La lingua del Paradiso / Adamo ed Eco

20 Maggio 2016

Chi vuole accostarsi alla lingua senza pregiudizi e con il desiderio di capirci qualcosa trova una fiera resistenza nel senso comune dei dotti. La lingua vi ha infatti un gran rilievo ed è tema di molte idee ricevute. Non solo tra profani che son dotti perché praticano dottamente altre contrade dell'umano, ma anche tra dotti specifici.

Del resto, quando è questione della lingua, una distinzione tra profani e specialisti è già essa stessa un'idea ricevuta. In proposito vale un criterio aureo. Sulla lingua, provare a capire ciò che fa chi la parla è in linea di massima più ragionevole che provare a capire le speculazioni che la riguardano (questa inclusa). Sempre che si sia sufficientemente magnanimi, per dirla col Dante del Convivio, da intendere ciò che fa chi la parla. La faccenda è spinosa, però, e non è nemmeno quella di cui qui si vuole dire. La si toccherà, caso mai, un'altra volta. 

 

Tra le idee ricevute sulla lingua ce n'è una, generalissima e di gran peso, le cui radici stanno addirittura nella Bibbia: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche” (Genesi 2,19-20).  

Non è proprio il principio, ma il principio c'è stato da poco. Ciò che vi si narra ha avuto e ha rilievo per discussioni di non poco momento.

 

Qui ci si tiene stretti alla faccetta linguistica. Per il resto, manca a chi scrive non solo la competenza, ma anche l'interesse. La faccetta linguistica ha peraltro prodotto miriadi di riflessi, nei non pochi secoli in cui quelle righe sono parse pertinenti. Dire di avere tutti presenti tali riflessi (o anche solo in buona parte) sarebbe millanteria. Alla buona, qui se ne intercetta uno e piuttosto recente. Non proprio uno qualsiasi, però. Il riflesso che una volta si produsse nel compianto Umberto Eco. Se, come si è detto, a proposito di lingua è questione di una dottrina, l'evocazione di Eco è adattissima. Egli fu un principe della cultura italiana e non solo, un nocchiero del vascello dei dotti tra le tempeste del rapido declino della modernità, un polo per la bussola delle loro opinioni. E fu cultore insigne di una disciplina che non pochi tengono (e lui medesimo tenne) per prossima alla lingua, se non per una linguistica a pieno titolo. 

 

A Umberto Eco capitò appunto una volta di evocare il passo biblico nel modo che segue: “L'interpretazione di questo brano è estremamente delicata. Infatti qui certamente si propone il tema, comune ad altre religioni e mitologie, del Nomoteta, e cioè del primo creatore del linguaggio, ma non è chiaro su quali basi Adamo abbia nominato gli animali, né in ogni caso la versione della Vulgata, quella su cui si è formata la cultura europea, fa nulla per risolvere l'ambiguità, perché anzi essa prosegue dicendo che Adamo ha chiamato i vari animali nominibus suis, e a tradurre «coi loro nomi» non si risolve nulla: significa che Adamo li ha nominati coi nomi che loro spettavano per qualche diritto extralinguistico o coi nomi che ora noi (in base alla convenzione adamica) attribuiamo loro? Ogni nome dato da Adamo è il nome che doveva avere l'animale a causa della sua natura o quello che il Nomoteta ha deciso arbitrariamente di assegnargli, ad placitum, instaurando così una convenzione?” (La ricerca della lingua perfetta, Laterza, Bari 1993, p. 14).

 

Il rapporto tra i nomi e le cose: ecco enunciata e riproposta la faccenda che si considera di fondamentale portata e di massima importanza quando è questione di lingua. In tale prospettiva, la lingua vi è posta anzitutto in funzione della realtà che sta lì, fuori, e che la lingua e la sua esistenza medesima presuppongono. Anche prendendola alla lontana, tenere per cruciale, in un modo o nell'altro, il rapporto tra realtà e lingua è un tratto caratteristico del senso comune sulla lingua: realtà, a fare da base, e lingua, a fare da suo accessorio denominativo. Se poi si è anche un po' (o molto) filosofi, ci si può anche interrogare sulla natura di tale rapporto: è per natura o per convenzione?

 

E la realtà della lingua? La lingua, non ha anch'essa la sua realtà? Certo, non è un gatto, né un ippopotamo, non è un pino né una roccia, ma non esiste? Poniamo che l'Adamo che meglio ci aggrada a un certo punto parli, dica qualcosa, pronunci quei benedetti nomi. Poniamo lo facciano (come lo fanno) le Eve e gli Adami che tutte e tutti siamo in fasi cruciali della vita, quando formuliamo un pensiero e (dandosi il caso) proferiamo una parola. La lingua è processo creativo banale, banalissimo e manifesta anzitutto se stessa come realtà. E sorge il problema di cosa farne, di tale realtà linguistica. Basterà solo richiamare in servizio Adamo chiedendogli di dare nomi anche alle cose di cui la lingua è composta? No. Perché c'è un problema ulteriore, dietro la faccenda delle cose, fuori della lingua o al suo interno, e del dar loro nome. Un problema che passa di norma inosservato ma non pare di poco momento.

