora un’altra storia che queste stanze paiono custodire nella loro penombra e che mi viene raccontata durante la visita. Mi riferisco alla disputa decennale tra la famiglia del poeta e la donna che gli diede un figlio, l’erede tanto atteso in famiglia. Ci sono dei contadini che vendono la figlia. I signori pagano bene. Certo sperano che abbia una vita migliore della loro e così il bambino. O forse non pensano che al denaro che riceveranno. Forse c’è un tetto da rifare, una stalla da riempire dopo recenti morie. Chissà. Sta di fatto che la ragazza ha diciassette anni e a un certo punto non smetterà più di fare la guerra ai signori che l’hanno comprata come si compra una vacca al mercato. Per figliare. Un figlio maschio a cui lasciare il nome di famiglia. Lucio ne è il padre. Come se un poeta potesse arbitrariamente sostituire il nero inchiostro con cui si scrivono le sue parole con lo sperma bianco di cui si nutre l’uovo da fecondare. Da questo rapporto, pure non più strano di molti altri, che non sappiamo se abbia riservato delle ore di piacere o sia stato una pura sofferenza, nascerà Giuseppe. Il figlio tanto atteso, colui che continuerà il nome di una stirpe sterile, l’erede insomma, arriva come da contratto. Ma il contratto prevede che venga cresciuto in villa, educato dai signori: è previsto che diventi un Piccolo pure lui, non un senza nome come lo erano i cafoni delle campagne. Ci si attende che l’educazione cancelli la tara o quanto meno la selvatichezza della discendenza materna. Eppure a un certo punto proprio la madre lo rivuole indietro. Chissà cosa deve aver pensato. Forse che un figlio ha bisogno più di amore e di calore che del denaro dei signori. Di quell’accumulo di turbe che dev’essere stata la famiglia Piccolo.
Ora è lei che vuole cancellare il lascito paterno del figlio, come immagino desidera fare una donna violentata. Fa causa, la vince. Il figlio torna a lei. Da allora blocca la cessione dei diritti, che spettano al legittimo erede. Quando il figlio muore, è ancora lei ad amministrare il suo diritto. E la fama di Lucio ne risulta irrimediabilmente compromessa. Non si stampa più un rigo che non passi attraverso la richiesta alla donna, puntualmente rifiutata. La vendetta non manca delle sue forme, pure la poesia può farne le spese.
Questa, però, è una storia che attende ancora di essere raccontata. Andrà scritta un giorno anche ascoltando la voce di quella donna, di cui non conosco nemmeno il nome. In fondo non ne ho sentito che dei frammenti, nella penombra delle stanze di questa splendida villa, attorniata dai suoi giardini che danno verso il mare e da quelli che danno verso l’interno.
Non è forse un caso che il luogo più calmo di tutta la casa mi sia parso il piccolo, ma solenne cimitero dei cani e dei gatti. Si respira quella fiducia di cui l'umanità ha sempre avuto bisogno per non sentirsi abbandonata a se stessa: è la fiducia in forme di discendenza che non passano né per la biografia, né per la biologia o per l'eredità dei nomi di famiglia. Tanto meno per il commercio della propria aspirazione a riprodursi nel futuro. Questa fiducia si nutre dei giorni e delle notti trascorsi insieme. Essa ha nel presagio di quella discendenza segreta che lega umani e animali la sua ora più felice.