Apocalittici e i falò

30 Settembre 2014

«Il più potente alleato che l’analfabetismo musicale abbia incontrato nella storia, il disco: questo frigorifero incaricato di custodire interpretazioni nate al di fuori di ogni rapporto con ascoltatori determinati, e che con incredibile faccia tosta si pretendono valide a ogni ora, in ogni luogo, per chiunque, come titoli al portatore. Forse non tutti ce ne rendemmo conto l’altra sera, uscendo dalla casa amica. […] La musica ci era riapparsa nella sua indifesa e naturale fragranza. Così diversa da quella, congelata, che i mercanti offrono su tutte le cantonate, ci rovesciano da tutti gli altoparlanti, nel tentativo di persuaderci che il privilegio della “high-fidelity” spetterebbe alle mummie».

 

Così Fedele D’Amico terminava la sua cronaca di una serata passata nella bella casa della scrittrice Maria Luisa Astaldi, alle soglie di Villa Borghese (Il concerto in casa, 9 dicembre 1960). Non so esattamente se Umberto Eco avrebbe fatto rientrare D’Amico nel novero degli acerrimi “moralisti culturali”. Di sicuro, nemico giurato di ogni forma d’arte e spettacolo tecnologicamente mediata, D’Amico era in quegli anni in prima linea nel lamentare la vendita e il consumo di “musica fatta a macchina”, quella riprodotta dal disco, dai registratori, dai nuovi sistemi di produzione tecnica. Bersaglio favorito: quell’hi-fi che permetteva di ascoltare la musica come se si fosse in presenza degli esecutori, anzi, come se fossero stati invitati a casa propria. Ma quale star del disco “colto” sarebbe stata a proprio agio nella stanzetta di un nuovo giovane, meglio alfabetizzato ma completamente incapace di eseguire una riga di musica scritta?

 

La diffusione del disco ha portato alla rapida estinzione del dilettantismo musicale: niente più bei concerti in salotti borghesi, come quello frequentato da D’Amico; ma neppure signorine di buona famiglia capaci di distruggere Chopin abbandonandosi ai deliqui sentimentali promessi dai suoi arpeggi. Il disco offre solo esecuzioni di alto livello, anche se tuttavia tende a selezionare un repertorio commerciale e incoraggia quindi una certa diffidenza verso la musica inconsueta. Quindi, sebbene ci abbia liberato dalle pedanti signorine, il disco ci ha costretto comunque più o meno al solo Chopin, seppur suonato in modo sublime.

 

Negli anni del boom economico la riproduzione musicale per radio a transistor, o ancor più per filodiffusione, trasforma presto la musica colta in qualcosa che possa fare elegantemente da sottofondo alle azioni domestiche quotidiane. E su questo tappeto sonoro si insinua facilmente la musica di consumo: quelle canzonette di evasione, in cui la formula sostituisce la ricerca della forma per non turbare le orecchie degli ascoltatori con improvvise richieste di attenzione. Musichette tutte uguali per cui il plagio non è più delitto, ma è procedura scientifica progettata dai discografici per rispondere immediatamente alle esigenze del pubblico.

 

 

La verità è che la musica da eseguire dal vivo di fronte a un gruppo di persone, una volta uscita dal salotto per bene, dopo aver incontrato l’elettronica ha preso due strade ortogonali. In quegli anni, la musica fatta “da chi sa suonare” sembra essersi liberata in un sol colpo delle abitudini melodiche, dei timbri degli strumenti e dei modi tradizionali di suonarli, e ha dispiegato di fronte a sé un orizzonte sonoro precedentemente inimmaginabile: ricorrendo a nuove competenze tecniche che un moralista culturale avrebbe definito ingenerosamente aride, suoni e “rumori” possono essere montati in serie, sovrapposti, manipolati, per realizzare un progetto artistico di ricerca. L’esplorazione dell’inaudito è stata (e lo è ancora) talmente importante per questo genere musicale che i compositori – forse affetti da narcisismo o senso di onnipotenza creativa dato dalla solitudine di fronte alla macchina generatrice di suoni – hanno lasciato in secondo piano lo sforzo per una notazione che permettesse la ripetibilità delle loro creazioni. La musica degli avanguardisti è materia sonora plasmata, che si dà nella sua concretezza e unicità ad un ascoltatore incaricato – o secondo alcuni condannato – a trovare il bandolo della matassa di principi costruttivi che lo aiutino a comprenderne il senso. A cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta cambia quindi la musica, ma cambiano anche le condizioni di ascolto.

 

Seppure in modi e con obiettivi diversi rispetto all’astio di D’Amico nei confronti delle avanguardie elettroniche, anche in Eco sorge il sospetto che, nella legittima rincorsa di un progetto rivoluzionario, pronto anche agli eventuali fallimenti, i musicisti colti abbiano lasciato il resto della musica cosiddetta “classica” nelle grinfie di un conservatorismo nostalgicamente classista. Da lì in poi il concerto di musica classica resterà nel tempo qualcosa di molto meno disinvolto della tiepida serata fra amici di D’Amico.

