Wu Ming. L'armata dei sonnambuli

10 Giugno 2014

L'uscita de L'armata dei sonnambuli di Wu Ming, il nuovo romanzo del collettivo bolognese che ha già avuto tre ristampe in poche settimane, è l'occasione per ragionare su un'officina letteraria che è anche un cantiere di riflessione sociale e politica vasto e ramificato, fortemente radicato in rete e su Giap in particolare. Un factory che ha ormai quindici anni – da quando cioè Q conquistava l'attenzione dei lettori con un romanzo storico ambientato durate la riforma protestante che era anche un vero e proprio western teologico.

 

Da allora romanzi di gruppo e opere soliste hanno messo in scena conflitti e creato cortocircuiti in diversi ambiti, dalla Resistenza di Asce di guerra alla questione di Trieste e del confine orientale con 54, alla Rivoluzione americana e alla questione nativo-americana di Manituana; dal jazz radicale di New thing al post-umanesimo apocalittico e forestale di Guerra agli umani alla narrativa di non fiction di tema post-coloniale di Timira e Point Lenana; e intanto hanno aperto la cassetta degli attrezzi ai lettori discutendo problemi e sviscerando interessi e ossessioni culturali, con New Italian Epic o Anatra all'arancia meccanica (ma questa è una carrellata e non un elenco completo).

 

   

 

In questi anni Wu Ming ha travalicato i confini italiani, con diverse traduzione all'estero, e ha prodotto una folta comunità di lettori radicata in ambiti differenziati, una readership intergenerazionale che ha reagito chimicamente alla commistione di alto e basso: una voluta collisione di densità storica e concettuale e storytelling pop, risolta in uno stile anche eclettico ma riconoscibile, che produce oggetti narrativi di non/fiction di alta qualità.

 

Wu Ming ha cementato la fedeltà dei suoi lettori anche grazie a veri e propri tour di presentazioni, che lontani dal bagno-di-folla-per-lo-scrittore-famoso-che-firma-autografi, sono incontri nei luoghi più diversi, dall'aula universitaria alla sala cittadina di prestigio al centro sociale, che di volta in volta diventano seminario aperto, reading in stile concerto indie, happening controculturali, momenti di performance, dialogo, provocazione a seconda del pubblico.

 

Il legame ideale e fisico con i movimenti per l'egualitarismo, e il suo radicamento nelle università, tanto in Italia quando nel mondo della “diaspora” studentesca (sono molte le tesi assegnate su di loro) è forte e si riflette progressivamente nel peso che assume oggi la controcultura in rete, grazie all'intensa presenza e a un uso intelligente del blogging e del social networking (no Facebook, molto attivo Twitter).

 

Ha scritto il critico francese Yves Citton che il progetto culturale di Wu Ming è il felice esempio di una scrittura narrativa in grado di additare una svolta “mitocratica” nell'immaginario culturale della sinistra non-istituzionale europea: per la decostruzione del mito dell'autore e la dimensione collettiva intensamente praticata; per la nuova epicità ragionante, che usa la tematizzazione di eroi eccentrici, di nodi storici complessi e comunità minoritarie e trasversali; per i plot irriducibili a stereotipi mainstream e trionfali; per il legame con i movimenti e con un'eterogenea opposizione culturale; per la transmedialità in divenire attraverso la rete.

 

L'Armata dei sonnambuli è un romanzo di surrealismo storico, ambientato in un contenitore simbolico di magnitudo epocale come la Rivoluzione francese, che si situa tra gli estremi temporali della decapitazione di Luigi Capeto, ex re di Francia e l'ascesa del Direttorio, dunque tra il 1793 e il 95, concentrandosi sul Terrore e sul periodo post-termidoriano.

