Candidato e testimonial
Se si vuole capire cosa succede a una nazione, non si può fare a meno di osservarne la pubblicità. L’abbiamo scritto sul primo numero di Bill, citando Norman Douglas, lo riscriviamo all’indomani delle elezioni, dal momento che anche in materia politica la pubblicità italiana si è pronunciata da tempo.
Prendiamo una delle caratteristiche più tipiche della nostra democrazia: la proliferazione dei cosiddetti partiti personali, quelli nati cioè intorno a singoli personaggi. Lo si è detto, soltanto in Italia sono così numerosi. Bastava guardare la quantità di cognomi sulla scheda elettorale 2013: il partito di Monti, di Grillo, di Ingroia, di Berlusconi, di Giannino, e prima ancora quelli di Di Pietro, di Fini, di Lamberto Dini, di Leoluca Orlando… Non organizzazioni che scelgono di volta in volta il proprio leader ma movimenti nuovi, raggruppatisi intorno a un solitario artefice.
E cosa c’entra la pubblicità con questa storia? A prima vista dovremmo stare dalle parti del retaggio genetico italiano: la ricerca di uomini forti, di scorciatoie carismatiche… ben oltre il copyright nostrano del fascismo novecentesco, questo tic tradisce però la nostra eterna fuga dal progetto, dal metodo, dalla costruzione graduale. E racconta degli italiani il culto dell’intuizione improvvisa, che al fondo considera democrazia un iter per mediocri. Noi le contrapponiamo dei trascinatori, dei risolutori in grado di prendere in mano la situazione. Ci penseranno loro a sbrogliarla in un attimo.
Ora, se si guarda alla pubblicità italiana, si ritrovano le stesse caratteristiche, ma sotto forma di ricorso sistematico al testimonial. Un fenomeno che nella nostra réclame ha proporzioni peculiari: tra i grandi paesi occidentali, infatti, solo nel nostro i volti celebri vengono considerati tanto indispensabili. Nessun paese vi fa ricorso quanto noi. Un pubblicitario può lavorare per anni all’estero senza mai avere a che fare con un testimonial. In Italia è un’esperienza inevitabile. Fin dai proto-commercial del Carosello i volti celebri ricorrono nella quasi totalità dei marchi nazionali. Telefonia, automobili, sport, cibi di ogni tipo, divani, detersivi, persino cartucce per stampanti, per non parlare delle cause sociali… non c’è tema che sfugga alla loro presenza. C’è di che far impallidire il timido drappello di star hollywoodiane arruolate dai marchi fashion.
Eppure, non è neanche la quantità dei nostri testimonial a renderci un’eccezione. È il modo che abbiamo di usarli. Definiamolo un uso purchessia. Ovvero: in sostituzione delle idee. Capita abitualmente ai pubblicitari italiani di dover imbastire una campagna intorno alla presenza di un testimonial prima ancora di sapere di chi si tratterà. Esercizio straniante, del tutto sganciato dal contesto, che ci conduce al volto stralunato del Bill Murray di Lost in Translation. La nostra celebrity viene insomma scelta senza ricercare nessi con il prodotto o con l’idea da comunicare. Perché mai Sabrina Ferilli per un divano? Perché Banderas per dei biscotti? Perché Brignano per un caffè? Perché non invece Brignano a consigliare il divano, Ferilli materna fornaia e via dicendo? Non c’è un motivo.
I testimonial della nostra pubblicità sguazzano in un nulla concettuale nel quale – in coerenza - ci si abitua a comunicare il nulla. Giova ricordare il motivo per cui la Chrysler, rilanciandosi negli Stati Uniti con un commercial nel Super Bowl, ricorre a Eminem: perché l’industria automobilistica americana fa base a Detroit, perché la campagna intende sollecitare l’orgoglio della città e perché il famoso rapper è proprio di Detroit. Gli esempi virtuosi sarebbero innumerevoli. Qualche anno fa, in una splendida campagna sociale contro la guida in stato d’ebbrezza, Stevie Wonder diceva “Piuttosto che far guidare uno che ha bevuto, guido io”. Con spiazzante umorismo, il non vedente metteva il suo stesso handicap al servizio di un paradosso memorabile. Idee tailor made, concettualmente inchiodate ai testimonial prescelti.