 

Per chi desidera superare l’esame del confronto sociale, il concerto è un’occasione impegnativa, ci si va in cappotto o, se è estate, in fresco lana. Sembra che l’ambiente della musica colta abbia smesso di offrire a un pubblico popolare le occasioni per ritrovare, come nel racconto mitologico del melodramma, i valori ideali e le espressioni intensificate delle emozioni quotidiane. La musica “saputa” ha smesso di interpretare i sentimenti e i problemi di alcune fasce sociali, e del nuovo gruppo emergente, gli adolescenti, ai quali non resta che ascoltare i nuovi cantanti adolescenti. E il circolo si chiude: i giovani sembrano scegliere istintivamente le canzonette stereotipate, in quanto le recepiscono come l’unica offerta culturale che interpreti in modo autentico i problemi della loro generazione, dal loro proprio punto di vista. Tuttavia, anche nel 1964, ci sono giovani e giovani.

 

I tristi flâneur impomatati, appoggiati con non-chalance al bordo di una rotonda sul mare sulle note di un cantante confidenziale, restano al palo, costretti a retrocedere mentre pensano all’amata che non è più lì con loro a ballare cheek-to-cheek. Forse perché la ragazza ha già scelto altri amici, si è tolta le scarpe ed è scesa in spiaggia. Ha deciso di sdraiarsi sotto le stelle di agosto e legarsi ad un granello di sabbia per farsi cullare, cullare, cullare, dalla musica di un chitarrista che suona ad orecchio davanti a un falò.

 

 

Quei fuochi antichi accesi dalla religiosità popolare nella veglia di San Rocco, o per indicare l’approdo alle icone bizantine che galleggiando tra i flutti cercavano rifugio in Occidente, quei fuochi che servivano a implorare il Solleone perché desse un buon raccolto di uva e olive, si convertono in uno dei primi rituali dei nuovi giovani italiani. Adesso sono fuochi che laicamente servono a salutare la fine dell’estate, il termine di un periodo di ferie consumate grazie ai genitori che finalmente possono pagarsele. Nell’umida oscurità della notte, al riparo dal vigile sguardo degli adulti, bruciano nel fuoco dei falò di Ferragosto gli amorazzi estivi.

 

Mentre i jukebox gracchiano sotto le luci colorate dei bar a volumi assordanti per riscaldare sudati balli di gruppo, intorno a quei fuochi che rischiarano le spiagge fino agli sgoccioli di agosto si rifugia la pratica musicale immediata, questa volta popolare, della canzone giovanile. È qui che la musica ritorna ad essere “privata”, perché, come nel concerto in casa di D’Amico, «ha luogo fra persone individualmente determinate e reciprocamente riconoscibili invece che per gli anonimi componenti di un “pubblico”». Con buona pace del critico, il falò è l’erede un po’ impertinente del suo salotto, poiché anche qui «l’opera d’arte è un modo di obiettivare un’esperienza in forme sensibili tali da parteciparla ad altri». E se è vero che le canzonette sarebbero state difficilmente considerate opere d’arte da D’Amico, tuttavia possiamo continuare a rubargli le parole di bocca per portarle lì davanti al fuoco, poiché «comprendiamo allora che non la musica in sé ci interessa, come un “oggetto”, ma appunto il rapporto umano che essa ci ha portato alla luce, come in un lampo: la scoperta della segreta comunanza che lega noi all’“altro”» (D’Amico 1962 : 427). Ah D’Amico, se avesse saputo!

 

Qualche anno dopo lo avrebbe detto De André, in una proiezione autobiografica, che «se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare». Così i chitarristi da falò sono sempre gli stessi, di anno in anno. Nel loro repertorio le canzonette stagionali si mescolano a quelle nuove canzoni non urlate, in cui le parole contano e si stanno a sentire (Eco, Apocalittici). Ciò che si può ascoltare facilmente alla radio e dai juke-box, davanti al falò trova una nuova funzione che va oltre il sottofondo, accanto a quelle nuove “poesie intonate” dai cantautori che la gente si raccoglie per ascoltare. Intorno a quelle melodie stentate si imbastiscono nuovi modi di raccontare l’amore, che si accosteranno presto senza grossi problemi a «un bacio a labbra salate, un fuoco, quattro risate… e lunghe corse affannate incontro a stelle cadute, e mani sempre più ansiose di cose proibite…». Condite da allegre risate adolescenziali, saranno tutte in breve tempo semplicemente «canzoni stonate urlate al cielo lassù».

