Ragione, ragione poetica e creatività / Cambiare è possibile

8 Dicembre 2016

Accade nel Talmud che rabbi Raba crei un omino che è in grado di fare tutto quello che fa un essere umano, ma non sa parlare. Quando rabbi Raba manda la sua creatura a rabbi Zeira, quest’ultimo invece di essere contento e di apprezzare il gesto, s’indigna e la distrugge, esclamando: “La creazione dell’uomo è un’esclusiva di Dio!”. Non sono poche le implicazioni di questa storia ma una domanda appare in evidenza. È solo la creazione dell’uomo ad essere esclusivo appannaggio di Dio, o la creazione tout court? Interrogandosi sulle ragioni per cui siamo così poco propensi a utilizzare in modi almeno in parte efficaci e continui la nostra capacità creativa, non si può non chiedersi per quali motivi ce ne priviamo. Ovvero, sembra importante esplorare che cosa ci porta a fare un uso così limitato della disposizione a creare l’inedito e a uscire dai vincoli delle cornici del consueto. Ha forse ragione Albert Camus, che nei Taccuini scrive: “Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che l’esprime”. 

 

Se si cambia qualcosa cambia tutto e cambiamo anche noi stessi; è probabilmente questo che ci fa paura: la forza rivoluzionaria di ogni cambiamento. Cambiare, infatti, vuol dire prima di tutto cambiare qualcosa della propria mente e del proprio modo di essere e pensare. Le vie del cambiamento dei significati, del gusto, delle idee, dei simboli, delle preferenze hanno a che fare con l’esperienza estetica e con quel particolare tipo di ragione che non è razionale o affettiva, ma poetica, cioè relativa alle nostre possibilità di creare l’inedito, di inventare quello che prima non c’era. Accedere alla creatività non è facile e spesso rinunciamo prima di cominciare, presi dall’angoscia della bellezza, come l’ha definita Luigi Pagliarani e come abbiamo cercato di proporre nel contributo sull’autoinvidia. Un’angoscia di non essere capaci di realizzare la bellezza del progetto che noi stessi abbiamo concepito. Eppure di quell’accesso siamo capaci. Così come il successo di un witz, di un motto di spirito, di una battuta, è legato non solo al suo carattere intrinsecamente spiritoso, ma anche allo spiazzamento e alla novità che apporta, allo stesso modo nella nostra esperienza noi possiamo dar vita al nuovo, all’inedito, generando lampi nel buio della consuetudine, o squarci nell’ordine di senso costituito. Non solo, ma per fare il nuovo, quello che prima non c’era, la possibilità ce la porge l’altro. Come l’altro è preliminare alla nascita di ognuno di noi in quanto soggetto e alla nostra individuazione, con i suoi assensi e i suoi rifiuti, così l’esito di un atto creativo dipende dall’altro e dal suo riconoscimetno. Tutto ciò connette intimamente la ragion poetica e la generatività alla qualità del legame sociale.    

 

Ph Kenro Izu.

 

La creatività, carattere distintivo specie-specifico di homo sapiens, è uno dei fenomeni più citati ma, allo stesso tempo, meno conosciuti scientificamente. Le verifiche sperimentali della sua origine e della sua natura non sono molte, pur a fronte di sistematiche manifestazioni storiche, risalenti in non pochi casi al tempo profondo, delle sue manifestazioni e degli esiti ed effetti di quelle manifestazioni.

Alla capacità creativa, intesa come capacità di comporre e ricomporre in modi, almeno in parte, originali, repertori disponibili, la storia evolutiva della nostra specie deve buona parte delle proprie esperienze e delle proprie forme di vita, nel bene e nel male. La creatività è il precursore di ogni innovazione possibile e non ha a che fare con il problem-solving.

 

Ogni volta che ci disponiamo ad affrontare e a risolvere un problema, noi ci muoviamo in un habit costituito che funge da vincolo strutturale alla nostra azione, al nostro movimento e al nostro pensiero. Le volte in cui riusciamo a sospendere l’applicazione “concreta” di un processo nel contesto consueto, iniziamo a esprimere percorsi di creatività possibili, in quanto stiamo dando origine a una nuova visione di quello che fino a quel punto avevamo visto in un solo e unico modo. Il problem solving, utile per risolvere i problemi immediati, non si mostra in grado di preparare il futuro. Gli atti creativi possono tradursi in innovazione solo a condizione che siano riconosciuti e socializzati senza che venga neutralizzata la loro discontinuità specifica.

