Stretta parentela / Animali umani (troppo umani)?

26 Ottobre 2017

Inizialmente avevo una certa difficoltà a sentirmi “padre” del mio cane. Per una sorta di virile vergogna preferivo considerarlo un compagno con cui trascorrere alcune ore della settimana, perlopiù camminando insieme per i boschi. Senza volerlo, cercavo di tenerlo lontano dall’eccessiva confidenza, e sembrava che quelle instabili regole di convivenza che avevo elaborato, esito di sensazioni più che di convinzioni ragionate, potessero davvero funzionare. Poi il cane, Osvaldo, l’incrocio segugio, si fratturò una zampa durante una scorribanda solitaria tra i castagneti. Quella fasciatura infranse la barriera: il “degente” venne teneramente accolto nel letto matrimoniale, durante la notte. Se ne stava accoccolato in fondo, anche se in qualche occasione cercava di avvicinarsi a me o a mia moglie. Fu da quel momento che, senza dirmelo, cominciai a pensarlo come quel figlio che allora, quasi vent’anni fa, ancora non avevo. In effetti era a lui che dedicavo la gran parte del mio tempo libero, era a lui che destinavo ogni preoccupazione, soprattutto quando lo lasciavo libero dal guinzaglio ed ero schiacciato dall’angoscia di averlo perso per sempre.

 

Fu per lui, per capire quel “figlio” misterioso, che cominciai a leggere tutto ciò che pensavo mi permettesse di entrare nella sua testa. Sempre più frequentemente, come quel padre che non volevo ammettere di sentirmi, non perdevo poi l’occasione per parlare di Osvaldo, della sua strepitosa velocità, della sua “gelosia” nei confronti dei confratelli maschi, della sua evidente propensione ad apprezzare le grazie femminili, della sua voce tonante e delle operazioni di caccia indebite (la volpe snidata dalla tana e “trasferita” in un’azienda agricola, il cervo inseguito sulle montagne austriache), oppure del carattere irruente e gioviale e della sistematica attitudine a combinare pasticci. Agli occhi dei “non canari” avevo perso la testa, evidentemente. 

 

Come spiega Guido Guerzoni in Pets (Feltrinelli), la “parentizzazione” è il cuore della relazione tra uomini contemporanei e animali domestici. Oggi chi ha un cane o un gatto o un cincillà (la lista potrebbe essere smisurata) tende invariabilmente a considerarlo il figlio a cui prestare ogni cura per tutta la sua vita, che, complice il netto miglioramento delle condizioni ambientali e fisiche, si sta con evidenza allungando nel tempo. Se per molti aspetti si tratta di un meccanismo ben noto agli zooantropologi – la cosiddetta funzione epimeletica è quella che ci porta ad accudire i piccoli anche di altre specie ed è la radice dell’addomesticamento –, è anche vero che quanto sta accadendo negli ultimi decenni ha per molti aspetti la portata di una svolta. Il pet, il cane prima di tutti gli altri, sta ormai sempre con noi.

 

 

Come un eterno bambino, ci segue mentre facciamo la spesa, nei luoghi pubblici, in vacanza. A lui tutto si concede, per lui si gioisce e si soffre. Per molti aspetti è il figlio perfetto, quello che non ci lascerà mai, quello che non potrà deluderci, quello che conserverà anche nella vecchiaia il candore dell’infanzia. 

Le parole rendono per prime evidenti lo stato delle cose. Chi oggi ha ancora il coraggio di usare il termine “padrone” per definire il suo ruolo nei confronti del pet? E solo negli atti burocratici si fa ricorso all’asettico “proprietario”. All’opposto, si pensi ai nomi che scegliamo per i nostri animali, del tutto sovrapposti a quelli che attribuiamo ai figli della nostra specie: è distante ere geologiche l’abitudine di non attribuirgliene nemmeno uno “di superficie”, come talvolta in passato si faceva con i gatti, che rimanevano innominati per tutta la loro vita. 

 

Quanto mi sembra evidente, quanto io stesso ho misurato e continuo a misurare nella mia relazione con il cane, è che la parentizzazione ha ridotto le distanze tra le specie, per molti versi le ha addirittura annullate. Chi non ha animali per casa, chi li detesta proprio, o anche chi li ha ma appartiene alla generazione che questo non lo ammette, inorridisce all’idea di avere il cane o il gatto sul letto o nel letto, di fianco a noi, addosso a noi, attorcigliato alle nostre gambe, mentre dormiamo. Le accuse sono perentorie: non è da farsi, non è igienico, gli animali sono animali. Ma se dormire insieme al cane o al gatto può essere scomodo (e Guerzoni lo ricorda con ironia), si tratta anche della forma più spinta di annullamento delle barriere. “Il sonno unifica”, ha scritto Alberto Asor Rosa nel suo bellissimo Storia di animali e altri viventi (Donzelli), “ci fa tornare indietro, all’origine” e “la differenza tra animali e umani si attenua, anzi, si potrebbe dire che scompare”. Che sia davvero arrivata l’età dei metamorfanti (come li ha definiti sempre Asor Rosa), cioè di esseri viventi che “volontariamente o involontariamente, trasmigrano l’uno nell’altro”? 

