Speciale
Campioni. Giustificazione non petita
Accusatio manifesta. Facile, facilissimo il ruolo dell’accusatore: di fronte a una nuova rubrica di poesia in Rete. Col fiorire della bloggherìa indiscriminata, da un decennio a questa parte, per non parlare dell’universale “statistica” (da status) più di recente incoraggiata e prescritta dai social network (nei romanzi distopici del Novecento ci si ingegnava a fanta-tecnologicamente immaginare con quali modalità le Società di Controllo del futuro sarebbero riuscite a Sorvegliare e Punire i loro sudditi: ora che il paradiso collettivista lo abbiamo finalmente conseguito, sappiamo che l’uovo di Colombo consisteva nel fare in modo che i sudditi stessi, compiaciuti, si esibissero da sé allo sguardo del Panottico), il Narciso di massa ha realizzato, alla lettera più avvilente, un altro pronostico che pareva allora paradossale e, a posteriori, s’è rivelato semplicemente profetico: quello di un’antologia di ormai quasi quarant’anni fa, Il pubblico della poesia, che con sarcasmo registrava come il pubblico dei poeti tendesse ormai a coincidere con lo stuolo dei poeti medesimi (o aspiranti tali).
Basta appunto farsi un giro in Rete, e incauti googlare il termine più abusato e necessario che ci sia – poesia, appunto –, per concludere che, davvero non con un bang, un mondo è finito senza che ce ne fossimo accorti: il mondo dei confini, dei livelli e insomma di quelle distinzioni di cui Pierre Bourdieu ci ha sì insegnato a diffidare ma che, una volta cadute come i vecchi muri, hanno fatto presto a farci rimpiangere la padella mentre, anime in pena in un grigio sabbione indistinto, ci avvoltoliamo nella brace.
Se tutti sono oggi in grado di autopubblicarsi, e si ingegnano a farlo nei modi più accattivanti e ruffiani, chi mai “perderà tempo” a leggere il proprio vicino di loculo virtuale? Si realizza davvero, col popolo sterminato degli autoproclamati poeti telematici, l’incubo dell’«autismo corale» – come ha definito le pratiche della Rete un poeta autentico che della Rete abusa a sua volta, Franco Arminio. Todos caballeros e, dunque, nessuno più riconosciuto tale: perché nessuno più legge. O, più precisamente, nessuno è più in grado di leggere. L’arte del commento (arte si fa per dire) che proliferante infesta gli stessi cespugli telematici sta, a quella che una volta si chiamava critica, come l’ars rhetorica dei pellegrini verseggianti d’oggidì sta a quella di un Gottfried Benn.
Si dirà che in questo lamento non c’è nulla di nuovo. Così come è sempre esistito lo pseudo-romanzo da classifica, il Monnezzauro Rex che troneggia su tutte le pile negli showroom in cui si sono trasformate le librerie di catena, è sempre esistita la figura patetica del preside di provincia che, alle soglie della pensione, trepidante stampa le poesiole dei tempi del suo liceo, si commuove a rileggerle, con fare principesco ne fa omaggio a famigli e clientes (se non ha la megalomania di fondare, all’uopo, riviste e collane). E così come la pseudo-editoria di mercato non ha mai potuto impedire che i veri narratori si facessero prima o poi strada (e che oggi si legga Svevo, in luogo di Virgilio Brocchi), pure la vanity press c’è sempre stata, senza aver mai fatto male a nessuno. Non ha mai impedito di riconoscere cioè – magari a distanza – i veri valori: quelli degni di essere condivisi e tramandati. È circostanza nota quella per cui quando nel 1916, fra una trincea e l’altra, Ungaretti si auto-pubblica Il porto sepolto in ottanta esemplari, passano poche settimane e tutti i poeti e i critici del Belpaese non fanno altro che scriversi l’uno con l’altro tessendo le lodi del Nuovo Autore così ammesso nel Parnaso.
È ancora la retorica del Tempo Galantuomo, insomma: che però, come quella relativa alla narrativa, fa riferimento – appunto – ad altri Tempi: oltre che ad altri Galantuomini. Tanto l’una che l’altra si fondano sul presupposto, smentito dai fatti con abbondanza di evidenze, che esista ancor oggi una Società Letteraria in grado di riconoscere l’Ungaretti – o lo Svevo del caso (il quale ultimo, per la verità, qualche fatica in più la fece, com’è noto, a farsi riconoscere: e, non fosse stato per James Joyce e Valery Larbaud, chissà come sarebbe andata a finire…). Mentre è evidente come ad essere finita, e da un pezzo, sia appunto tale Società fondata sulla distinzione. Se nessuno più viene educato a Distinguere, se la stessa Scuola e la stessa Università – coatte alla demagogia dalla numerocrazia imperante nella Sacra Distribuzione delle Risorse – si sentono chiamate a farlo, in nome di quale superstizione si presume che tale Distinzione verrà a prodursi in un qualche radioso futuro? Se non ci muoviamo concretamente noi, qui e ora, nessun Valore verrà trasmesso ai nostri cari Posteri: e in futuro, esattamente come oggi, a contare saranno solo i numeri.
