Autoritratti

8 Luglio 2013

Una giovane donna guarda se stessa e i propri figli attraverso l’obiettivo fotografico. Sono davanti a uno specchio che li contiene appena. Messi nella posizione della superficie riflettente, noi spettatori la vediamo guardarsi o meglio cercare e individuare la propria immagine attraverso la Rolleiflex che porta appesa al collo. Il suo è lo sguardo concentrato, interrogativo e non esibizionistico di chi si guarda per capire chi è, cosa sta facendo, in quali condizioni, con quali godimenti, festosità, fatiche, conflitti, rinunce.

 

 

Anastasia Chernyavsky – questo il nome della fotografa di cui osserviamo l’autoritratto – al contempo soggetto e oggetto della propria rappresentazione, si specchia per conoscersi o sapere di sé. E cosa vede? Che immagine le restituisce la macchina fotografica/specchio? Che immagine le restituiamo noi che la osserviamo attraverso il suo determinato, attivo guardarsi?
Quella di un corpo nudo, inquadrato dalla fronte alla coscia dalla doppia cornice della lente fotografica e dello specchio. Stretta a lei, sulla destra, una bambina di cinque o sei anni, a occhi chiusi. In braccio, a sinistra, un bimbetto di pochi mesi.
Noi la vediamo, ma è lei che si studia, che sceglie il modo di osservarsi e mostrarsi. Il contrario dell’esporsi passivamente.
Sullo sfondo, sfocato, si intuisce un interno domestico, il disordine della vita di tutti i giorni in presenza di bambini piccoli che vanno accuditi e guidati sul crinale sottile tra autonomia e educazione.

 

Guardo questa immagine che l’autrice, fotografa professionale, ha reso pubblica su Facebook e che Facebook ha rimosso, giudicandola potenzialmente ‘offensiva’ di alcune sensibilità. La rete l’ha moltiplicata all’infinito in nome della libertà d’espressione e di visione. Assolutismo e democrazia digitali automatici, reattivi, senza pensiero.

 

La guardo a Quincy, insieme a John Berger, raccontandogli di questo strano caso di pruderie sfociata in censura. In questa figura di donna con bambini – ne conveniamo entrambi – non c’è nulla che sia anche solo vagamente scabroso. Siamo di fronte a una “Madonna del latte” contemporanea: sobria, pudica, reale. I corpi sono nudi, ma non denudati ad uso dello spettatore; da uno dei seni della donna cola già o ancora qualche goccia di latte. Il piccolo sta per essere o è appena stato allattato. Madre e figli sono soli. Dietro o accanto a loro non c’è una figura paterna, come non c’è – per definizione – nell’iconografia  occidentale, dove la sacra famiglia è sempre costituita da una Madonna con bambino e da un’assenza, un vuoto, un’insignificanza. L’atmosfera non è drammatica, ma non è neppure serena.

 

È maledettamente seria. Cos’è che la rende così grave, solenne, in definitiva esemplare?
Il punctum è nella macchina fotografica, l’unico ‘accessorio’ che veste la donna a significare il suo occhio su se stessa e sul mondo, il rifiuto di essere puro oggetto o funzione inquadrati da Dio o dall’uomo. Che sia questo ardito sottrarsi al giudizio altrui, rivendicando in pieno la propria vicenda biologica e il proprio racconto di quella storia, a fare scandalo? Penso a altre due artiste, entrambe fotografe, che in passato compiono operazioni analoghe a quella di Anastasia Chernyavsky: la canadese Moyra Davey e l’italiana Lisetta Carmi.

 

Moyra Davey

 

La prima, in viaggio per lavoro poco dopo la nascita del figlio, per un ritardo dell’aereo che la deve riportare a casa si trova sola in una camera d’albergo col seno congestionato dal latte che preme. Inquieta, inquisitiva, si mette davanti allo specchio e osserva attraverso l’obiettivo fotografico la propria immagine riflessa. Ne esce una fotografia che, come quella di AC, farà il giro del mondo su internet. È una foto di scarso valore, quasi un’istantanea, ma è un formidabile tassello della propria narrazione di sé. Anche lì, come nella maternità di AC, ci sono solitudine, risolutezza e un’interrogazione pressante sul rapporto tra sé e il proprio corpo, tra sé soggetto di sguardo e sé oggetto/funzione di processi biologici (e sociali) incontrollabili e ingovernabili.

 

Lisetta Carmi

 

Nel 1966, su commissione della municipalità di Genova, Lisetta Carmi riprende invece un parto naturale. Il risultato è una straordinaria sequenza di sette immagini. Mettendosi nella prospettiva di chi aiuta il piccolo a uscire dalla vagina materna, in posizione frontale rispetto alla partoriente, la fotografa ritrae con innocenza e stupore un processo naturale di incantata purezza, incruento, serafico.

 

Eppure, ancora oggi, chi guarda queste ieratiche fotografie dal geometrico, composto nitore (impossibile non pensare ai dipinti di Piero della Francesca) tende a distogliere lo sguardo, a sentirle impudiche. Perché? Per eccesso di verità? Può, la verità, essere eccessiva? E se la si volesse semplicemente segregare nel privato, terreno smottante quando si impone senza esibizionismi sulla scena pubblica?

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