 

Mentre al grido di «Tutti al mare» le vacanze agostane diventano un’esperienza di massa, anche la musica è dunque uscita dai salotti degli amici di buone speranze per scendere in spiaggia e diventare cosa “da tutti”, per tutti. La suonata del falò di Ferragosto, pur con i suoi aspetti ridicoli e ripetitivi celebrati immancabilmente dai cliché dei Vanzina (ambientati proprio nel 1964, sic), è rimasta per qualche decennio una delle poche occasioni popolari di musica privata. È una pratica che è riuscita a resistere anche allo sfruttamento intensivo dei capi villaggio, risoluti nel tentativo di trasformarla nell’ennesimo “divertentismo”. Ha superato le prime invasioni tecnologiche degli anni ’80, quando i sound-blaster, quei radioloni importati con il rap americano, avevano provato a sconfiggere con la loro efficacia sonora l’inventiva dei chitarristi più preparati e l’affezione dei coristi più stonati. Eh sì, perché la forza dei falò stava tutta nella partecipazione attiva, contro il sottofondo musicale. Almeno finché il chitarrista non sarebbe finito a suonare per se stesso, circondato da un groviglio di effusioni. Purtroppo, non indifferentemente.

 

    

 

Nei primi anni ’60, a buona ragione, sia Eco che D’Amico erano persuasi che le tecnologie della registrazione avessero ammazzato il dilettantismo. Con il senno di poi, e con gli strumenti di Eco, possiamo dire che lo abbiano semplicemente trasformato. Cassette, dischi, videocassette, sono venute in soccorso dei più sprovveduti, o di chi abitava in luoghi isolati, perché potessero imparare ad accompagnarsi alla chitarra cantando i successi dell’estate o i classici cantautorali.

Oggi questi tutorial si trovano agevolmente su youtube, e non servono solamente a strimpellare “La canzone del sole”. Si può capire come far ruggire e fischiare la chitarra elettrica. Oppure si possono imparare i makam turchi, le tabla indiane, il tremolo della musica balcanica, fino ad arrivare alle più raffinate tecniche strumentali. Ma per esibirsi dove?

 

Nei falò cominciano ad apparire tablet e smartphone che collegati ai social network permettono di scaricare playlist d’occasione: solo su Spotify si può trovare “beaches”, “boating”, “bonfire”… e ci si può immaginare che arriveranno presto anche quelle italiane, su tutte le piattaforme.

La chitarra, comunque ingombrante, con le corde che possono spezzarsi, quando non è stata soppiantata da playlist che gracchiano simultaneamente da più cellulari, si avvia ad essere surclassata da virtual instruments freeware che girano sui tablet ed emettono suoni ampiamente soddisfacenti, ma che si ascoltano al massimo in due, meglio se con gli auricolari.

 

Alla luce rossastra e tremolante del fuoco si è sostituito il luccichio lattiginoso degli schermi, in attesa che le batterie si esauriscano e le solitudini collettive si rimescolino, ormai al buio.

Chissà se D’Amico, di fronte a questa ulteriore apocalisse, avrebbe imbracciato la chitarra per andare ad obbligare gli adolescenti a cantare in coro “Sapore di sale”, come i loro avi del 1963. Chissà. Di sicuro un chitarrista da falò cresciuto a Battisti, De Gregori, De André, Eurythmics, Bob Marley e Nora Jones, sarebbe comunque capace di reggere la serata, pure con i virtual instruments, raccogliendo ancora gli amici intorno al fuoco.

 

Nel 1964 Eco scriveva profeticamente: «La verità è che le condizioni dell’invenzione e della creazione vengono modificate, non annullate, dall’avvento di nuove tecniche. Ciò che viene modificato è il panorama psicologico e sociologico della produzione e dell’ascolto, sono le caratteristiche stilistiche del prodotto. Nella musica colta come in quella di consumo. Per le cose valide come per quelle inutili e dannose» (Eco 1964 : 307). «Il fenomeno di un gruppo di amici che si riunisce per produrre effetti musicali curiosi da registrare su nastro, non di rado sperimentando la resa dei rumori naturali, è di scarsa importanza oggi, solo per motivi economici, per il fatto cioè che i buoni registratori sono assai cari e poco diffusi.

 

Il giorno che potessero essere messi a disposizione delle masse, come accade col disco, si potrebbero verificare fenomeni di dilettantismo dall’esito imprevedibile, e in due direzioni: da un lato l’esercizio sperimentale su nuove possibilità sonore, dall’altro il rivivere repertori popolari riesumati grazie alla presenza provocatrice del registratore». Arriverà dunque il momento che, passeggiando per la spiaggia a fine agosto, lontani dalle musiche assordanti dei lidi e delle discoteche estive, ascolteremo provenire da un falò una nenia di paese, o una nuova canzone accompagnata dall’iPhone. O forse – e questo è il bello delle tecnologie – è già successo, anche lontano da noi.

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