Beninteso non è il caso di rimpiangerla, quella Società. Si fondava su privilegi di casta (oltre che di censo) rigidissimi, su riti d’ammissione (e di esclusione) crudeli quanto più taciti (ne hanno saputo qualcosa gli outsider che – come Dino Campana – davvero hanno dovuto sfidare il Tempo perché venisse, finalmente, il loro tempo). Ma, criticabile quanto si voglia, una Distinzione allora esisteva.
Oggi, dovremmo tutti insieme lavorare per fondarne una nuova: basata su criteri diversi da quella perenta, si capisce, e tutta da inventare. L’unica cosa che appare certa è che, senza di essa, non si possa stare a lungo. Pena la fine, pura e semplice, di quella cosa che a tutti noi piace e che. in mancanza di meglio. continuiamo a chiamare Letteratura.
La Rete, come recita l’adagio spesso parafrasato da Hölderlin che – ha avvertito però una volta con sarcasmo Daniele Giglioli – è l’ultimo rifugio dei disperati, se è il luogo del Pericolo è anche il luogo della possibile Salvezza. È sulla Rete che – una volta superato lo sbarramento dell’autismo corale – si può ancora fare critica, cioè provare a scommettere su nuove Distinzioni: laddove i canali cartacei una volta impiegati dalla critica (editoria accademica, saggistica per lettori Distinti, riviste specializzate, pagine culturali di mass media generalisti), come ahiloro sanno coloro che hanno avuto in sorte di vivere a cavallo dei due Mondi, ormai la critica l’hanno espulsa da tempo.
Non solo. Nuove Distinzioni sono rese possibili, sulla Rete, che la carta tecnologicamente non è in grado di operare. Ogni lettore vero di poesia sa per esempio quanto conti, nella breccia che essa può produrre nella nostra armatura nervosa, la sua concreta pronuncia da parte dell’autore. Una lettura d’autore non è solo un (più o meno godibile, più o meno narcisistico) imbonimento da Festival: è – solo la si ascolti con Attenzione – da un lato parte sostanziale dell’opera nonché già, dall’altro, parte integrante della sua interpretazione. In molti casi, oggi più di ieri, la poesia che leggiamo sulla pagina non è che lo spartito di un testo la cui sola veste compiuta ed effettiva è la sua pronuncia d’autore. Lo stile di una lettura non è meno incisivo, nell’operare Distinzioni, dello stile col quale un testo è stato scritto. Dunque in questo spazio, oltre ovviamente al testo scritto, saranno contenuti anche frammenti di esecuzioni: da parte dell’autore e/o dell’interprete secondo che è chi conduce la lettura (e, di volta in volta, concretamente firma la rubrica) e che, in questo modo, viene chiamato a condurla in una modalità in qualche modo anfibia.
Una categoria poco fa evocata, quella dell’Attenzione – «la preghiera naturale dell’anima», secondo il Malebranche una volta invocato da Benjamin –, sarà il solo strumento richiesto a chi verrà chiamato a cimentarsi in questo spazio: senza programmaticamente prediligere l’una o l’altra tradizione critica.
Troppo spesso, nel passato anche più glorioso della critica di poesia, si sono per così dire capovolti i termini e prima si è scelto lo stile di lettura, diciamo, per poi scegliere un testo che, a volte, non era molto più che un pretesto atto a confermare l’ipotesi teorica di partenza: il come-volevasi-dimostrare di un teorema. L’ipotesi di partenza, in questo spazio, è che non vi siano ipotesi di partenza. Prima c’è l’epifania del testo – col quale, ha detto una volta Gilles Deleuze, ci si imbatte ogni volta come in un incontro inatteso – e poi si mette mano agli strumenti che riteniamo adatti a leggerlo. Nessun teorema. In ogni testo, anche dopo la più raffinata e penetrante delle letture, permane un quanto d’inesplorato, un punto cieco: una promessa di continuazione che garantisce della sua resistenza, appunto, nel tempo a venire.
Il che ha una prima conseguenza pratica: in questo spazio ci si relazionerà con testi editi. Non importa se su carta o in digitale, ma editi: che abbiano cioè passato quella soglia che, ancora e malgrado tutto, distingue la nebbia delle intenzioni, e delle vanità, dalla tridimensionalità degli esiti, e delle verifiche.
