Altri criteri

18 Marzo 2011

È il 17 giugno 2001. In un campo appena fuori l’abitato di Orgreave, un paese del South Yorkshire in Inghilterra, si sono radunate centinaia di persone. Da un lato, poliziotti in uniforme antisommossa con caschi, scudi, manganelli, a piedi o a cavallo. Di fronte, un folto gruppo di uomini vestiti in abiti da lavoro, jeans, scarpe pesanti, giacconi. La voce roca di un altoparlante dà un segnale, e tutto ha inizio. Cori, slogan, lanci di sassi, mischie, scontri. La polizia carica e insegue i dimostranti, le azioni si susseguono veloci e violente. Si levano dense volute di fumo mentre il puzzo acre di copertoni bruciati invade la zona. In una strada vicina delle automobili vengono rovesciate e date alle fiamme. Poliziotti a cavallo passano al galoppo bersagliati da pietre; dei manifestanti sono trascinati via, altri, feriti, giacciono a terra. D’improvviso, a un altro segnale dell’altoparlante, tutto finisce. Gli uomini smettono di correre, si rialzano aiutandosi l’un l’altro, si scambiano sorrisi e pacche sulle spalle.

 

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In quello stesso luogo, e nello stesso giorno, quattromila minatori in sciopero tentarono nel 1984 di fermare una spedizione di carbone a una cokeria, affrontati da tremila poliziotti posti a difesa degli impianti. La vera e propria battaglia che ne seguì, uno degli episodi più drammatici della lunga e infruttuosa lotta delle Trade Unions contro il governo Thatcher, segna un momento decisivo della recente storia della Gran Bretagna, con la sconfitta dei sindacati e l’avvio trionfante della stagione neoliberista. La sua “ripetizione”, o re-enactement per usare il più calzante termine anglosassone, è stata realizzata dall’artista Jeremy Deller nella forma di una performance collettiva, The English Civil War Part II (The Battle of Orgreave), una delle opere più originali e interessanti del panorama artistico degli ultimi anni, frutto di un’inchiesta sul campo svolta dall’artista presso residenti, ex minatori, storici e poliziotti del luogo, “interpretata” da ottocento figuranti, molti dei quali presenti nel 1984. Si tratta di una ricostruzione, si potrebbe dire in scala 1:1, degli eventi originali, realizzata di fronte a un pubblico composto dagli abitanti del villaggio e dalle telecamere di Channel Four, sponsor dell’evento; la modalità è quella dei re-enactment storici, eventi collettivi realizzati perlopiù da gruppi di amatori che reinterpretano scene storiche in costume, battaglie, tornei medioevali, ecc. Prodotta da una associazione indipendente britannica, Artangel, famosa poer i suoi progetti di arte pubblica, The Battle of Orgreave è un’opera in cui si mescolano in ugual grado critica sociale, consapevolezza politica e uso spregiudicato dei media, interrogando in modo non ortodosso e tipicamente postmodernista la relazione tra due vecchie compagne della modernità, ovvero l’arte di “avanguardia” e la sfera politica. Individuando il proprio ambito di azione nel campo delle interazioni sociali più che nella costruzione di uno spazio simbolico indipendente, di un "linguaggio", di un'estetica nuova, Deller si pone decisamente fuori dal tradizionale engagement moderno sviluppando una prassi che accoglie consapevolmente al proprio interno le aporie della creazione artistica nell'epoca spettacolare.

 

Cambio di scena. Periferia di Lima, Perù, 11 aprile 2002: nella zona chiamata Ventanilla, una bidonville in cui più di settantamila abitanti – per lo più contadini scacciati dalle loro zone di origine dalla sanguinosa guerra civile contro Sendero Luminoso – vivono senza elettricità o acqua, cinquecento volontari, equipaggiati di pale e disposti in fila indiana ai piedi di una gigantesca duna di sabbia, scavano e trasportano il materiale a breve distanza, ottenendo alla fine un minuscolo ma significativo spostamento. When Faith Moves Mountains è il titolo di questa azione dell’artista belga Francis Alÿs, un beau geste «futile ed eroico, assurdo e necessario» che punta a «tradurre le tensioni sociali in una narrazione che a sua volta trasforma il paesaggio immaginario del luogo», come scrive l’artista. Fornendo una paradossale, tangibile verifica a un detto metaforico (“la fede smuove le montagne”, appunto), l’opera – o meglio il suo racconto, la sua memoria condivisa – ne suggerisce anche una lettura rovesciata, imprevista, potenzialmente sovversiva oltre che implicitamente umoristica. Riunendo ambiti concettuali e semantici di solito separati (il lavoro, lo sfruttamento, la fede popolare, la dimensione collettiva, le diverse “appartenenze” sociali ecc.), Alÿs non fornisce una chiave di lettura né individua responsabilità, ma fornisce una testimonianza “eretica” che lascia aperto il campo delle possibili interpretazioni.

