Un mistero senza soluzione / Boris Pahor, Oscuramento

17 Aprile 2022

Quel doppio omicidio era riuscito a togliere le parole perfino a uno scrittore di razza. Un romanziere come Fulvio Tomizza, vincitore dello Strega e del Viareggio, tre volte finalista al Campiello, acclamato in Austria con il Premio della Letteratura Europea. Sì, perché la barbara esecuzione dei due giovani antifascisti triestini della minoranza slovena Stanko Vuk e Danica Tomažič non si poteva raccontare con la scanzonata libertà che concede una storia inventata. Anche se erano passati 42 anni dalla loro morte, da quel 10 marzo 1944. Serviva un linguaggio secco, preciso, misurato. Del tutto privo, insomma, del riverbero delle emozioni.

       

Per questo Gli sposi di via Rossetti, pubblicato da Mondadori nel 1986, ancora oggi appare di gran lunga il romanzo più sofferto, irrisolto, oscuro, a cui Tomizza abbia messo mano nella sua lunga carriera di narratore. Tanto che lo stesso scrittore, nato a Giurizzani in Istria nel 1935 e morto a Trieste nel 1999, si sentì in dovere di chiarire, fin dalle prime righe, di trovarsi “alle prese con una materia che scotta”. Della vicenda, infatti, si preferiva ancora non parlare “per quel senso di turbamento che insorge di fronte a un destino particolarmente crudele o che si annida nei superstiti di una tragedia”.

     

Che cosa c’era di tanto scabroso in una storia vecchia di quarant’anni? È presto detto: Stanko Vuk e Danica Tomažič vennero uccisi a colpi di pistola, nel loro appartamento di via Rossetti a Trieste, da un commando di tre sicari. L’unico dato certo è che il regolamento di conti avvenne all’interno della comunità slovena stessa. Ma chi incaricò gli assassini di compiere la mattanza, rimane un mistero senza soluzione.

      

Per capire meglio la vicenda è necessario, allora, fare un passo indietro. E andare a leggere un romanzo, finalmente tradotto in italiano dalla bravissima Martina Clerici per La nave di Teseo, che era apparso 47 anni fa sulla rivista in lingua slovena Zaliv (Il Golfo). Pubblicato in volume appena nel 2009 dalla slovena Mladinska knjiga. Stiamo parlando di Zatemnitev, ovvero Oscuramento di Boris Pahor (pagg 476, euro 21). Terza parte di una trilogia fortemente autobiografica composta da Necropoli (Fazi editore, 2008) e da Una primavera difficile (Zandonai, 2009; poi, La nave di Teseo, 2016). Un lunghissimo viaggio nella vertigine delle violenze fasciste, nell’inferno dei lager nazisti dove lo scrittore triestino di lingua slovena venne rinchiuso come “politico” dal gennaio del 1944 fino alla liberazione, sopravvivendo alle spaventose condizioni di vita imposte ai prigionieri dei campi di Dachau, Natzweiler-Struthof, Markirch, Nordhausen, Harzungen, Bergen Belsen.

        

Pahor, che ha compiuto 108 anni, è uno degli ultimi testimoni di una Trieste diventata, dopo la fine della Grande guerra e il crollo dell’Impero Austro-Ungarico, laboratorio di estremismi politici e di pulizie etniche. A sette anni vide andare a fuoco il Narodni dom, la casa della cultura slovena di Trieste. Ospitata in pieno centro da uno splendido palazzo, disegnato dall’architetto Max Fabiani, venne data alle fiamme il 13 Luglio 1920 dalle squadracce di Francesco Giunta. Pochi mesi prima, l’avvocato toscano era stato inviato al confine orientale da Benito Mussolini. Il suo mandato preciso era quello di organizzare i fasci di combattimento.

        

L’episodio dell’incendio del Narodni dom, prima scintilla della lunga e feroce persecuzione scatenata dai fascisti contro gli sloveni del Friuli Venezia Giulia, è stato rivissuto da Pahor nelle pagine del romanzo Il rogo nel porto (Zandonai, 2008; poi La nave di Teseo, 2020).

Prima di aderire al Fronte di liberazione nel 1944, e assumere il ruolo di responsabile per la stampa nel comitato triestino, Pahor assistette incredulo alla caccia allo sloveno scatenata dalle camice nere. Una massiccia, sistematica eliminazione dei circoli culturali, delle associazioni che rappresentavano la minoranza a Trieste. Una feroce persecuzione contro chi dialogava nella propria lingua madre, svilita a “lingua dei barbari”. Tanto da fargli ricordare nel romanzo Qui è proibito parlare (Fazi editore, 2009) l’episodio raccapricciante di un maestro italiano ammalato di tisi che sputava in bocca ai bambini refrattari al divieto di esprimersi in sloveno.

