Vygotskij: cinque saggi sulla mente umana
Lev Semënovič Vygotskij è stato uno psicologo russo. Più precisamente è nato a Orša nel 1896, ed è morto di tubercolosi a Mosca, l’11 di giugno del 1934. Nel mondo, oltre a una moglie di nome Roza, e a due figlie scienziate – Gita ha seguito le orme del padre, mentre Asja è stata una biologa – ha lasciato varie opere scritte sul tema del ritardo mentale, della coscienza e del linguaggio, che hanno iniziato a circolare in Europa solo dalla fine degli anni Sessanta. Tutto farebbe pensare che la lettura di questi cinque saggi sulla mente umana, che costituiscono l’ultima testimonianza scritta del suo pensiero, sia particolarmente impervia, per addetti ai lavori.
Invece non è così: l’impresa è fattibile e foriera di grandi sorprese. Forse anche grazie al buon servizio del traduttore, Luciano Mecacci, e della sua utilissima introduzione, lo studio e i ragionamenti di Vygotskij arrivano al lettore in un formato piuttosto moderno: il suo non solo è un testo che si può seguire senza troppa fatica, ma mostra un lato insolito e interessante di che cosa poteva voler dire occuparsi di mente umana, pedagogia, psicologia e ritardo mentale in Unione Sovietica negli anni dieci e venti del secolo scorso.
Dopo una laurea in giurisprudenza, Vygotskij aveva iniziato fin da subito a interessarsi con successo allo sviluppo della mente umana, al punto che un suo brillante intervento al congresso panrusso di psicologia e pedagogia gli fruttò prima un posto di lavoro nella capitale, presso l’Istituto di Psicologia e, poco dopo, il ruolo di direttore al Dipartimento per l’Istruzione dei Bambini Handicappati. Tra un rigo e l’altro di questo encomiabile curriculum, nel 1929 Lev Vygotskij, insieme al collega Aleksandr Romanovič Lurija, pensò bene di tentare un avanguardistico esperimento di pedagogia interculturale in Uzbekistan, per verificare l’impatto della scolarizzazione sulle capacità di problem solving dei soggetti coinvolti, e sulle loro funzioni psichiche superiori. Non è semplice per noi comprendere come questo tipo di studi potesse condurre uno scienziato come Vygotskij alla lista nera del regime di stato, ma dal 1936 la psicologia fu condannata dal Comitato centrale del PCUS come una disciplina dalla pericolosa allure borghese, e i libri dello psicologo non poterono più circolare.
Da qui è complicato mettere a fuoco che non era lui, che non si trattava delle sue tesi in particolare o di ciò che diceva: era il suo mestiere stesso a non essere più compatibile con l’idea di mondo propugnata dall’ideologia di Stato. E così Vygotskij, come tanti altri, iniziò a praticare la propria disciplina in sordina, a portare avanti gli studi che tanto gli stavano a cuore in una condizione rischiosa e garibaldina, senza spargere troppo la voce.
I cinque saggi contenuti nel volume di Feltrinelli La mente umana trattano alcuni temi diversi ma limitrofi tra loro e combinati liberamente insieme costituiscono uno spaccato ricco, utile a comprendere quale tipo di lavoro portasse avanti Lev Semënovič Vygotskij, e di quali strumenti si servisse per farlo.
Il primo studio si concentra sulla definizione dei sistemi psicologici e su come si formano, specie durante l’adolescenza, che è il momento più naturale perché ciò accada. Il secondo studio spiega che per passare dall’esposizione orale a quella scritta, i bambini hanno bisogno di sviluppare un «discorso interno» e di imparare a darsi dei comandi, ad autoregolarsi. Nel terzo saggio Vygotskij si concentra su quale deve essere il ruolo dell’insegnamento durante la crescita del bambino e definisce il concetto di «zona di sviluppo prossimo», per mostrare come la scuola non si debba limitare a valutare quale sia il percorso di apprendimento più adeguato al livello di sviluppo psichico attuale dell’alunno, ma piuttosto debba guardare a questo sviluppo come un sistema dinamico e instabile che è possibile sollecitare e stimolare ben oltre la potenzialità di partenza. Il quarto saggio esplora il ruolo del gioco nella formazione di ogni bambino. Nel quinto, infine, si definiscono i confini del ritardo mentale e si rimette in discussione la dimensione intellettuale del ritardo, per concentrarsi invece su quella affettiva.
Sarebbe possibile passare semplicemente in rassegna gli argomenti di Vygotskij nei cinque saggi, ma per rendere conto della lettura è forse meglio prendere in esame in maniera libera e asistematica alcune delle idee più forti e promettenti che si attraversano nel corso della trattazione, e illuminare quelle.
Una delle intuizioni innovative per le quali Vygotskij è divenuto noto ed è stato un interlocutore interessante per i suoi colleghi europei – Jean Piaget e Jerome Seymour Bruner tra gli altri – è che, per lui, lo sviluppo della psiche degli individui non è un fatto strettamente legato al corredo genetico di ciascuno, ma al contrario è influenzato dal contesto sociale e culturale, dallo spirito del tempo, dagli strumenti che popolano l’ambiente circostante e che, di fatto, costituiscono per la psiche degli appoggi preziosi sulla parete del mondo, sui quali issarsi, avanzare, evolvere.
Una forchetta, un computer, un cacciavite o una calcolatrice possono cambiare la psiche umana nella misura in cui, arricchendo di possibilità pratiche la quotidianità degli individui, condizionano anche il loro modo di pensare, ragionare e sentire. «Le emozioni si formano solo storicamente. Rappresentano combinazioni di relazioni che si sviluppano nelle condizioni della vita storica e nel processo di sviluppo si fondono»: per Vygotskij questa affermazione diviene molto chiara nell’anomalia, se si prende in considerazione, per esempio, una personalità schizofrenica, dove gli affetti si sono disancorati per errore dalla loro matrice storica, dalla memoria, per cui è possibile che il soggetto schizofrenico tratti male qualcuno al quale dovrebbe rispetto, viceversa sia dolce e mansueto con qualcun altro che meriterebbe la sua rabbia.
