Adelita Husni-Bey alla galleria Gasworks
Utopia, educazione, regole, micro-esperimenti sociali sono i temi più frequentati dalla giovane artista italo-libica Adelita Husni-Bey. Il suo lavoro è costituito da collaborazioni che coinvolgono diverse realtà sociali e artistiche, o da laboratori educativi.
Nel video proiettato in formato gigante nella sala d’ingresso della mostra Playing Truant, la prima personale di Husni-Bey a Londra (alla galleria Gasworks), un gruppo di bambini è intento a giocare a “la società utopica”. Corrono su e giù dal palco dell’auditorium della loro scuola, protestano contro un fantomatico re, discutono del bisogno o meno di istituzioni, si riuniscono in cerchio per decidere dell’organizzazione della loro comunità di bambini senza adulti, all’interno della quale, in assenza regole pre-stabilite, inventano nuove norme, più o meno speculari a quelle della società dei grandi. Postcard from a Desert Island somiglia a un esperimento antropologico. Filmato dall’artista in una scuola parigina auto-gestita nel 2010-2011, il video tiene insieme molti degli elementi a lei cari. Durante le tre settimane di workshop, i giovani studenti hanno collaborato alla costruzione di una loro immaginaria isola perduta dove le regole più convenzionali erano state azzerate per lasciare spazio ad altre potenziali forme di organizzazione.
L’artista qui sembra giocare con tanti elementi, tra cui un’idea centrale della dimensione politica, quella di rappresentazione/rappresentanza. Da un lato, le intense discussioni sul concetto di punizione, frontiera, immigrazione e auto-governo sono affrontate con estrema serietà dai giovani protagonisti, che gestiscono l’isola attraverso una democrazia diretta. Li vediamo alle prese con azioni e decisioni che non solo richiedono la partecipazione di tutti, ma implicano una dimensione tutta reale del fare. Dall’altro, quello proposto rimane pur sempre un gioco, che, per definizione, mescola in un tutto indistinto esperienza diretta, non mediata, e livello rappresentativo. È difficile osservare il video e dimenticarsi di un forte senso del mimare. I bambini della scuola auto-gestita parigina non possono andare al di là dal riprodurre la realtà del pensare e agire politico. Insomma, quello che un adulto vede guardando il documentario è la rappresentazione in video di una sorta di rappresentazione di democrazia diretta. Ma probabilmente le cose cambiano se lo spettatore è un bambino.
In Playing Truant, il video è esposto accanto a due opere più recenti. Policy. Benchmark. Criteria (2012) è una vera e propria linea del tempo che ripercorre i principali emendamenti in materia di educazione promossi dai vari governi britannici dagli anni ‘70 in avanti fino al nuovo modello tutto neo-liberale di big society. The Living House (2012), invece, cerca di dare corpo e voce alla storia della Ferrer Colone and Modern School, fondata nel 1911 in New Jersey. La scuola si ispirava a un modello di società anarchica e le voci che ne raccontano le vicende si accordano, col loro tono visionario, all’elemento visivo dell’opera: una sequenza di foto-diapositive proiettate sul lato basso della parete come se emergessero da uno strappo, una sorta di crepa sul muro. The Living House è il risultato della collaborazione dell’artista con l’omonimo gruppo teatrale, durante il corso di una serie di laboratori.
L’accostamento introduce una riflessione profonda e in un certo senso provocatoria, soprattutto se vista nel contesto di una galleria d’arte. La trama costruita dalle opere della giovane artista italiana propone tanti livelli di lettura. Il più interessante è quello che sembra da subito complicare la riflessione sull’idea di norma.
Il parallelo tra free school, nella sua accezione radicale anarchica, e quello recentemente avanzato dal governo conservatore/liberal-democratico in Gran Bretagna ricorda le strane analogie tra due modalità che, se sembrano proporre la stessa cosa in pratica, in realtà viaggiano in due direzioni diametralmente opposte.
Il risparmio economico, implicito nel modello conservatore di free school, è legato a filo doppio ad un dispositivo di auto-regolamentazione e auto-normalizzazione dei comportamenti da parte della popolazione in un contesto tutto bio-politico. Se i cittadini si auto-educano e auto-controllano, naturalmente sotto l’impulso di principi e linee guide di convivenza che neutralizzano conflitti e differenze, lo Stato può anche ritirarsi (disinvestire), non solo dal sistema scolastico, ma da quello sociale in generale.
Passeggiando tra le opere di Husni-Bey, nello spazio dell’esposizione, ma anche idealmente, seguendo la cronologia della sua recente produzione, assistiamo ad un percorso pieno di rimandi. A partire dall’auto-governo dell’isola perduta dei giovani studenti parigini, si passa attraverso le strategie di auto-formazione, al di fuori dei curricula scolastici convenzionali, di una società anarchica. Si giunge infine al discorso neo-liberale che parla di big society e partecipazione della popolazione, ma alla fine include solo l’economicamente vantaggioso.
In tutto questo, il lavoro di Husni-Bey colpisce proprio per lo sforzo riflessivo e auto-riflessivo. La sua pratica artistica è materialmente costruita da progetti basati su collaborazioni e la sua opera sembra svilupparsi ossessivamente attorno a domande essenziali del tipo: come si fa a fare partecipazione? Come è possibile collaborare?
Un’ultima riflessione. La conversazione su auto-governo e free school diventa particolarmente interessante se presentata in contesto artistico e soprattutto in quello di una galleria. Negli ultimi anni, la programmazione di istituti pubblici e privati si è estesa a progetti educativi, il cui confine con programmi di out-reach, per promuovere la partecipazione e il coinvolgimento del pubblico, è sottile e nebuloso. In molti casi l’obiettivo è fornire accesso ad una conoscenza non solo “visivo/intellettuale”, ma più legata all’esperienza diretta dell’opera d’arte. Vari progetti finiscono con l’offrire percorsi educativi normalmente esclusi dai curricula scolastici e spazi per discutere teorie e pratiche meno convenzionali (per non dire radicali). Coprire questo gap, così come promuovere inclusione e partecipazione, è chiaramente essenziale, ma diventa sempre più importante farlo in forma critica e auto-riflessiva.