Yto Barrada. Delle cose solitarie e non dimenticate

14 Ottobre 2012

Due terzi abbondanti dei paesi del mondo non trovano posto sui libri di storia, e il Marocco è fra questi. Tale spiazzante constatazione guida il lavoro di Yto Barrada, fotografa franco-marocchina, la cui prima personale italiana è ospitata dal Macro di Roma, grazie alla nuova partnership con Deutsche Bank, che – ci auguriamo – porterà una salutare ventata di globalizzazione anche nelle stanze dell’arte.

 

Barrada, che ha studiato storia e scienza politiche alla Sorbona, osserva il proprio paese da una strana lontananza: i soggetti dei suoi scatti colmano il campo visivo, assumendo non di rado aspetti monumentali, anche quando si tratta di edifici e giardini affetti da precoce obsolescenza, perché abbandonati all’incuria; di frammenti di industrializzazione in disuso, oppure di cantieri per infrastrutture interrotte ancor prima di iniziare e mai completate. Le immagini di Barrada restituiscono un mondo che si sbriciola, attraversato da sentieri che si interrompono improvvisamente: sembra di muoversi sulle tracce lasciate da individui incapaci di portare a compimento spinte volitive tanto quanto progetti condivisi. Il territorio e le sue trasformazioni diventano metafora della colonizzazione e della sua crisi.

 

Yto Barrada, Tunnel - Disused Survey Site for a Morroco Spain Connection, 2002, C-Print, 100 x 100 cm, Ed. of 5. Deutsche Bank Collection

 

Tuttavia, se la distanza fisica è ridotta, sia quando i soggetti saturano il campo visivo, sia quando si stagliano sull’orizzonte aperto, tutt’altra è la distanza emotiva. Barrada, infatti, piuttosto che puntare l’obiettivo della macchina fotografica sui volti e sui corpi, evita empatia e immedesimazione scegliendo di fotografare porzioni più o meno estese di paesaggio, in piena luce e con poche ombre, accrescendo l’effetto reportage, una sorta di rumore di fondo, un basso continuo con cui le sue fotografie dialogano a tu per tu.

 

Le grandi stampe a colori di questa mostra hanno sullo sguardo gli effetti di un bizzoso campo magnetico: a volte attirato verso un elemento centrale, a volte spinto ai margini della scena o addirittura fuori di essa; in alcuni casi risucchiato in profondità, altrove tenuto in primo piano, a caccia di quel particolare da cui l’insieme trae origine e senso, spiazzato da titoli sovente anodini e impersonali.

 

Yto Barrada, Mur des paresseux - Lazy wall , 2010, C-print , 125 x 125 cm / Ed. of 5. Courtesy of the Artist and Galerie Polaris

 

È una sensazione molto forte soprattutto di fronte alla rigorosa selezione dei curatori, Friedhelm Hütte e Marie Muraccioli, che hanno preferito estrapolare singoli scatti da diverse serie fotografiche, con esiti ridondanti che sfiorano, volutamente, la ripetitività. Una scelta consapevole e ricercata, quindi, dichiarata fin dal titolo della mostra, Riffs, termine che indica la frase musicale che si ripetete di frequente in un brano. Ma i riferimenti sono molteplici: il Rif è la regione del Marocco protagonista di una storica rivolta anticoloniale, ed è anche il quartiere dal vecchio cinema in cui ha sede la Cinémathèque de Tanger. Quest’ultimo è un progetto sorprendente che artisti e tecnici marocchini hanno impiantato in città, restaurando la sala di proiezione abbandonata e restituendole una rinnovata funzione sociale e culturale. La Cinémathèque, in Marocco, è uno dei rari luoghi di diffusione del cinema arabo, classico e d’autore, raccoglie documentari, film e video d’arte, pellicole amatoriali. Ispirata alla concezione del cinema come memoria storica, la Cinémathèque è presente in mostra con una selezione di film e video: una sorta di coro che accompagna e declina gli stessi temi delle fotografie di Yto.

 

La mostra personale avrebbe assunto aspetto differente se, per esempio, si fossero messe a confronto le varie serie fotografiche dell’artista,documentando anche l’evoluzione del lavoro di Barrada, punteggiato da occasionali strizzate d’occhio a certo esotismo, ma coerentemente concentrato su lunghi progetti dedicati a cogliere gli aspetti peculiari di un paese in transizione, come il Marocco, appunto, stritolato fra condizioni rurali isolate e ai limiti della sopravvivenza, e turismo internazionale; impoverimento produttivo e integrazione nell’area di libero scambio mediterranea; emigrazione e ricerca di modernità.

