Brand Elio Fiorucci
La mostra dedicata a Elio Fiorucci (1935-2015) in Triennale, la seconda dopo quella del 2007, si articola su molteplici livelli che si intrecciano e si rimandano a vicenda, componendo un sistema aperto che ben riflette l’opera di Fiorucci, tutta improntata a un fecondo divenire: gioco, grafica, oggetti, iniziative, viaggi e soprattutto relazioni sociali che uniscono persone provenienti da molte parti del mondo e che comunicano senza altra lingua comune che non sia la passione.
Scrive nel saggio introduttivo del catalogo la curatrice Judith Clark che il gruppo di lavoro, da lei coordinato per oltre due anni in preparazione della mostra, ha prima di tutto inteso far emergere la voce di Elio Fiorucci, letteralmente e metaforicamente; è come se lui stesso ci conducesse lungo un percorso non solo cronologico, ma soprattutto concettuale. Ne emerge il legame profondo del mondo Fiorucci con l'innovazione estetica, con la cultura e con la città. Questa prospettiva consente alla curatrice di mettere in luce, grazie all’allestimento di Fabio Cherstich, le interazioni tra storia sociale, analisi culturale e rappresentazioni della moda in un contesto che, pur avendo il suo epicentro a Milano, si estende a dimensioni globali. E, al contempo, offre ai visitatori l’opportunità di superare visioni riduttive, restituendo alla moda e alla figura di Fiorucci tutta la necessaria complessità. Elio Fiorucci, infatti, è indissolubilmente legato alla moda, come sottolinea Marilia Pederbelli nel suo saggio in catalogo, anche se non nel senso tradizionale del termine. Non fu stilista — il fenomeno dello stilismo milanese emergerà solo nei primi anni Settanta, mentre il primo negozio Fiorucci apre a Milano in Galleria Passarella nel 1967 — né tantomeno sarto. Ciò che importa è la sua straordinaria capacità di immaginare e promuovere una visione d’insieme.
Fiorucci, com’è noto, inizia la sua attività importando abiti, accessori e idee dalla Londra di Soho e di Chelsea e in particolare dal celebre negozio Biba, simbolo della Swinging London e della rivoluzione giovanile degli anni Sessanta. I racconti dei collaboratori di quella fase iniziale — le valigie cariche di meraviglie con cui ogni settimana riempivano il negozio di Milano in San Babila— continuano a stupire per la libertà che contraddistinse Fiorucci fin dagli esordi. Mostra e catalogo in questo senso lavorano in perfetta sintonia: Barbara Hulanicki, la creatrice di Biba, in una conversazione al telefono con Judith Clark, ricorda quei tempi folli: la creatività di Elio e del suo gruppo, ma anche la straordinaria flessibilità e la capacità dei piccoli produttori italiani di fare anche ciò che non avevano mai fatto. La sua intervista corregge il racconto un po’ stereotipato di una Milano grigia e triste, in cui Fiorucci, grazie ai suoi viaggi a Londra, e in altre capitali più avanzate culturalmente, abbia importato colore e fantasia. Il riferimento di Biba ai produttori di abiti italiani è significativo. Fiorucci stesso proviene da una famiglia di piccoli commercianti di pantofole che avevano un negozio in via Torino a Milano. Lui non era un designer, abbiamo detto, ma conosceva bene il sistema produttivo italiano che in Inghilterra non c’è stato o non c’era più in quegli anni, e intuisce la rilevanza tra design e produzione che avrebbe portato allo stilismo italiano. Il “made in Italy” poi divenuto una formula ingombrante, era a quei tempi, in realtà, il “fatto in Italia”, concetto chiave elaborato da Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo in un libro del 2006 con il titolo, appunto, Fatto in Italia e dedicato a tutto ciò che in quegli anni ha preceduto l’ascesa dello stilismo e che Fiorucci ha contribuito a creare, come è evidente nel capitolo di Luisa Valeriani in quel libro, intitolato “Colazione da Fiorucci”.
Che poi Fiorucci non fu stilista è una visione che andrebbe se non rivista, perlomeno problematizzata, come ben emerge dalla mostra. Non fu stilista nel senso che questo termine verrà ad assumere e cioè il fulcro di un sistema preciso di ideazione, produzione e distribuzione, ma certo non si limitò a importare e a vendere abiti e accessori. Basti pensare all’invenzione del jeans morbido ed elasticizzato, in diverse sfumature di azzurro, che trasformò un indumento da lavoro tipico americano un po’ rigido e asessuato, in un capo sensuale e aderente alle forme del corpo, amatissimo dalle ragazze, anche grazie alle celebri immagini di Oliviero Toscani e a tutte le novità che altri inventavano per lui o meglio, insieme a lui, come gli stivaletti di gomma colorati, i sandali di plastica a iniezione di Nanni Strada e le collezioni di Cinzia Ruggeri, Mimma Gini, Pupi Solari, per citarne solo alcune. In esposizione troneggia un magnifico jeans in plastica trasparente, datato 1978, che sottolinea la rilevanza di questa invenzione fiorucciana e i jeans dipinti a mano da Keith Haring nel 1983. Come sottolinea anche Maria Luisa Frisa in uno dei saggi del catalogo (gli altri, nella sezione Ricerca, sono di Marco Sammicheli, Marilia Pederbelli, Giannino Malossi), Fiorucci può essere considerato uno stylist, cioè colui che sa combinare abiti e accessori per creare un senso nuovo, un linguaggio inedito. L’ultima delle dieci sezioni in cui la mostra si articola (Gli inizi, Nuovi mondi, La crescita, In viaggio, Il sistema della moda, Le Pin-up, Arte e design, Tutti dappertutto, Un nuovo idealismo), è intitolata Fashion, un’installazione ideata da Fabio Cherstich, intesa a mettere in scena la concezione della moda di Elio Fiorucci.