 

Con le loro analogie e differenze, le opere di Deller e Alÿs riaffermano l’idea tipicamente moderna che l’operazione artistica, in quanto confronto con i limiti di ciò che può essere rappresentato, sia un gesto di per sé politico, destinato a segnalare un punto di rottura nella narrazione dominante. Il recupero della storia orale, l’uso di tecniche etnografiche, grazie le quali catalizzare e rivelare le strutture psico-sociali, fanno parte in effetti del bagaglio di molti artisti che hanno lavorato negli ultimi venti anni proprio alla ricerca di strade alternative di relazione tra arte e sfera pubblica. Ma nel far ciò esse scoprono e fanno misurare al pubblico “terzo” – il pubblico dell’arte o semplicemente gli utenti di YouTube – anche la propria natura ambivalente, la dipendenza da quello stesso sistema su cui esercitano la propria azione critica: il loro proporsi cioè come simulazioni già "mediate”, e non come controstorie, destinate, come accadeva nel teatro didattico brechtiano, a mobilitare le coscienze e incitare alla ribellione. Ciò che appare tanto nel re-enactement che nella performance collettiva è in qualche modo una storia senza i “cattivi”, informate dalla consapevolezza tutta postmoderna che ogni cosa sia già preventivamente catturata all’interno di una narrazione, di una apertura non originaria del linguaggio, di una logica del simulacro in cui si manifesta tutta la forza (ri)generativa dell’immaginario tardocapitalista.

 

In effetti, ciò che è venuto meno in queste opere è proprio la pretesa dell’arte di poter attingere a una realtà più autentica di quella proposta dalla fantasmagoria dei media: le opposizioni attraverso le quali la modernità aveva pensato il reale (vero/falso, originale/copia, unico/seriale, nuovo/vecchio ecc.), appaiono ora inservibili, e le immagini non possono che evidenziare la propria infinita, costitutiva ambiguità. Ma se la trasgressione avanguardista diviene un ingrediente gradito all’industria culturale, che fine fa allora l’aspirazione dell’arte a farsi momento critico della sua epoca? Certo è che nonostante, o forse proprio a causa dell’espansione senza precedenti della loro visibilità, le esperienze artistiche contemporanee si trovano direttamente esposte al rischio insieme dell’irrilevanza e della rapida obsolescenza, come una qualsiasi merce immessa nelle rete del mercato universale e nella sua appendice fantasmatica e spettacolare nei media. È possibile un’alternativa? L’arte non ha più modelli di comportamento o insegnamenti etici da impartire. Un’opera può oggi essere politica solo in senso estetico, non perché tratta di un argomento “politico”, non perché si schiera “contro” o milita “per” una causa, come ha argomentato di recente il filosofo Jacques Rancière. Essa è politica per il modo specifico con cui crea percezioni e affetti in grado di far sperimentare, con i sensi e l’immaginazione, qualcosa del mondo reale, della dimensione che abbraccia collettivamente gli individui, facendo al tempo stesso intravedere altri sviluppi, altre possibilità, diverse da quelle annunciate dalle narrazioni dominanti.

 

Politica è in arte una qualità del significante, la sua capacità di bucare la superficie compatta dell’immaginario. Ma questa efficacia, questa forza di dissenso, per seguire ancora il ragionamento di Rancière, non consiste in un conflitto di idee, non ristabilisce una continuità con le produzioni sociali, non ne disegna un futuro alternativo. La sua efficacia è infatti solo paradossale: anziché congiungere il campo dell’arte e il mondo sociale, crea una distanza, indica una discontinuità. L’efficacia estetica potrebbe dunque essere pensata oggi come un conflitto di regimi sensoriali, ed è proprio in base a quest’ultimo che secondo il filosofo francese l’arte può definirsi un’esperienza di dissenso, di fatto muovendosi in direzione opposta a quella che prevede l’adattamento delle sue produzioni a fini politici, come invece le diverse forme di attivismo tendono a credere.