Ricercare una coerenza tra “la cosa da dire” e “la persona che la dirà” non è solo ovvia ricerca di senso. Non significa solo desiderare di farsi capire ancora meglio. È anche il sintomo di un sentire democratico, nel quale ciascuno vale per il contributo che può apportare. Anche la star. Nella nostra logica, invece, l’uomo di successo può tutto. Quando reclamizza un prodotto, non gli è semplicemente utile sulla base delle sue peculiarità: lo sta investendo con la sua luce personale, che può portare su qualunque cosa. Il nostro testimonial non è lì per spiegare: egli benedice.
Il testimonial che spadroneggia, attraversando i marchi e le campagne più differenti con sprezzo della sensatezza, è insomma significativo della nostra idea di potere. Ed è sintomo di una società che tuttora sembra riconoscersi in forme di gerarchia pre-moderne, nella quale il costume democratico penetra a fatica. Allo stesso modo, nella politica italiana, un personaggio fa culminare il suo status facendosi leader politico. Può farlo.
La società della comunicazione consente di migrare tra un genere e l’altro, firmare libri o fare tv o incidere un disco, ma nella sua versione italiana permette anche di fondare un partito, sempre proseguendo nella propria biografia di successo, sempre declinando il proprio personalissimo brand. E ponendo la politica sullo stesso piano degli altri ambiti espressivi, come si trattasse di una forma d’arte varia, il che oltre a essere molto italiano è persino dannunziano. Qual è il programma di quel signore famoso che si è candidato? Ma il programma è lui, la sua stessa biografia.
Non è dunque senno di poi dire che la campagna elettorale 2013 era stata anticipata, con la sua dominante “personalistica”, dallo sconsolante paesaggio pubblicitario nostrano. Entrambi fenomeni autoctoni, senza paragoni all’estero. Nessuno usa così i testimonial pubblicitari, nessuno concepisce così i suoi leader politici. La questione procede su binari paralleli. L’incombenza del testimonial nei nostri spot equivale alla perenne ricerca politica dell’uomo risolutore. Una produzione industriale si consegna nelle mani della celebrities così come il consenso elettorale si affida alla chiara fama. Il volto celebre sostituisce l’idea creativa, il personaggio sostituisce i programmi.
Politica e pubblicità si evocano a vicenda non solo perché l’una sembra degradare nell’altra, ma perché entrambe ci fanno desiderare un confronto tra pari, tra elettorato ed eletti come tra comunicatori e pubblico. In questo senso le promesse dei social network, che annunciano una partecipazione collettiva e paritaria, hanno solo iniziato a presentarsi ma, va detto, senza ancora cambiare le carte in tavola.
La profezia degli spot italiani va seguita fino in fondo, non solo scavando nelle sue costanti storiche ma seguendo le mutazioni attuali del fenomeno. Costante sempre maggiore dei nostri testimonial è la provvisorietà. I personaggi sono sempre più rimpiazzabili, proprio perché privi di legami profondi con ciò che dichiarano. La loro stessa mancanza di necessità li rende fragili. I volti celebri vengono avvicendati in pubblicità per i motivi più diversi: perché toppano nella vita privata, perché dopo un po’ chiedono troppo, perché come si dice “invecchiano”, perché subiscono le incertezze delle aziende e del mercato, perché ne arrivano di nuovi, momentaneamente più convincenti, in una giostra infinita di piccole star. I testimonial non sono lì per restare. È possibile in qualunque momento sostituirli con altri character che gli somiglino, che gli siano confinanti. A Bonolis può benissimo succedere un altro purché continui a scherzare in romanesco.
Nella situazione attuale, i testimonial italiani sono delle pure effigi, immateriali e illogiche, che si aggirano sul palcoscenico dei media susseguendosi senza ragione, parlando una lingua artificiale ed eccessiva, recitando il proprio ruolo poco convintamente, tra la marchetta esibita e un presenzialismo da horror vacui. Rappresentano non più il potere, ma il desiderio di potere, nella sua forma più straziante e fragile. La celebrità scolora nell’anonimato. Forse questa folla di testimonial poveri anticipa una radicale desacralizzazione dell’idea stessa di autorità agli occhi degli italiani. Se e come questa descrizione si sovrapponga alla scena politica, è però materia dei prossimi tempi.
Questo articolo è un'anteprima del numero di aprile di Bill. Qui il sommario