 

Yto Barrada, Radeau dans figuier étrangleur (Ficus Macrophylla), 2010 Stampa cromo genica • C-print 150 x 150 cm. Deutsche Bank Collection

 

Uno per tutti, si pensi al Projet du Detroit, dedicato al breve braccio di mare che divide due mondi (1998-2004). Nella mostra romana, invece, solo pochi scatti lasciano intuire tale retroterra di ricerca sistematica: fra questi Rue de la liberté (2011) dedicata a uno dei rari luoghi di incontri sessuali clandestini a Tangeri, appartenente alla serie dei ritratti di persone di spalle, privi di orizzonte e schiacciati contro barriere e muri. Oppure una veduta di Iris Tingitana, dall’omonimo progetto sulla distruzione dell’habitat naturale della specie floreale endogena e che attraverso il serrato confronto fra gli iris spontanei sbocciati in mezzo allo sterro per il porto di Tangeri e i sans papier che dormono sul prato, colti sul limitare fra esistenza e scomparsa (52° Esposizione Internazionale d’arte – Biennale di Venezia ), Barrada sottolinea il destino delle singolarità di fronte alle grandi forze che muovono la storia.

 

Uno dei temi di fondo della fotografia – fin dalla sua nascita – è il passare del tempo. Barrada, si è visto, lo declina per lo più osservando angoli del suo paese. Ma in Arbre généalogique (2005) la questione è tematizzata apertamente. La foto mostra un’ampia porzione di carta da parati tempestata dai segni lasciati da cornici assenti. L’immagine induce a fantasticare sulle storie che si distendono oltre i limiti dell’inquadratura, che legano questa al tessuto pulsante di esistenze e passioni, sobriamente lasciate fuori campo: un trasloco, qualcuno che vuol far perdere le proprie tracce, oppure solo il progetto di ristrutturare una stanza?

 

Yto Barrada, Arbre généalogique, 2005 Stampa cromogenica • C-print 150 x 150 cm. Deutsche Bank Collection

 

Arbre généalogique, tuttavia, funziona anche da metonimia del prodotto fotografico stricto sensu, frutto dell’azione della luce sulla pellicola, un’azione simile a quella prodotta dalla persistenza degli oggetti sulla parete e rievocata dalle macchie chiare. La fotografia, tradizionalmente assimilata all’impronta di “fatti” e “oggetti” sulla arcaica pellicola, rappresenta – secondo le riflessioni di Roland Barthes – lo strenuo baluardo alla lontananza e alla perdita, soprattutto nei rapporti interpersonali. Al contempo la fotografia, fin dalla sua origine, è imprescindibile strumento di costruzione identitaria, individuale o collettiva, come non si stanca di ripetere Christian Boltanski.

 

E Barrada se ne ricorda, in particolare, quando impiega filmini amatoriali, come nell’operaHand-Me Downs, espressione anglosassone che indica la pratica di adattare ai più piccoli gli abiti smessi dai fratelli maggiori. La voce narrante del video racconta alcuni episodi della propria esistenza, del tipo degli aneddoti che gli adulti raccontano ai bambini e che sono parte di quel collante noto come tradizione familiare, blasonata o raccogliticcia che sia. In realtà sono storielle inventate, e un po’ banali, sulla crudeltà dei bambini, la rivalità fra sorelle, le gelosie e il potere dei genitori. Nel frattempo, sullo schermo scorrono spezzoni di filmini amatoriali e documentari di un Marocco d’antan, con continui riferimenti alla vita della borghesia locale in relazione a quella occidentale, che l’autrice ha montato liberamente rispetto al sonoro. Nel lavoro di Barrada, d’altronde, se una componente autobiografica c’è, essa va cercata nella consapevolezza di appartenere, per estrazione e vicende familiari, alla storia del suo paese, come mostra, per esempio, il ritratto di Oujhainah, Café centrale 1, da ricondurre al rapimento del nonno dell’artista. Una storia di cui, però, ben poco è scritto sui libri, si diceva, e dimora ancora nei racconti e nei ricordi dei testimoni, forse per certi versi ancora da sottrarre alla mitologia. Il mito, quindi, sinonimo di leggenda, narrazione o finzione, non è tanto l’alternativa alla storiografia, ma è un virus che la abita, impossibile da debellare.

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