Sappiamo bene come e quanto l’editoria di poesia sia in crisi, nel tempo in cui si è preso a teorizzare (oltre a praticarla, come si fa da più tempo) l’editoria come mera ricerca di profitto. Non da oggi le cose più interessanti, lo sappiamo bene, non passano più necessariamente per le collane “maggiori” (a volte viene quasi da pensare, anzi, che quanto passa di lì, invece di riceverne una garanzia di qualità, sia macchiato da una qualche ulteriore necessità di verifica…); e non da oggi al lettore è richiesta dunque una pre-competenza editoriale, per così dire, il cui aggiornamento andrebbe fatto non anno dopo anno ma, forse, settimana dopo settimana. Ma è appunto questa una delle funzioni, non certo la minore a ben vedere, di uno spazio come il presente.
Nella situazione descritta, e anzi da ben prima che assumesse la tentacolare consistenza odierna, in molti – anche fra i più illustri lettori di poesia – hanno alzato le braccia. Nessuno, si è detto, è più in grado di operare Distinzioni; e, se è tramontata un’epoca, è quella dei giudizi (o delle «tabelline»). Naturalmente è vero il contrario. È dopo Babele, non prima, che si scopre la necessità dei traduttori. Non è ammessa alcuna Abdicazione: questa nuova forma di trahison des clercs. Proprio perché il ruolo Distintivo delle vecchie agencies è venuto clamorosamente meno, nel Grande Ingorgo del presente, (non solo corporativisticamente) viene da opinare che con tanto maggiore urgenza, in futuro, si avvertirà la necessità di una Regolazione del Traffico. Non più, come ai bei tempi, arbitri elegantiarum – ma vigili urbani sì. Niente di più ma, anche, niente di meno.
Se dunque viene demandata all’editoria, o a ciò che ne rimane, la scelta degli Autori, di contro si opera a nostra volta, qui, una scelta. Quella dei Testi. Un’altra contrainte infatti ci imporrà di ritagliare ogni volta un componimento (o comunque una porzione limitata di testo: per esempio da insiemi testuali di carattere poematico o tendenzialmente teatrale, che prevedano cioè la presenza di più “voci” sulla scena del testo) e, muovendo dalla sua lettura, cercare di dire qualcosa di sensato sul libro in cui è contenuto, sull’autore che lo ha scritto e, magari, pure su qualcos’altro. Già la scelta del dettaglio, in effetti, comporta un’interpretazione dell’insieme che lo contiene.
Del titolo Campioni si possono dunque dare (almeno) due letture diverse. Da un lato – alla maniera se si vuole di un titolo una volta celebre della critica d’antan, Esemplari del sentimento poetico contemporaneo di Oreste Macrì, 1941 – si scommette di saper Distinguere, anche fra chi scrive oggi e anzi soprattutto, delle vere “teste di serie”: che, si vuol dire, con la loro mera presenza (e il suo riconoscimento) mettano almeno la sordina al frastuono che vocia alle loro spalle. Il termine «esemplari», in Macrì, rinviava insieme a un’esigenza, già allora avvertita, di Modelli e di Canoni; ma anche, ha visto giusto la sua discepola Anna Dolfi, a un’ideologia platonico-vichiana che non è certo la nostra. Eppure vi si può forse avvertire, altresì, una sfumatura meno mistica e più materialisticamente fenomenologica, se non addirittura patafisica, in ogni caso più vicina alla nostra sensibilità: qualcosa che ha a che vedere con la zoologia e con Linneo, insomma, più che con Marsilio Ficino.
Cosicché si accede alla seconda possibile valenza di Campioni: che non intende certo rinviare alla trivialità delle tribune sportive – e tanto meno alla burinaggine di Masterpiece e dintorni – bensì all’asetticità di un laboratorio d’analisi. L’isolamento di un “campione”, estratto con la massima delicatezza dall’organismo vivente cui appartiene, è operazione in qualche modo crudele, si capisce; ma anche necessaria, e anzi non meno che indispensabile: ove si voglia appunto procedere all’analisi e, in prospettiva, allo studio.
L’idea me l’ha data una rubrica che appartiene a sua volta a un altro tempo, ancorché più vicino al nostro: quella tenuta a partire dalla fine del 1988 da Alfonso Berardinelli su «Panorama» (e poi raccolta in un libro, mai ripubblicato, che è forse il suo capolavoro: Cento poeti, Mondadori 1991). In quel caso ogni settimana il critico sceglieva appunto di presentare un autore – nel suo caso non una novità editoriale bensì un “classico”, variamente inteso, ma comunque sala d’un museo interiore – mercé l’isolamento di una sola poesia (o appunto di un frammento, prelevato da un insieme più vasto). La sede, annotava lui stesso, imponeva a sua volta precise contraintes: il rivolgersi a un pubblico non specializzato escludeva l’impiego di tecnicismi settoriali e, se una categoria d’analisi specialistica proprio occorreva convocarla, bisognava pure definirla e a quel pubblico presentarla.