Per tutti emozioni e funzioni psichiche variano in relazione agli stimoli, al contesto. Vygotskij immagina che il sistema psicologico sia la somma variabile di tutte le funzioni psichiche che si relazionano tra loro in vari modi, a seconda di quello che sta capitando intorno. La crescita di ogni sistema psichico per lui attraversa sempre tre fasi: una «interpsichica» dove un individuo dà un ordine a un altro, la mamma al figlio è un grande classico; una «extrapsichica» in cui il bambino impara a farsi un «discorso interno», a decidere da sé quali sono gli ordini interiori ai quali desidera obbedire; e alla fine arriva la fase «intrapsichica», dove «due punti del cervello, che vengono stimolati dall’esterno, tendono a lavorare insieme in un sistema unificato e si trasformano in un punto intracorticale».
Stando a questa visione delle cose, il bambino è un materiale estremamente duttile che non ha uno stadio di sviluppo predefinito, ma impasta in continuazione la sua materia psichica con quella degli altri, delle forme, del suo universo. E così il buon insegnante può usare a suo vantaggio la plasticità di questa fibra ogni volta che accompagna l’alunno a fare qualcosa che da solo non farebbe, ogni volta che lo porta a superarsi. Come un cuoco, in uno spazio controllato, mostra all’apprendista quale reazione si può verificare quando la maionese impazzisce e cosa invece accade quando l’operazione è riuscita: «la differenza tra il livello di soluzione dei compiti, svolti sotto la guida e sotto l’aiuto degli adulti, e livello di soluzione dei compiti, svolti autonomamente, determina la zona di sviluppo prossimo».
E dov’è che questa faglia aperta e mobile risulta più produttiva per l’apprendimento? Per esempio, quando il bambino inizia a giocare. È molto interessante osservare come, secondo Vygotskij, il gioco può verificarsi solo nel momento in cui i bambini imparano ad aspettare, quindi dopo i tre anni di età. Più precisamente è decisivo che imparino a differire nel tempo la realizzazione dei propri desideri. Quando ha due anni, il bambino che desidera qualcosa piange se non ce l’ha subito: in queste condizioni sarebbe davvero difficile attendere che un altro decida come muovere la sua pedina, o capire che un dado non offre necessariamente la faccia del sei.
In assenza di pazienza, lo sviluppo è incerto, lento, ci sono altre priorità più elementari da seguire. Ma appena si incomincia a giocare, significa che l’individuo è pronto per lavorare su di sé in un modo nuovo. Grazie alla sua immaginazione, può produrre del senso dove il senso non c’è, magari attribuendo a un bastone il ruolo di un cavallo: e qui Vygotskij sottolinea che durante il gioco le parole, i significati, iniziano a prevalere sulle cose. È così che il nome “cavallo” dato a un bastone fa sì che il bastone, pur conservando le sue qualità materiali di bastone, venga trattato in maniera duratura come un equino. Non è un fatto di simboli, non è che il bastone assomigli al cavallo o ne sia lo schema, è che improvvisamente il bambino è disposto ad entrare nel laboratorio del senso, a sperimentare l’impatto che il linguaggio può avere sulla vita. E, con la pratica, il suo sistema psichico scopre il mondo ed esplora le sue potenzialità, mettendole gradualmente in atto.
Tra le pagine più formidabili dei cinque saggi ci sono quelle dedicate all’apprendimento della lettura e della scrittura in età scolare. Vygotskij passa in rassegna le ragioni per le quali di solito imparare a scrivere è molto più complesso che imparare a leggere o a raccontare: scompone in vari elementi l’unica ragione generale, cioè che la scrittura è un procedimento più astratto rispetto all’oralità. L’esempio più interessante che propone viene da Charlotte Bühler e riguarda il telefono. I bambini fanno più fatica a parlare con qualcuno al telefono piuttosto che in presenza, perché nella chiacchierata al telefono c’è un germe di quella astrazione che poi esplode sulla pagina scritta. Il destinatario non c’è, non si esprime in maniera compiuta, con il volto, con l’espressività, va solo immaginato seguendo la traccia del suono delle sue parole – una traccia che per un bambino è sommaria e flebile.
Un fenomeno altrettanto curioso si verifica con lo studio della grammatica, la cosiddetta «teoria del vetro»: il bambino che parla usando correttamente la grammatica è come un bambino che guarda attraverso un vetro, quando gli si chiede di vedere contemporaneamente sia il paesaggio sia il vetro va in confusione. A volte, per qualche tempo, non è più in grado di parlare bene come prima, fa pasticcio, va in cortocircuito. È tipico dello sviluppo, poi i piani si sistemano, la consapevolezza della distinzione tra linguaggio e realtà è raggiunta.
Questi sono solo alcuni dei passaggi godibili nei quali ci si può imbattere leggendo le pagine di Lev Semënovič Vygotskij. Il fascino è duplice: da un lato notare il suo sguardo preciso e originale sulle dinamiche della mente umana, dall’altro riportare di tanto in tanto la consapevolezza sul mondo che lui ha vissuto, e tentare di saldare insieme le cose. Immaginarlo all’opera. Solo così è possibile smontare l’inganno prospettico racchiuso nella modernità del suo stile, per cui di tanto in tanto sembra che il suo laboratorio sia qui e ora. Mentre invece molto tempo è passato, nonostante tante cose fuori e dentro di noi restino pressappoco invariate.