Se è vero, inoltre, che Milano era ancora una città borghese e trattenuta, rispetto a Londra o a New York, è anche vero che c’erano persone e attività ben al di fuori dagli schemi di un’Italia provinciale. La mostra, evidenziando la sensibilità geniale di quel sismografo vivente che fu Elio Fiorucci, e delle innumerevoli persone che come lui e intorno a lui coltivavano la ricerca di nuove estetiche e di nuovi stili di vita e di negozi dove in cui ritrovarsi, fossero a New York, a Milano, a Londra, a Tokyo, ci mette di fronte ai molti momenti di (finora) irripetuta libertà creativa che hanno caratterizzato gli anni Settanta. La serie di nomi che hanno avuto a che fare, in diversi modi, con Elio Fiorucci è impressionante – dai più noti perché parte della storia del design, dell’architettura, della grafica e dell’arte, come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Italo Lupi, Sauro Mainardi, Aldo Cibic, Miche De Lucchi, per citarne solo alcuni, ad altri divenuti nel tempo meno noti, ma ben presenti nella memoria di chi ha vissuto a Milano in quegli anni, come altrettanto formidabili per assaporare l’eccezionalità della Milano di Fiorucci.
Uno dei meriti della mostra, dicevo in apertura, è appunto quello mettere in evidenza le diverse porte che Fiorucci apriva, i mondi che metteva in comunicazione grazie al suo modo di procedere e di creare. Mentre si percorrono le sezioni, organizzate a partire da snodi significativi nella vita di Fiorucci e nella storia del suo marchio, si può celebrare Milano, come l’istituzione Triennale si propone autorevolmente di fare — offrendo in contemporanea alla mostra di Fiorucci, altre due mostre dei milanesi Alessandro Mendini e Monica Bolzoni, che in diversi modi hanno avuto a che fare con Fiorucci — sia comprendere le connessioni culturali della sua città con altre parti del mondo, con personaggi come Andy Warhol, che si esibì nella vetrina del negozio Fiorucci di New York, firmando copie di Interview e di Keith Haring che fece dei murales per il negozio di Milano.
Fiorucci viaggiava moltissimo, con la mente e con il corpo; i viaggi erano parte integrante del sistema Fiorucci, come è evidente in tutta la mostra, e come nella sezione dedicata – in cui si possono ammirare le agende di viaggio di Mirella Clemenchigh, buyer di Fiorucci, nonché curatrice, insieme a Antonio Lopez, del negozio di New York, alle cartoline e collage ricevuti e inviati e i continui riferimenti a luoghi esotici o familiari, alle illustrazioni di eliche, aerei, bus, auto, distributori di benzina americani di Maurizio Turchet e Augusto Vignali — tutti i colori e le forme del mondo, amati da Elio e dalla sua famiglia allargata.
La capacità di Fiorucci di vedere il nuovo e di connettere gli eventi, e soprattutto intuire l’impatto del consumo sugli stili di vita non era sfuggita all’industria italiana: la Montedison, che avrebbe acquistato una percentuale dell’azienda Fiorucci nel 1974, lo volle alla direzione del centro di ricerca tessile, inaugurato nel 1973. Di questo, e del rapporto con l’industria italiana che capiva l’innovazione e il ruolo dei consumi, tratta il saggio di Giannino Malossi in catalogo, Le nostre idee sono nella testa di tutti. L’impresa Fiorucci continua e si dipana nei diversi snodi della mostra, tra cui Dxing, l’osservatorio sulle tendenze e sui consumi culturali, operativo dal 1976 al 1981, diretto da Giannino Malossi. Non mancano i riferimenti alla celebre Giulietta by Fiorucci con le ruote azzurre e la verniciatura a buccia d’arancia, prototipo Alfa Romeo progettato da Andrea Branzi e da Ettore Sottsass.
La cessione del marchio Fiorucci avvenne nel 1990, dopo alcune traversie, cui fece seguito la creazione di Love Therapy nel 2003 in cui la vena animalista e di naturalismo panico di Elio Fiorucci — che già si era espresso contro le crudeltà verso gli animali, diventando vegetariano e presagendo una moda cruelty free — trova la possibilità di esprimersi ancora più apertamente. Nella sezione della mostra Un nuovo idealismo è esposta una serie di manifesti che illustrano l’interesse animalista di Elio Fiorucci: le campagne anticaccia, quelle per la protezione delle foche uccise per le pellicce, quelle intese a sollevare l’attenzione sull’estinzione della fauna selvatica, tutte all’insegna di una terapia dell’amore.
Con questa mostra Triennale non solo celebra Elio Fiorucci, ma rinnova implicitamente l’urgenza di dotare Milano di un Museo della Moda, una sede dedicata a custodire e valorizzare il patrimonio creativo della città.
Elio Fiorucci, A cura di Judith Clark. Progetto di allestimento di Fabio Cherstich
Triennale Milano, fino al 16 marzo 2025
In copertina, Elio Fiorucci con due modelle, 1974, foto Giorgio Lotti, courtesy Mondadori Portfolio.
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