Angelo Ferracuti. Il costo della vita

6 Settembre 2013

Gli occhi si annebbiano, la bocca si stringe, diventa una fessura ermetica, non emette alcun suono. I denti premono sulle labbra e all’improvviso si vorrebbe essere degli dei onnipotenti, supereroi che dominano il fuoco e scatenano tempeste con un battito di ciglia. E invece si è solo umani. Il dolore si espande, si fa denso, come nebbia impenetrabile. Fumo tossico. Le pagine scorrono di nuovo. Le dita non riescono a fermarsi. Non si possono fermare. Non devono. No. Non ora, non dinnanzi a questo libro.

È così che ci si sente mentre si legge il reportage di Angelo Ferracuti, Il costo della vita. Storia di una tragedia operaia (Einaudi). Eppure verrebbe da dire che non è una storia – sarebbe stato davvero molto meglio – e nemmeno una tragedia, non c’è una vera  catarsi o l’ombra di sollievo. L’unica catarsi si annida nelle parole dello scrittore, che ha trovato la forza di raccontare, di lasciarsi mangiare da un “tarlo” inarrestabile. E forse nella tenacia di quei lettori che hanno deciso di immergersi nel dolore di questa vicenda.  Ed è già molto. La realtà purtroppo non possiede riscatto.

Nel cuore rimangono ombre, fantasmi, gusci vuoti, come lo sono i tredici operai morti nel ventre di una nave dall’accattivante nome di donna, “Elisabetta Montanari”, di cui Ferracuti ricostruisce la vicenda. Il 13 marzo del 1987 mentre alcuni operai ripuliscono le stive della nave adibita al trasporto di gpl, altri operai tagliano e saldano lamiere con la canna ossidrica. Una scintilla provoca un incendio. Le fiamme si propagano e tredici lavoratori muoiono asfissiati a causa delle esalazioni di acido cianidrico. Le fotografie di Mario Dondero accompagnano come lampi il testo scritto e il suo sguardo umano, su quei volti umani, sembra rendere il dolore quasi familiare, sopportabile.

Malgrado ciò oggi più che mai verrebbe da dire che ogni lavoro è sacro. Soprattutto in questo periodo, in cui il precariato non dà molte sicurezze, ma orizzonti incerti e  bui, come lo era per gli operai morti sul porto di Ravenna. Non uomini, ma “topi”, come li aveva definiti con rabbia e pietà il cardinale Ersilio Tonini nella sua omelia funebre, poiché di professione erano “picchettini”, pulitori di scorie tossiche, un lavoro duro. Un insulto. Di colpo Ravenna non è più la città dei mosaici bizantini, della tomba di Dante, della possibilità di lavorare. Qualcosa si è spezzato: ora Ravenna è la nave “Elisabetta Montanari”, è quella immagine di Mario Dondero all’indomani della strage, lo scafo enorme, osceno, in secca sul porto, come un cetaceo metallico che incombe sulle minuscole figure umane ai suoi piedi. Un istante che si vorrebbe cieco, muto, mai esistito.

 

Mario Dondero, la nave “Elisabetta Montanari” ai cantieri Mecnavi il giorno dopo la tragedia, marzo 1987



E qui entra in gioco Ferracuti-scrittore, il “San Tommaso”, che sa mettere con arte il dito nella piaga. La sua scrittura è maniacalmente realista. Vera, autentica, si potrebbe dire. E dolorosa. Ma nel dolore qualcosa si addolcisce: le frasi guizzano di vita, la pagina sembra fremere, quasi un essere vivo, caldo al tatto, e gli eventi divengono le immagini indelebili delle emozioni. Il dolore di una madre si trasforma nel dolore di tutte le madri, la disperazione di un figlio, di una sorella o di un fratello si amplia all’infinito, il rammarico per la povertà è la “colpa” di coloro che sono morti.

 

Mario Dondero, Ravenna, lutto cittadino, marzo 1987



Il costo della vita – anche della sua –  Ferracuti lo paga con l’esperienza della propria scrittura, le catene di  fogli di protocollo di cui parlava Franz Kafka sono anche le sue catene e il breviario laico, il libro delle invocazioni da tenere sempre accanto a sé, riporta le “quattro fondamentali ragioni per scrivere” di cui parlava George Orwell: “il semplice egoismo, l’entusiasmo estetico, l’impulso storico e lo scopo politico”, tutto ciò che si potrebbe volere da un libro.

 

Mario Dondero, Porto di Ravenna, lo striscione simbolo "Mai più"

 

E Ferracuti non delude. Le sue parole sono un flusso emotivo che dalla pagina va dritto al cuore come una freccia. L’imperativo morale che anima il racconto è quello di scagliarsi con estrema puntigliosità contro l’oblio della morte e il vuoto dell’indifferenza, colmandoli di dettagli precisi, impossibili da dimenticare: nomi, date, eventi e moltissime testimonianze di parenti, sindacalisti, cronisti, fotografi, pompieri, medici, soccorritori.
 
Ferracuti termina il suo reportage con il ricordo di una canzone: Hurricane di Bob Dylan ma c’è un altro suono che si può accostare a questo libro: quello della tastiera metallica di The Carpet Crawlers dei Genesis.  Un tappeto di cingoli –  una catena di montaggio –  il cui suono insistente, ricorda quello di un picchiettio ininterrotto. Così, ad occhi chiusi si può immaginare che nel silenzio di uno spazio vuoto, nel ventre buio di una nave, si riesca a udire l’eco di quel rumore, di  tredici persone che suonano un motivo. Per sopportare la loro morte, per trasformare  i colpi prodotti da chi raschia scorie tossiche, nelle note di una melodia. Un suono umano, che accompagni il lettore nelle viscere di questa narrazione, non come era accaduto a quelle tredici persone.
“Non c’è nulla che possa nascondersi nella mia memoria. Non ci sono stanze da svuotare”, sussurra la voce di Peter Gabriel. Tutti dovremmo ripeterlo. Sempre.

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