 

Per questo le innovazioni radicali, come quelle di Marconi o Edison, sono rare.

Le innovazioni radicali o di rottura nascono da una visione in grado di coltivare e allevare gli esiti e le manifestazioni di uno o più atti creativi. La visione può essere intesa come la capacità di guardare il mondo e di vedere quello che gli altri non sono in grado di vedere e che, comunque, non hanno ancora visto. 

La costruzione di una visione inedita è uno degli asset allo stesso tempo più importanti e rari del nostro tempo.

La creatività e l’innovazione sono strettamente connessi ai contesti e agli humus, ai climi contingenti, muovendosi tra habit e rotture. Dove gli habit, come sappiamo fin da William James, svolgono una funzione di neutralizzazione delle discontinuità e di perseverazione del conformismo e le rotture favoriscono l’affermazione delle discontinuità anche radicali.

 

Ph Kenro Izu.

 

Se il clima tradizionale con la sua carenza di conoscenza e informazione non era in grado di alimentare la creatività e l’innovazione, se non in misura limitata, anche le società attuali con la loro ridondanza informativa possono essere un ostacolo all’emergere di effettivi spazi creativi. 

Dare un senso al quadro informativo ricco e complesso, significa creare una visione in grado di accogliere gli atti creativi, ma anche di alimentarne la manifestazione. Un processo di rottura del sense-making tradizionale, per favorire l’emergere di uno discontinuo e appropriato può consentire di andare oltre gli schemi del passato e del presente, per immaginare quello che ancora non c’è. 

Avere una visione non è di per sé sufficiente. Le idee visionarie sono abbastanza frequenti, mentre la loro effettiva realizzazione è decisamente rara. La realizzazione si misura con ostacoli cognitivi, affettivi e relazionali; richiede coraggio, forza di volontà e impegno, a volte molto elevati. Il fattore tempo è una delle variabili critiche, soprattutto per affrontare le resistenze e le difese che il cambiamento e l’innovazione lasciano emergere. 

 

La conoscenza scientifica sulla creatività e sulla formazione delle visioni non ci fornisce risposte definitive, anzi, ci dà indicazioni parziali e provvisorie.

È tuttavia possibile comporre una mappa, seppur parziale, delle conoscenze disponibili su come la specie umana crea l’inedito, come è giunta alla finzione che è alla base della creatività, e sui vincoli e le possibilità di trasformare un atto creativo in innovazione. Anche i fallimenti dell’innovazione possono essere fonte di conoscenza e di apprendimento utili. Spesso la spinta creativa viene preventivamente censurata per adeguarsi a questioni di problem solving o ad affrontare problemi immediati e pratici. Simili orientamenti possono risolvere problemi immediati ma non certo preparare il futuro. 

Così come è frequente l’idea che la creatività e l’innovazione siano il prodotto di sofisticati metodi analitici e processi strutturati. Nella verifica sperimentale e negli studi sui processi creativi appare sempre più evidente il ruolo dell’intuizione. Il rapporto tra intuizione e visione appare decisivo e capace di generare la formulazione di atti creativi e di ipotesi innovative. 

 

È necessario esplorare gli atti intangibili del pensiero e cogliere le dinamiche cognitive e affettive che presiedono alla discontinuità dell’intuizione e della creatività. 

Una società sostenibile per noi esseri umani e per il sistema vivente di cui siamo parte può scaturire solo da visioni che sappiano guardare oltre l’oggi e i problemi immediati e pratici, esplorando le frontiere della creatività. L’atto della creazione è una nostra possibilità, come mostra l’analisi fatta fin da alcuni anni fa da Arthur Koestler in L’atto di creazione.

 

Al centro dell’attenzione bisognerebbe porre il rapporto tra persistenze, cambiamenti ed esperienza estetica.