 

Il rischio, però, è molto alto. Perché dietro la scelta di convivere sempre con il cane e il gatto (ed il primo è più esposto del secondo) facendolo diventare come noi, c’è il pericolo di annientarne la specificità, di schiacciarlo completamente sotto il peso del ruolo antropizzato che abbiamo deciso di imporgli. Se si dimentica la relazione e si fa del cane un trastullo simil-umano, come spiega Roberto Marchesini, si tradisce insomma l’antichissimo patto tra le specie, quello che ha contribuito in misura straordinariamente rilevante a farci diventare ciò che siamo. 

 

La realtà che emerge dallo studio di Guerzoni sembra andare proprio in quest’ultima direzione. I “canari” e i “gattari” di oggi appartengono alla middle class urbanizzata, che sta crescendo di numero in ogni angolo del pianeta. A fianco della famigliola da spot in cui ai due figli umani si aggiunge il cucciolo a quattro zampe o degli anziani in cerca di conforto, sempre più frequentemente sono i single o le coppie sposate senza figli ad avere voglia di spartire la propria vita con il cane o il gatto. E sono queste categorie a volere che gli animali gli assomiglino sempre più. Da qui discendono abitudini, vezzi, scelte esistenziali che, senza alcun dubbio, costituiscono una spinta verso l’annullamento della “caninità” del cane e, più in generale, dell’“animalità del pet. Che dire infatti del cane che va a spasso in passeggino o che viene mandato in palestra e piscina, o è periodicamente condotto in motel specializzati dove può dar sfogo alle proprie pulsioni (ma, in alternativa, ha a disposizione sofisticate bambole gonfiabili)? E che dire dell’ossessiva cura dell’estetica, dei piercing e dei tatuaggi che ne personalizzano la fisionomia o, ancora, della pratica del botox? E i cani o i gatti vegetariani? E i cani con la protesi che permette di superare il trauma (indubbio, peraltro) della castrazione?

 

Se certamente è vero, come ricorda Guerzoni, che, con moto opposto ma convergente, “cresce il numero di esseri umani che s’imbestialiscono scientemente ricorrendo al branding, facendosi impiantare code, ali, unicorni e banali corna bovine e regalandosi orecchie da pipistrello, occhi felini, lingue bipartite da rettile o dentature da coyote”, è altrettanto evidente che il cane non sceglie di diventare la caricatura di un eterno infante destinato a morire nella sua funzione di trastullo o di ornamento. 

Sono eccessi, è chiaro. Penso che la maggior parte di noi abbia un rapporto meno esasperato con il proprio “figlio-pet”. Quanto è innegabile è che da un passato anche recente sembra separarci un abisso. Si pensi che fino agli anni Settanta avere il cane in casa era un’eccezione e che dare da mangiare ai propri animali domestici qualcosa che non fosse uno scarto era decisamente raro, così come solo eccezionalmente si ricorreva alle cure veterinarie.

 

Appariva ancora evidente l’impronta contadina del rapporto tra uomini e animali per cui, scrive Guerzoni, “i pets erano “cose animate” (e), in quanto tali, il loro padrone era legittimato a esercitare, talora oltre i limiti della decenza, lo ius utendi et abutendi: poteva venderli, prestarli, abbandonarli, farli crepare di fame e di sete, seviziarli o accopparli senza subire sanzioni di alcun tipo”. Insomma c’è stata un’epoca in cui l’animale – anche quello a cui ti sentivi legato – era comunque l’“altro”, l’appartenente ad un mondo che non poteva coincidere con il nostro: animale da compagnia sì, ma relegato in una dimensione subalterna, congelato nella sua dimensione di presenza sporadica e transeunte.

Oggi tutto questo è finito. Il cane e il gatto hanno acquisito diritti sacrosanti. A loro si dedicano energie e denaro. Con loro si condividono emozioni profonde e si vive una relazione fondata sul reciproco amore. E grazie a loro, per ora, si riempie il vuoto, il solipsistico vuoto, dentro il quale si galleggia con crescente fatica. Come scrive Philip Schultz in Erranti senza ali (Donzelli), “Tutti preferiamo l’imperturbabile scodinzolio dell’illusione”. 

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