       

Quella era la Trieste dove la stessa minoranza slovena, come del resto la maggioranza di italiani, albergava in sé un nutrito manipolo di uomini e donne compromessi con i fascisti, con i nazisti. Fu un prete collaborazionista del gruppo dei domobranci a denunciare Pahor, a farlo arrestare il 21 gennaio 1944. Lo scrittore, un mese dopo, salì su uno dei convogli diretti a Dachau. E da lì ritornò vivo sì, ma ammalato di tubercolosi e piagato nell’anima, dopo un lungo soggiorno in un sanatorio vicino Parigi.

         

Al suo rientro, Pahor trovò Trieste in balia di un futuro assai incerto. Separata dall’Italia, rivendicata a gran voce da Tito (“Trst je naš”, Trieste è nostra, era lo slogan più gettonato in Jugoslavia), amministrata come Territorio libero e indipendente da un governo di militari alleati, che tenne le redini del potere fino all’ottobre del 1954, la città rimase confinata per nove anni e 156 giorni in una sorta di limbo. Come se la guerra, per lei, non fosse mai finita.

       

Tragico sarà il destino di gran parte degli uomini dello Slovensko domobranstvo, la Guardia territoriale slovena che si era macchiata di una sciagurata sudditanza ai nazisti. Confinati dalle truppe inglesi a Klagenfurt in Austria, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i domobranci vennero consegnati ai partigiani di Tito. La maggioranza di loro fu giustiziata, nel maggio 1945, senza un regolare processo. I corpi occultati in cavità carsiche, miniere e cave. Si calcola che solo a Kočevski rog ne vennero uccisi dodicimila.

 

         

A complicare, se possibile, lo scenario triestino in tempo di guerra era la diffidenza di molti antifascisti nei confronti della componente comunista. Tra gli italiani, la resa dei conti più clamorosa e sanguinosa si sarebbe consumata il 18 febbraio 1945 alle malghe di Porzûs, nel Bosco Romagna in Friuli. Dove 17 partigiani della Brigata Osoppo, di orientamento cattolico e laico-socialista, vennero massacrati dai gappisti guidati da Mario “Giacca” Toffanin. Tra le vittime c’erano il diciannovenne Guido “Ermes” Pasolini, fratello minore di Pier Paolo, e Francesco “Bolla” De Gregori, zio dell’omonimo musicista.

         

La Trieste slovena, invece, vedeva contrapporsi i “rossi” del Fronte titoista, i “bianchi” che appoggiavano Edvard Kocbek e l’idea cristiano-sociale, i partigiani “azzurri” rimasti fedeli al governo monarchico in esilio. La resa dei conti si consumò in questo brodo di coltura fatto di sospetto, diffidenza e odio. A scorrere fu il sangue di Stanko e Danica, ammazzati a rivoltellate nel loro appartamento di via Rossetti insieme a un ospite casuale: tale Drago Zajc. Laureato in Filosofia e suonatore di violino, era stato mandato lì da un prete forse per perorare l’adesione di Vuk al Fronte di liberazione nazionale, in cui erano confluiti cristiano-sociali e liberali di sinistra sotto la guida dei partigiani comunisti.

         

I motivi reali della missione punitiva nei confronti dei coniugi Vuk, e del malcapitato Zajc, rimangono ancora oggi un enigma. Tomizza, in Gli sposi di via Rossetti, puntava il dito contro i partigiani “azzurri”. Secondo lo scrittore, era proprio ai seguaci della monarchia in esilio che appariva più pericolosa l’alleanza del cattolico Vuk con il Fronte di Tito. Quindi, sarebbero stati loro a pronunciare la sentenza di morte e inviare i tre sicari.

          

Altri, invece, hanno sempre pensato che fossero stati i “rossi” ad armare la mano degli assassini. Ricordando che il loro compagno Pino Tomažič, fratello di Danica, fucilato il 15 Dicembre 1941 al Poligono di tiro di Opicina in seguito alla condanna emessa dal Tribunale speciale fascista, aveva espresso tutto il suo disappunto per il matrimonio della sorella con il cattolicissimo Stanko. Tanto da affidare a una poesia la sensazione di essere stato tradito: “Brucia oh brucia il coltello nella piaga / ma la fede resta intatta”.

        

Oscuramento riporta il lettore agli anni più bui della storia del ‘900. Al centro del romanzo c’è Radko Suban, l’alter ego narrativo di Pahor già protagonista di Dentro il labirinto (Fazi, 2011) e Una primavera difficile. Una sorta di avatar di carta a cui è concesso raccontare quello che per anni si è soltanto bisbigliato a Trieste. Cioè che lo scrittore stesso ha vissuto molto da vicino la storia degli sposi di via Rossetti. Perché mentre Stanko Vuk, ribattezzato nel libro Darko Ličen, era imprigionato in una cella di Fossano, sua moglie Danica, chiamata Mija, si innamorò in maniera totale di Radko-Boris. Tanto da desiderare di fuggire insieme da Trieste per avere un figlio.