Lo spazio ristretto imponeva poi la scelta di componimenti poco estesi e soprattutto, da parte di chi li leggeva, piuttosto che l’analisi il commento. La prima, scriveva Berardinelli, «tende a vedere il testo come un oggetto fermo e chiuso nella propria dimensione formale: un oggetto osservabile, che l’analista distanzia da sé e descrive in termini retorici e linguistici»; mentre nel secondo caso «ciò di cui si parla non è solo un oggetto testuale ma anche un’esperienza di lettura», così che il discorso del critico «prolunga o attualizza il discorso poetico in direzione di una situazione presente, non solo letteraria».
Il risultato sono duecentocinquanta pagine di puro fosforo, di scintillante pensiero-in-atto, godimento seriale e ogni volta diverso. Ma se dalla concretezza retorica dei suoi esiti ci si sposta all’ideologia che in questa distinzione è implicita, non ci si stupisce troppo che Berardinelli, proseguendo per questa strada, molto più avanti sia giunto (in quel pasticcio artificiosamente firmato assieme a Hans Magnus Enzensberger e pubblicato col titolo Che noia la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati, Einaudi 2006) a distinguere categoricamente la lettura della poesia dal suo studio. L’una, la prima, sarebbe il solo autentico contatto, pratica che mette in gioco il lettore insieme al suo testo (sino al rischio evocato dall’ancora più recente Leggere è un rischio, nottetempo 2012); laddove il secondo è pratica appunto crudele, gelidamente laboratoriale (se non obitoriale), nonché vagamente onanistica. Col corollario di tendenzialmente deprezzare certi «poeti che hanno scritto per catturare i professori sempre più numerosi» (è il ragionamento che ha svolto pure, a più riprese, un reprobo dei laboratori d’analisi come Tzvetan Todorov): per esempio Eliot, che si era messo in testa «di diventare il poeta perfetto per gli studiosi di poesia moderna in tutto il mondo» (ma che, bontà sua conclude Berardinelli, «va perdonato, perché riesce spesso sia a farci venire i brividi che a farci ridere»).
C’è del giusto, si capisce, nelle proteste di chi oggi non riesce più a leggere certa critica di poesia che risulta più esoterica delle poesie che sarebbe chiamata a spiegare. Ma era una protesta molto più giusta negli anni Settanta-Ottanta, in piena egemonia culturale strutturalista e semiotica, di quanto non suoni ora. Oggi il problema, com’è ovvio non solo nel nostro orto letterario, non è l’eccesso di mediazioni bensì, al contrario, la retorica della disintermediazione. Della parola diretta e della soluzione più pratica.
Che corrisponde poi, il più delle volte, a nient’altro che una mistificazione: perché le questioni, nell’orto letterario come fuori di esso, restano questioni complesse; e perché i Grandi Semplificatori, mentre additano al pubblico ludibrio lacci e lacciuoli delle oligarchie, delle caste e delle élites, una volta pervenuti nelle Stanze dei Bottoni, ben lungi dal tentare di adottare davvero le Soluzioni Semplici che vaneggiano, in concreto spartiscono il potere coi più grigi tecnocrati. Coloro cioè che, nell’ombra del disinteresse generale, sempre più facilmente impongono i devices dettati dal pensiero unico della loro inconfessata ideologia.
Occorre dunque prendere il buono, della proposta di un lettore come Berardinelli, senza per questo aderire alla sua ideologia. Il buono, desunto dalla lezione di Giacomo Debenedetti, è quella che lui chiama critica di contatto: avvicinarci in tutti i modi alla concretezza dei testi (per esempio sottoponendola, si diceva, alla prova della lettura ad alta voce) e, ai testi, restare sempre il più vicini possibile. Ma senza escludere a priori nessun approfondimento che possa essere dettato dallo studio. Se in questa sede l’analisi non potrà essere svolta per intero e nel dettaglio, come in assoluto richiederebbe, quello che si proverà a mostrare – a contravveleno del commento selvaggio proliferante in Rete – è che senza di essa nessun commento sensato è in effetti possibile. Personalmente sono anzi convinto che sia solo dopo aver ruminato a lungo nell’attenzione e nello studium che ci si possa porre in condizione di conseguire il satori, l’individuazione del punctum. (Ogni vera lettura, in fondo, altro non è che un satori laico.) E che solo seguendo questa strada lunga si possa eventualmente prolungare o attualizzare il discorso poetico in direzione di una situazione presente, non solo letteraria. Non si nasconde insomma che la strada, come l’ars, è lunga assai: anche se quella che se ne percorre in questa sede è una scorciatoia.
È questa appunto la scommessa dell’Attenzione: la scommessa dei Campioni.