 

 

La 'R' a cui si allude nel titolo è quella della Rivoluzione e della Repubblica, la fase più democratico-radicale e sociale del processo rivoluzionario che vede la Montagna e i sanculotti prima affermarsi grazie all'alleanza con i giacobini e poi rovinare con Robespierre. Tale alleanza provoca la brusca tirata di freno a mano delle forze che non intendono mettere in discussione assetti proprietari e commerciali, e vede la riorganizzazione delle forze aristocratiche, che si fanno apertamente reazionarie e non solo controrivoluzionarie. I fatti sono noti: dopo aver neutralizzato le istanze girondine alla sua destra, il comitato di Salute pubblica – un organismo di emergenza che agisce mentre era stata elaborata la più avanzata costituzione democratica in termini di diritti civili, politici e sociali – colpisce anche gli Arrabbiati alla sua sinistra, per poi finire vittima di un colpo di stato che porta alla stabilizzazione moderata e al 'Terrore bianco', la vendetta della controrivoluzione.

 

La tesi che emerge è che il Terrore giacobino nasca dal tentativo di disciplinare la violenza rivoluzionaria, popolare e di strada, incanalandola in strutture disciplinari forti e accentrate in un momento di estrema delicatezza: ovvero quella della guerra europea, della rivolta in Vandea e di un vero e proprio fronte interno di ostilità. Robespierre non è un dittatore personale e sanguinario, ma l'incorruttibile lettore di Rousseau, preoccupato di riuscire a controllare una violenza altrimenti molto più distruttiva, incontrollabile e caotica. La ghigliottina stessa e il suo sinistro rituale sembra rispondere a questa logica.

 

Nel romanzo c’è anche la violenza dell’autorità e del potere. «La controrivoluzione, si legge, è una rivoluzione contraria»; qui l'idea è che la Rivoluzione francese sia il laboratorio politico del moderno, da cui nascono non solo la nozione stessa di destra e sinistra, ma anche le destre e le sinistre moderne nella loro articolazione interna; il progetto di un'armata di sonnambuli, di automi comandati a distanza e insensibili al dolore, è legato alla messa in luce di un carattere perennialista ed esoterico che emergerà con la Santa alleanza: il barone d'Yvers, il cattivo del romanzo, pone in modo molto chiaro che non si stratta di semplicemente di tornare all'Antico regime ma di fondarne uno nuovo secondo il progetto che sarà della Rivoluzione conservatrice. Questo per non dire della destra liberale ed economicista, prima girondina e poi del Direttorio, che troverà in Napoleone il suo cesare.

 

La metafora principale in cui è racchiuso il libro è quella del mesmerismo, la discussa “scienza”, diffusa al tempo, fondata da Franz Anton Mesmer; a suggerire che l'interpretazione dell'Illuminismo, e della filosofia politica in genere, secondo cui l'agire politico si basi su scelte razionali compiute da agenti liberi, sia un'ingenua illusione. Corrente, magnetismo, fluido, catena elettrica sono metafore di quella che ancora Citton chiama la «diffusione epidemiocratica secondo cui le ideologie si espandono nel 'pubblico'», che trova in quegli anni la sua rapida esplosione e che individua «l'emergenza progressiva di un immaginario che rappresenta le società moderne come un universo mentale collettivo».

 

 

L'altra grande metafora del racconto è il teatro. Si è scritto molto su come durante la Rivoluzione si aprì lo spazio pubblico moderno che abbatte la differenza tra spettatore e attore; la politica si teatralizza e si spettacolarizza nei discorsi dei grandi oratori della Convenzione; e il teatro si fa pubblico e politico come durante le Feste dell'Unità (ehm...), della Ragione, della Federazione.

 

Un teatro che si rovescia nelle strade attraverso la politica anche con la nascita delle street-culture, come quella dei sanculotti o come quella meno nota dei “muschiatini”, altrimenti noti come “moscardini” o “inc(r)edibili”: controrivoluzionari di ogni provenienza, aristocratici e borghesi agiati, ma anche piccolo-borghesi, che imitano lo stile aristocratico; che odiano la Rivoluzione al punto di parlare senza la R (pa'ola mia, mio ca'o) e che olezzano di muschio, rimettono i 'culotti', indossano tricorni sovradimensionati, si rasano il collo pronti a servirlo alla ghigliottina e portano coccarde vistose ironicamente e ipocritamente rivoluzionarie per irriderle.

