Morricone secondo Tornatore

24 Febbraio 2022

Di Morricone sapevamo già tutto. Sapevamo delle sue passeggiate in salotto all’alba, della sua metodicità imperturbabile, dell’amore per la moglie, del temperamento schivo e della sua cocciutaggine. Sapevamo anche della frustrazione per non essersi affermato come autore di musica pura, che Giuseppe Tornatore ha impiegato come molla narrativa per raccontare la storia di una redenzione dal senso di colpa in Ennio, il documentario da lungo tempo annunciato e finalmente uscito nelle sale con ben 350 copie, dopo una felice anteprima nell’ultimo scorcio di gennaio.

 

D’altra parte, Morricone aveva già lasciato che gli aneddoti su di lui circolassero in filmati, interviste, libri, e un’autobiografia. Per essere un compositore, e con quel carattere, Morricone si è esposto mediaticamente molto di più di tanti altri della sua generazione, e addirittura più degli esponenti di quelle successive già immerse nel mondo della condivisione digitale. Se fosse stato veramente un personaggio misterioso, Tornatore non avrebbe avuto tutto quel repertorio di filmati (found footage dicono gli specialisti) per confezionare un avvincente film di montaggio.

Ma Ennio non è un film per chi cerca curiosità inedite sul maestro, o per farsi rivelare in extremis il segreto della sua ispirazione, mistero che vale solo per chi la musica la guarda dal di fuori. Nel costruire il monumento definitivo al compositore italiano, Tornatore conduce lo spettatore a riflettere su alcuni argomenti che vanno al di là del semplice ritratto celebrativo, entrano in punta di piedi e con un magistrale crescendo si rivelano fondamentali per comprendere che rapporto intratteniamo oggi con l’esperienza della musica.

 

 

Possiamo cominciare dalla domanda che, nell’intimità di un camerino-confessionale in un dopo concerto, Nicola Piovani pone ad un Morricone già anziano e definitivamente riconosciuto: la musica da film è a pieno titolo musica contemporanea del Novecento? La risposta breve potrebbe essere: non tutta. 

E infatti, dopo tanto torturarsi, Morricone si convince alla fine che almeno la sua lo è. Ma non, come crede lui, per essere riuscito come un eroe mitico a far convergere musica pura e musica d’uso, neutralizzandone l’opposizione tragica. Questo serve al racconto di Tornatore, certo. Ma non è questione di miseria e nobiltà, umiliazione e soddisfazione, né di “uccidere il padre”, l’ingombrante maestro Petrassi che imperversa in tutto il film come l’ombra oscura di un amato ingrato.

 

Nino Rota, che apparteneva alla stessa generazione di Petrassi, quando riusciva a liberarsi delle commissioni “alimentari” continuava a scrivere la sua musica, o semplicemente musica, indipendentemente dall’incrocio con il cinema a cui sarebbe stata destinata: non ci sarebbe stata altrimenti l’irripetibile simbiosi con Fellini, ben lontano dalla comunicatività neutra del realismo da commedia. Altri come Fiorenzo Carpi o Riz Ortolani, poco più anziani di Ennio, si nascondevano dietro le immagini, pur sapendo piegare i generi musicali alla misura delle passioni del pubblico facendo leva su sonorità familiari.

 

Di fatto, fino all’arrivo di Morricone, nella maggior parte dei casi i compositori scrivevano “commenti musicali” ad immagini che ne avrebbero potuto fare a meno, almeno quanto le passerelle delle ballerine al termine degli spettacoli di varietà. Il grande equivoco del pubblico sugli intenti estetici del neorealismo, ridotto a “vero racconto della povera gente”, dimostrava che lo sguardo degli italiani era ancora saldamente incatenato a un sapere letterario ottocentesco, per cui il film stesso poteva diventare un complemento alla sceneggiatura, e la musica una semplice decorazione di ciò che si vedeva. Di un film gli spettatori (e talvolta anche i critici) si raccontavano la trama, come di un romanzo di appendice.

 

Morricone invece è novecentescamente contemporaneo, come il cinema, perché inserisce nella sua musica la pratica del montaggio e usa un composto di sonorità eterogenee per disegnare nella mente dello spettatore l’immagine invisibile dei mondi in cui le azioni rappresentate si svolgono. Morricone va al di là della sperimentazione di avanguardia, che pure ha avuto un ruolo importante nella sua crescita personale ma restava agganciata a problemi artistici squisitamente disciplinari, e crea invece qualcosa di nuovo che permea l’estetica sociale e condensa i tratti del gusto barocco proprio di tutta la seconda metà del Novecento. Questa è la ragione per cui la sua musica straborda (e continua a strabordare) i film per cui era stata composta, invadendo altri contesti musicali e portandosi dietro porzioni di immaginario al servizio di nuove fantasie. Se queste sono le caratteristiche della moderna musica per il cinema, allora Morricone ne è stato probabilmente l’inventore.