 

Chiusa la possibilità di un orizzonte “ulteriore”, di una pienezza messianica prima o poi raggiungibile, l’esperienza artistica nelle immagini strumenti o azioni, più che come rappresentazioni, e il lavoro si concentra sulla risignificazione diretta del quotidiano e dei suoi segni anziché in un suo oltrepassamento. D’altro canto però gli artisti contemporanei non sembrano scossi più di tanto dall’inesorabile mercificazione del loro lavoro: il caso di Damien Hirst, per fare un esempio più che noto, è diventato sinonimo di un cinismo volto a screditare ogni residua reputazione estetica, ogni falsa illusione sulla differenza tra interessi culturali e “interessi” materiali. E se ci arrischiassimo invece a leggere criticamente proprio questo atteggiamento in quella chiave politica di cui parla Rancière? Che insomma proprio l’artista più compromesso sia capace di mettere in questione l’anything goes postmodernista, l’oliatissimo meccanismo mondano dell’arte? Una risposta – rischiosa e al limite dell’appropriazione (un rischio cui la critica non può mai in effetti del tutto sottrarsi) – può forse venire proprio da una delle opere più impudenti di Hirst, il teschio di platino tempestato di brillanti dal titolo blasfemo, For the Love of God, esposto nel 2007 in una mostra beffardamente chiamata Beyond Belief, ovvero “inconcepibile”, “inverosimile”, soprattutto in riferimento al prezzo stratosferico, 50 milioni di sterline, richiesto per un oggetto composto da 8601 diamanti e un enorme solitario rosa incastonato a mo’ di “terzo occhio” al centro della fronte, scontato riferimento alla supposta visione ulteriore dell’artista e obliqua citazione degli autoritratti astratti che Picasso dipingeva nei tardi anni venti del secolo scorso. In un’intervista Hirst ha esposto con la consueta verve provocatoria le sue idee sull’opera e la relazione incestuosa tra arte e denaro: “Il prezzo è troppo basso!”, replica alla prevedibile domanda dell’intervistatore. Perché? Perché l’acquisto di opere d’arte ha a che fare con il desiderio di immortalità, perché (aggiungo io), ancora più a fondo, l’arte mostra oggi forse nel suo stato più puro il puro potere tanatologico della “fantasmagoria della merce”. Nell’epoca post-duchampiana il prezzo diviene insomma un indice credibile della metamorfosi tra “cosa qualsiasi” e “opera d’arte” in un’epoca in cui il valore è direttamente esprimibile in termini economici, senza necessità (in apparenza almeno) di convocare un fondamento esterno, un’etica o un’estetica. Il teschio è un esercizio di realismo nell’epoca dei simulacri, un memento mori del “mondo dentro il capitale”, per usare l’espressione di Peter Sloterdijk, un feroce (e compiaciuto) autoritratto in cifra, e finalmente, per quanto questo possa apparire strano, un’opera d’arte “politica”, una Vanitas demoniaca che sulla doppiezza e l’ambiguità della condizione contemporanea tesse la sua tela di ragno: non più la saggezza, sembra dirci, ma lo sguardo di Medusa, una promessa di morte, l’attrazione perturbante del Nulla, invece della felicità. Inoltrandosi nell’opacità del reale , non permettendo alla “didascalia”, all’interpretazione, di articolare la disturbante intensità della sua presenza, Hirst tratteggia un mondo nel quale è impossibile una relazione tra ordine simbolico e sociale e nel quale anche un’opera così particolare, unica, finisce per diventare il patetico re-enactement di se stessa, come si potrà vedere fino al 1 maggio, a Palazzo Vecchio a Firenze, dove For the Love of God sarà esposto nella Camera del Duca Cosimo, “tesoro” ormai ridotto ad attrazione per turisti, a fenomeno da baraccone.

 

Nell’orizzonte implacabile dei processi di scambio, l'opera di Hirst continua a segnalare una traumatica perdita di comprensione della vicenda umana, in cui si spalanca un vuoto scabroso e indicibile, qualcosa che non può essere costitutivamente assimilato. Questo sfavillante Ecclesiaste da esposizione ci ricorda insomma che il mondo, nonostante l’apparenza inscalfibile, può essere sempre spazzolato contropelo, e che l’arte, questa vecchia conoscenza, è oggi più che mai indispensabile per renderne sensibile la parte negativa e maledetta, e sempre volentieri rimossa, quel «qualcosa che resiste» di cui le opere, come diceva Adorno, sono veicoli e rivelatrici.

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