 

Saranno loro, tra la cosiddetta “gioventù dorata”, a fare da braccio armato della controrivoluzione antigiacobina, manovrato da politici spregiudicati (“ex-terroristi” pentiti) come Fréron, Tallien, Merlin de Thionville. Sono truppe urbane che raccolgono giovani, disertori e refrattari, inquadrati da veterani della politica, che operano per vendetta personale e per spirito di rivalsa sociale. La loro violenza colpisce i club rivoluzionari, chiusi o distrutti, e i sanculotti, i militanti di sezione, che disarmati e isolati cadono vittima delle squadre punitive.

 

Il terrore è anche inteso nel senso del genere Horror. Una parte del romanzo, volutamente nera, si svolge in Alvernia, terra remota, poverissima, isolata e densa di umori pre-politici e naturalmente contro-rivoluzionari; lì il medico mesmerista d'Amblanc è inviato per indagare su casi strani, licantropia, madonne che piangono, pastorelle che ricevono segreti mistici e lì incontra comunità che ricordano quelle dei racconti di Lovecraft. «A volte – dice – le leggende sono molto potenti e possono influenzare una mente semplice e spingerla a conformarsi alle aspettative della vox populi»: ci si legge De Martino o Ginzburg, ma più in genere una riflessione sul fatto che il problema non sia tanto una credenza di ordine extraumano anche assurda, quando l'effetto che questa può avere su chi la ritiene vera e agisce di conseguenza.

 

Il viaggio di d'Amblanc è poi una discesa agli inferi anche personale, un viaggio tra “i selvaggi di qui”, dati i suoi trascorsi drammatici durante la guerra americana contro gli indiani; ma è un'esperienza di catabasi che sarà risolutiva per lui e le sue sofferenze.

 

Su tutto emerge come la dimensione privata sia la carne viva in cui è radicata la dimensione politica. Come nel caso delle figure femminili: oltre a Marie, in cerca di riscatto, bella e in lotta con la sua maternità, la militanza e il lavoro, compaiono le donne dei quartieri popolari e le Amazzoni, in particolare Claire Lecombe: borghesi vestite da uomini che avanzano istanze femministe tali da scavalcare a sinistra il maschilismo degli arrabbiati e mettere in crisi i ruoli tradizionali.

 

Ci sono i ragazzi, tre bambini cresciuti troppo in fretta: Bastien, Jean e il Delfino, che come i fanciulli delle narrazioni mitologiche sono il simbolo del futuro; il rapporto dei protagonisti con l'infanzia, ed esempio D'Amblanc, marca la differenza delle qualità umane e quindi politiche, degli adulti.

E poi compare la “voce della strada”, la folla, la plebe, il popolo, che, accalcandosi e sciamando in una vita frenetica, reclama la sua comparsa sulla scena pubblica, perennemente in cerca di riscatto, rappresentanza e beniamini, ma anche di vendetta, parafulmini e bersagli.

 

 

Wu Ming è, come sempre, attento ai controtempi storici, ai rimbalzi tra le epoche della ricezione della storia della Rivoluzione e ancora di più del suo mito e dei diversi miti rivoluzionari (e controrivoluzionari). Nel recente Utile per iscopo? di Wu Ming 2 si legge che il romanzo storico non cerca né il vero né l'utile ma punta a «falsificare la narrazione dominante, mostrarne le stratificazioni, sostituire allo stereotipo il conflitto» e l'obiettivo è pienamente centrato, grazie a un uso dell'anacronismo consapevole, volutamente spinto per interagire con altri tempi alla ricerca della dialettica con il lettore.

 

Se il lettore è sempre istanza attiva nei confronti del testo, quest'affermazione sembra essere ancora più centrata in questo caso rispetto al modo di intendere la vita delle storie raccontate. L'atto quinto, Come va a finire, è qualcosa di più dei consueti “titoli di coda” nei quali si rivelano fonti e modalità di lavoro dei singoli pezzi: il romanzo è disseminato di “botole” o “varchi temporali” che intendono spingere i lettori a rileggere, indagare e seguire i percorsi tracciati, magari per aprirne di nuovi e inattesi.

 

Membri di una comunità di lettori affamati di racconti che parlino ancora di un 'noi' (anche perché orfani di altre comunità?) ci ritroviamo addosso il desiderio di continuare il lavoro sul mythos interpretandolo e portandone alla luce virtualità inespresse, fino a far coincidere Wu Ming con We Ming.

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