        

Seguendo i passi perduti di quell’amore intenso, limpido e sincero, anche se nato all’ombra del tradimento di un vincolo matrimoniale, Pahor traccia in Oscuramento un ritratto minuzioso e potente della Trieste lacerata dalla guerra, dalla violenza fascista e nazista, da un clima di sospetti incrociati, in cui era difficile fidarsi anche dei propri vicini di casa. Si sofferma a ragionare a lungo su quanto fosse complicato scegliere da che parte stare, in un momento storico in cui il sogno di liberarsi dal giogo del Reich era minacciato dalla sempre più evidente prepotenza dell’ideologia comunista.

         

“Radko Suban seguitò a ragionare in questi termini – scrive Pahor –: e pensare che certi sloveni si sono schierati dalla sua parte per contrastare l’avanzata del bolscevismo. Ebbene, mettiamo il caso che il nazismo non si esaurisca, cosa ne sarà del loro patriottismo? Chi salvaguarderà la loro identità nazionale? Dove la si conserverà? Solo in qualche biblioteca internazionale. Nell’Enciclopedia Britannica. Ovvio, nessuno auspica il consolidarsi del comunismo, ma non per questo ci si mette al servizio di quel Reich che, dal canto suo, ha già intrapreso la demolizione della società slovena. Cosa, questa, che non rientra nei piani del comunismo, almeno per il momento. Non si spiega altrimenti che poeti e intellettuali di ben altre vedute abbiano scelto di far lega con i comunisti”.

          

Ecco: in quel momento, per gli sloveni era necessario appoggiare la lotta armata dei partigiani comunisti. Perché non c’era una vera alternativa. Però, al suo rientro dall’odissea dei lager nazisti, Pahor avrebbe vissuto sulla propria pelle la delusione di vedere Tito tradire il sogno libertario della lotta al nazismo. E trasformare la Jugoslavia in una dittatura liberticida. Dove il leader dei cristiano-sociali Kocbek venne prima coinvolto nella vita pubblica, per essere poi ridotto al silenzio, sorvegliato in maniera ossessiva, emarginato dalla scena culturale e sociale.

          

Nel 1975, lo stesso Pahor, insieme all’altro scrittore triestino di lingua slovena Alojz Rebula, potè sperimentare quanto fosse sgradita la libertà di pensiero nella Jugoslavia di Tito. Non appena venne pubblicata sulla rivista culturale “Zaliv” una lunga intervista in cui Kocbek condannava esplicitamente il massacro dei domobranci, immediata scattò una violenta campagna di diffamazione contro i tre intellettuali. Tanto che a Pahor fu impedito a lungo di varcare il confine che separava Trieste da Lubiana, mentre i servizi segreti jugoslavi lo tenevano sotto sorveglianza. Fino a perquisire la sua casa di Trieste nei momenti in cui lui si assentava.

         

Solo dopo l’intervento pressante di Heinrich Böll, lo scrittore tedesco di Opinioni di un clown, Foto di gruppo con signora, Casa senza custode, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1972, il regime jugoslavo rallentò la pressione psicologica sul vecchio Kocbek. Il poeta sarebbe morto pochi anni dopo, nel 1981, in seguito a una lunga malattia.

          

Nel 2010, la casa editrice triestina Mladika ha raccolto in volume le Lettere al fratello in prigione e altri scritti Pisma bratu v zapor in drugi dopisi di Danica Tomažič. Dove, in una nota finale, Pahor spiega che la giovane donna “temeva soprattutto quelli che la consideravano come traditrice, che aveva colpito alle spalle il fratello e rinnegato i compagni, che erano sloveni, in parte anche italiani”. Ma davvero i comunisti avrebbero ammazzato la sorella di un loro compagno, assurto a eroe dell’antifascismo dopo la fucilazione, soltanto perché aveva sposato un fervente cattolico?

          

Tante ipotesi, nessuna certezza. Nemmeno Oscuramento, di cui si è attesa a lungo l’edizione italiana, fornisce una risposta chiara all’enigma dell'assassinio di Stanko e Danica. Il romanzo, però, ha il sapore forte di una rivendicazione d’identità da parte del popolo sloveno di Trieste. E non esita a dare voce al ricordo di un’educazione amorosa contrastata, forse scandalosa, di certo irrinunciabile. Che aiutò Radko e Mija nella finzione, Boris e Danica nella realtà, a comprendere e accettare la necessità di rispettare, di assecondare una condizione umana fatta di passione e di intima attrazione, anche quando il mondo corre incontro alla catastrofe.

           

Sopra la ferocia dei nazisti, il dogmatismo dei cattolici e dei comunisti, l’implacabile divenire della Storia, il complicato destino di Trieste lacerata nelle sue multiformi anime culturali, linguistiche, ideologiche, religiose, si staglia su Oscuramento una figura di donna. Quella della giovane Mija, la controfigura di Danica, fragile eppure animata da un inestinguibile sete di vita. Bella, elegante, arguta, intelligente e frivola al tempo stesso, piena di curiosità, incapace di rimanere prigioniera di steccati mentali e di divieti morali. Una ragazza con gli occhi spalancati sul futuro, alla quale una mano assassina impedì di correre lontano da quegli anni terribili.

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