 

 

Attraverso la lunga confessione rilasciata alla cinepresa di Tornatore, Morricone ci fa entrare nella bottega del compositore con spiegazioni semplici, smorfie, gesti di impeto, che da una parte ce lo rendono ancora più simpatico, e dall’altra inevitabilmente calzano sul suo volto la maschera del genio, con quella spontaneità che ammantata l’immagine popolare della genuina ispirazione. E invece Morricone ci invita seriamente all’ascolto, e lo richiede quasi con insistenza, perché lo facciamo raramente, intenti come siamo a lasciarci contagiare da ineffabili emozioni. Il maestro spiega le sue trovate, ci tiene a far capire come funzionano, e dona al pubblico gli strumenti per valutarne la qualità, l’originalità e l’influenza nella riuscita finale di un film.

 

Così l’ascolto libera lo spettatore e rende giustizia al lavoro del compositore.

Durante il film si ascoltano tante colonne sonore, canzoni, arrangiamenti, e la sequenza permette di apprezzare somiglianze che testimoniano le tappe della costruzione di uno stile, di una grammatica che si consolida e diventa idioma proprio dell’artista. Ma rivelare i ritmi di una normale attività di ricerca che rende la musica un lavoro come un altro non dissacra affatto quel momento particolare in cui ci si imbatte nel capolavoro che fa esplodere l’ordine dell’universo sonoro costringendo lo spettatore a riorientarsi. Guarda caso, l’idea sconvolgente è sempre il frutto della capacità di gettare ponti e fare sintesi fra diverse esperienze e memorie del suono: l’efficacia di ogni capolavoro è il risultato di una traduzione riuscita verso chi ascolta.

 

Così lo spettatore di Ennio resta atterrito nell’accorgersi improvvisamente che è tutto così logico, leggibile, trasparente: c’è il contrappunto in Metti una sera a cena, c’è il nome di Bach nel Clan dei siciliani, la tecnica della conduction nei thriller di Argento, la ricerca timbrica e le poliritmie nei film di Petri, il gioco fra musica concreta, melodramma e folk nei film di Leone, il serio divertimento popolare in Pasolini e Verdone, i prestiti dai concerti settecenteschi e la struttura del mottetto in Mission, e tutto appare chiaro e confortante come la fragranza del pane quotidiano.

Dunque, in realtà, la vicenda di Morricone raccontata da Ennio reca in filigrana la storia più recente della musica in Italia, e ne denuncia lo stato: inascoltata.

L’attenzione richiesta da Morricone (e da Tornatore dietro la cinepresa) sulla componente musicale svela che il film è fatto di tempo. Scoperta banale: l’ha insegnato Deleuze, l’ha predicato Tarkovskij, ma evidentemente non è bastato al grande pubblico che questo documentario può finalmente raggiungere. Il film è fatto di istanti registrati e la musica li mette in tensione fra loro, alla stregua di come fa solitamente da sola con i puri suoni. È la musica che rende quel tempo girato ancora più emozionante, perché scavalca lo schermo ed entra nella vita dello spettatore, a colorarne la parte trascorsa davanti alle immagini e il resto che accadrà fuori dalla sala, quando i piccoli déjà-vu di ogni giorno ne ripresenteranno la memoria.

 

Ennio non è un testamento. Sembra che il percorso di Morricone non dovesse mai finire: anche dopo le delusioni, i passi indietro, i cambi di rotta, l’efficacia del suo metodo di lavoro ha sostenuto la continuità del suo operare fino all’ultimo. Più volte nel suo discorso il maestro torna a rivendicare il rispetto per il ruolo creativo del compositore: ogni volta che gli propongono di inserire musiche edite lui protesta e si ritira, perché il compositore non è un semplice consulente o un sincronizzatore. È un artista che scrive accanto al regista il resto del film che non si vede, ma si sente, pienamente.

Tornatore deve aver lavorato a lungo a questo documentario. Nel frattempo, molte delle voci interpellate sono scomparse, portandosi dietro una intera stagione della cultura italiana. Il metodo di lavoro dei compositori per il cinema è cambiato, come la stessa macchina creativa che porta alla produzione di film. Figure come quella di Morricone non potranno più esistere, e si capisce dalle parole di Hans Zimmer. E non c’è quasi niente del suo metodo che si possa realmente insegnare.

Ci resta dunque il suo monumento, e il monito su quel modo di gestire il tempo: l’attesa che precede e accompagna ogni emozione. Alla fine, è ciò che ogni grande compositore ha saputo inventare, da quando la musica esiste.

 

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