Antonio Rovaldi. Orizzonte in Italia

1 Novembre 2013

Così come il naufragio della Costa Concordia era stato letto come metafora dello stallo economico e politico italiano, l’eccezionale recupero del relitto, che avveniva circa un mese fa, è stato interpretato come il punto di svolta di un’auspicata ripresa che avrebbe rimesso in sesto la nostra credibilità nazionale e internazionale. Più recentemente lo stesso mare nostrum è stato teatro dei tragici naufragi di Lampedusa, contando purtroppo centinaia di vittime e ponendosi ancora una volta come luogo centrale della riflessione sulle strategie politiche e culturali d’Italia e d’Europa (l’appello).

 

Due anni e mezzo fa, partendo dal desiderio di ritrarre questo stesso mare, o meglio il suo orizzonte esteso, Antonio Rovaldi percorreva in bicicletta il perimetro della penisola. I retroscena del suo viaggio – una sorta di personale registro visivo tappa per tappa – sono stati pubblicati qui su doppiozero, mentre il lavoro reale è invece ora esposto a Roma presso la galleria Monitor, che inaugura con la mostra Orizzonte in Italia, il suo decimo anno di attività.

 

 

Centocinquanta scatti verticali, realizzati nel corso di cinquantotto giorni sulle coste d'Italia, da Trebiano (La Spezia) a Trieste, sono disposti uno dopo l'altro, ritraendo i confini marittimi della penisola e al tempo stesso marcando e perforando il perimetro della galleria.

 



In questa prospettiva lo sguardo di Rovaldi è rivolto all'esterno. Al mare. All’orizzonte ripreso dalla strada costiera. La lunga sequenza traccia una linea continua su cui a volte si inseriscono segmenti di paesaggio mediterraneo, pini, statue, ferrovie, uomini: ostruzioni che rimandano al luogo stesso, evocato e non descritto e solo a volte riconoscibile. L’Italia alle spalle.



Se non è la prima volta che Rovaldi si sofferma sull’ambiente, questa è l’occasione in cui l’artista emiliano abbina alla tradizione italiana del paesaggio quella performativa del viaggio. Senza scomodare remoti paesaggisti che dal nord Europa discendevano l’Italia in grand tour, non mancano altri precedenti illustri e più recenti.

 

Primo fra tutti per assonanza tematica e nominale Paesaggio Italiano (1980-1989) di Luigi Ghirri, ampia opera fotografica che ritrae l’identità italiana nelle sue incongruenze e nelle sue bellezze. Il gusto per la rarefazione e la poesia del quotidiano di Ghirri sono però assenti nelle immagini di Rovaldi, che non nega un omaggio al maestro scomparso ma si distacca dal ruolo di etnologo, lanciato com’è all’inseguimento dell’orizzonte, quello italiano, quello marittimo.

 



Il viaggio entra quindi nell’opera di Rovaldi, documentato con rigore sistematico, come in un diario di bordo, sulle sei lastre d’ottone. Tre per gli spostamenti quotidiani. Tre per le attività. Elenco di luoghi e di gesti, percorsi e compiuti in solitudine. Di questo racconto, spoglio di episodi, aneddoti, e personaggi, resta la memoria inespressa del movimento meditativo, scandito dal silenzio del proprio respiro, dalla reiterazione costante della spinta del piede sul pedale e della terra che scivola sotto le ruote. Il fine è infatti il solo orizzonte.

 



Più che nei singoli scatti, l’opera vuole essere letta nel suo insieme, nel dialogo con lo spazio e il suo referente visivo. Guardando quindi la lunga linea, sintesi di spazio e durata, ci si chiede: cosa riconosciamo dell’Italia nell’insieme amniotico, nel “pentagramma cromatico” di Rovaldi? Dove giunge la ricerca sull’immagine? Quale eredità raccoglie e verso quali riflessioni ci indirizza? Di fatto a un lavoro dalle dimensioni importanti fa da contrappeso una leggerezza strutturale, risolta nella semplicità dell'orizzonte.

 

 

La complessità dello spettro cromatico d’Italia, con le sue crisi e i suoi conflitti, sembra scomparire nella linea d’azzurro continua che ci avvolge entrando, mentre il filo orizzontale che scorre sulla parete chiude – e al tempo stesso apre – lo spazio e racconta il tempo. La sensazione è tuttavia quella di restare incagliati nella seduzione estetica della sovrapposizione dei registri, della spettacolarità dell’effetto finale, voltandosi dall’altra parte, verso l’esterno. Perché forse poco resta da dire, senza quello sforzo ulteriore e conclusivo che, risollevato il relitto e soccorsi i sopravvissuti, si voglia trovare una destinazione ulteriore e risolutiva.

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