D'accordo. Il Creatore ha già creato già tutte belle e fatte le sue creature e, con tali creature schierate davanti a sé, Adamo si industria di dare loro nome: lo rileva nella loro realtà o, data sempre la loro realtà, stabilisce lui come chiamarle. Sia come sia. Ma come diavolo farà mai, questo Adamo, a prodursi in tale exploit espressivo se non ha una capacità linguistica?

 

Per dare i nomi alle cose, per riconoscere quelli che esse hanno per natura (caso mai fosse così), è indispensabile forse che le cose esistano (in effetti, non è detto: il numero di nomi per cose inesistenti è, come sa chiunque, altissimo). C'è però sicuramente qualcosa di ancora più indispensabile. È che chi lo fa abbia appunto la lingua come sua facoltà. 

Non c'è fatto in altre parole che non comporti la capacità di fare. Non c'è (de)nominazione che non comporti la capacità di (de)nominare. E ciò vale appunto non solo per il buon, vecchio Adamo (di cui, a conti fatti, può pure interessarci pochino: saranno stati fatti suoi e del suo Creatore, come se l'è cavata). Vale anche, si direbbe soprattutto, per tutti quei piccoli Adami e quelle piccole Eve che, dai tempi di Adamo, hanno popolato e popolano questo mondo pieno di cose. Quelle o quelli che siamo tutte e tutti quando ci troviamo nella culla. Eve tutte portatrici e Adami tutti portatori (interiori) di questa realtà scarsamente riconosciuta come tale (se non ignorata). Meglio, di questa fabbrica di realtà che è la lingua, che produce se stessa. Bisogna che lo si ammetta, prima di darsi a considerare ogni altro suo effetto nel mondo ed eventuale rapporto con esso. 

 

E, se proprio ancora ci si tiene, alla faccenda del rapporto tra cose e nomi, e si tiene al fatto che, tutti e tutte, gli Adami e le Eve, si ha il problema di darli e dirli, i nomi delle cose, c'è da osservare che, trovandoli opportunamente già assegnati, difficile non li si tenga per naturali.

 Perché? Verrebbe fatto di chiedersi. Non lo sono, naturali? A quale parlante passa per il capo che non lo siano? Nemmeno ai filosofi più convenzionalisti, c'è da pensare, quando, deposta la loro filosofia, aprono bocca da parlanti e si rivolgono a chi, poniamo, prepara loro la cena. Che è poi, con altre situazioni comparabili della vita di tutti i giorni, quella in cui, sulla lingua, dicono le cose più sensate. Inconsapevolmente e senza volontà di dirle. 

 

Una faccenda del tutto diversa e che nulla ha da spartire con le cose è che i nomi sono rapporti. Lo sono come esiti dell'opera creatrice della lingua, che produce appunto accoppiamenti arbitrari di significati e significanti, e non come elementi di una nomenclatura delle cose del mondo. 

Fuori della bella storia di Adamo (ma chi l'ha vissuta mai, una situazione del genere? Da millenni, sul serio, di che stiamo parlando?), la faccenda dei nomi non sta nel sapere se sono per natura o per convenzione. Sarà appunto questione millenaria. Sarà cruciale, come Eco ha ripetuto. Ha tutta l'aria però d'essere una di quelle cui si applica la definizione che Galileo mise in bocca a Salviati: “una disputa non molto più rilevante che quella della lana caprina”. Anche perché la sua soluzione pare tanto ovvia nella teoria, quanto impegnativa nella ricerca sperimentale: come tutto il resto della lingua, i nomi sono naturalmente culturali o, se si preferisce, culturalmente naturali. È l'essere umano, bellezza! Come vuoi che siano i nomi che gli affiorano sulle labbra.

 

 

L'apparente bisticcio spaventa? Spaventa una lingua che non sia ancorata alla solidità delle cose del mondo? Il coraggio, se non lo si ha, non ce lo si può dare, è vero. Ma, pur aggrappandosi alle cose, si eviti, almeno, di farsi pietrificare dallo sguardo della Gorgone. Da dovunque vengano (ammesso vengano da qualche parte), i nomi, ma non solo i nomi, anche i verbi, gli aggettivi e tutto il resto ci sono e insieme coi nomi, coi verbi, con gli aggettivi e con il resto, c'è, esiste, come realtà, la capacità di farli esistere e di trattarli, di metterli insieme, di farci cose che chiamiamo discorsi (e quando sono interiori, pensieri). Per capire i quali, muovere dai nomi e dalla questione se siano per natura o per convenzione rischia proprio di non servire a nulla. Anzi d'essere una falsa partenza. Una prospettiva sbagliata. La premessa a un dotto, dottissimo fallimento.

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