Che cosa sappiamo per ora dell’esperienza estetica e  della mente umana in generale? Che cosa sappiamo, inoltre, delle correlazioni tra le dinamiche dell’esperienza estetica e i cambiamenti nei significati e nel gusto? Non solo non sappiamo molto, ma tendiamo a relegare l’esperienza estetica a quel particolare tipo di situazione in cui qualcuno si trova mentre osserva un’opera d’arte. Più raramente consideriamo l’estensione di quella esperienza nella nostra vita. In questo modo non riconosciamo la rilevanza dell’esperienza estetica ogni volta che apprendiamo, quando cambiamo idea, o quando ci troviamo di fronte a una trasformazione dei simboli e dei gusti; ma anche quando intuiamo una nuova ipotesi scientifica o una trasformazione sociale e politica possibile. In tutti questi casi si interrompe e si ri-ordina il nostro legame col mondo. Un’analisi dell’esperienza estetica è perciò in primo luogo una via per analizzare il cambiamento di punto di vista, i nostri vincoli e possibilità di cambiare idea, l’emergere di processi e risultati innovativi. In una parola l’azione della ragion poetica.

 

Nonostante molte ricerche svolte negli ultimi anni consentono di partire dalla consapevolezza che l’assuefazione tende a prevalere sull’esplosione nel corso del tempo  – la tendenza predominante è infatti la conservazione dell’ordine esistente e il conformismo tende a prevalere sul cambiamento di idee, di simboli e di preferenze – come mostrato nel contributo sul conformismo  – nonostante questa propensione prevalente, l’esplosione perdura; si manifesta, inattesa ma ineluttabile e rompe la forza dell’abitudine, rivoluziona l’ordine simbolico e manda in rovina il senso consolidato. È la ragion poetica che cerca il suo spazio e lo trova, mostrandoci che cambiare è possibile. Questa è una delle suggestioni più potenti che viene a noi dall’opera intera di Maria Zambrano e, in particolare da Il sapere dell’anima.

 

Come musica che ci raggiunge non senza turbare e senza violare in una certa misura il nostro stato emozionale, e che, se fossimo invulnerabili, non troverebbe via per penetrare in noi e fecondarci con la sua fertile armonia, alla stessa maniera nell’articolata e incerta dinamica delle relazioni noi siamo raggiunti dagli altri nell’infinito gioco di autonomia-dipendenza, in quanto apriamo spazi per accoglierli, e in quel vulnus loro entrano per divenire almeno in una certa misura, e magari per un certo tempo, noi. Entrano in parte incontrandoci e in parte ferendoci, in parte confliggendo e in parte cooperando con noi, laddove non si dà, probabilmente, un incontro senza violazione e non si dà una cooperazione senza conflitto. Se per conflitto si intende l’incontro generativo tra differenze e non l’antagonismo e la guerra, come pare opportuno intendere, e come proposto nel contributo sul conflitto per DoppioZero. Il conflitto che principalmente è sotteso alla ragione poetica, a quella ragione che mette di fronte al vuoto che può essere generativo a patto di tollerarlo e contenerlo facendolo lavorare in noi, è il conflitto estetico. Capace di agganciare la nostra immaginazione, nel mentre elaboriamo l’ambiguità tra autonomia e dipendenza, quel conflitto può diventare generativo.

 

A permettere questa possibilità non è tanto la ragione razionale e calcolante, né quella affettiva che ci tiene perlopiù legati al consueto rassicurante, bensì è la ragione poetica, quella che si basa sull’azione, sul fare qualcosa che prima non c’era. Potremmo allora chiamare ragione poetica la via per la quale l’unicità di ognuno risuona con la molteplicità della vita. La risonanza implica la vulnerabilità, la disposizione a farsi raggiungere. Sentire è essere vulnerabili. Provandoci possiamo constatare come sia possibile accreditare un’interpretazione e una prassi relazionale generativa della vulnerabilità. Qualora almeno per certi aspetti lo fosse, avremmo trovato una via in più per avvicinarci alla ragione poetica, a capire come si esprimono le nostre potenzialità, come cioè manifestiamo le nostre forme vitali, come le chiama Daniel Stern nel libro omonimo, Le forme vitali; ovvero come accada che riusciamo a generare, creandolo, quello che prima non c’era, elaborando l’angoscia che la bellezza del solo concepirlo ci produce; come, insomma, facciamo i conti con l’amore e il timore della bellezza.

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