Bilancio / Celati, muro contro muro

24 Gennaio 2020

Intorno alla figura e all’opera di Gianni Celati s’è detto tutto e il suo contrario. Che non è la solita frase fatta, perché tutto e il suo contrario è esattamente ciò che il lavoro di questo colosso della letteratura italiana contemporanea ha evocato e continua a ricordare. Giocando col canone occidentale per pervertirlo dal di dentro e osservarlo dall’esterno, per trasgredirlo e rimontarlo in altro modo: modificandone l’intelligibilità. Relativamente facile, e nondimeno necessario, mettere in fila la serie di antinomie che i suoi libri mettono in campo, la lunga sfilza di coppie concettuali –di categorie semantiche oppositive – che nei suoi scritti, ma potremmo dire altresì nei suoi gesti, si agitano, stridono, combattono, per svolazzare infine via, disciolte, con una certa soddisfazione.

 

Eccone alcune, in relativo disordine (con l’accortezza di non sovrapporle: molte possono essere invertite, parecchie sono intercambiabili): scrittura/teoria, narrativa/saggistica, scrittore/professore, grasso/magro, aggiungere/levare, manierismo/spontaneità, artificialità/naturalezza, paesaggio/spaesamento, lettura/visione, Calvino/Ghirri, banalità/follia, linguaggio/quotidianità, parola/esperienza, finzione/filosofia, comico/drammatico, circense/semplice, letteratura/antropologia, sintassi/semantica, corpo/mente, strutturalismo/post-strutturalismo, umanesimo/post-umanesimo, razionalità/irrazionalità… Alcune sono evidenti, altre andrebbero forse spiegate, ma per i lettori di Comiche e Finzioni occidentali, Lunario del Paradiso e Verso la foce, Narratori delle pianure e Cinema naturale si tratta di consuetudini tematiche e stilistiche, di atteggiamenti ricorrenti, di aporie fatte metodicamente scoppiare. 

Siamo lontani, si badi, dalle paciose risoluzioni della dialettica hegeliana (la famigerata Aufhebung, che toglie le contraddizioni conservandole), perché, come ha sottolineato Marco Belpoliti nell’introduzione al Meridiano consacrato a questo scrittore (da lui curato con Nunzia Palmieri, Mondadori 2016), Gianni Celati pone la letteratura in bilico sull’abisso, senza mai tornare indietro ma senza mai cadervi dentro. A differenza degli scrittori della generazione precedente come Italo Calvino o Umberto Eco, tutti presi dall’alternativa radicale fra razionalità e irrazionalità, per l’autore delle Avventure di Guizzardi o delle Quattro novelle sulle apparenze questa dicotomia viene vissuta, per così dire, dal di fuori, come un fantasma di cui ci si è appena liberati e di cui si percepisce ancora, per quanto sbiadita, la scia fluorescente.

 

Lo sforzo continuo di Celati, sostiene Belpoliti, è quello di spingere la letteratura oltre se stessa con i mezzi della medesima letteratura, non rinnegandola ma usandola per sovvertirla, per sfondare il muro del linguaggio e ritrovare l’esperienza intima o la realtà sociale come effetti che è il linguaggio stesso, la sua facciata letteraria, a congegnare. Un termine chiave che può in parte racchiudere tutto ciò (e che attraversa la storia letteraria del Novecento, da Šklovskij a Brecht, da Benjamin a Barthes) è straniamento. Straniamento rispetto alla percezione del mondo, rispetto al linguaggio, rispetto alle consuetudini letterarie. Raccontare è straniare, straniare è raccontare.

Sappiamo quanto Gianni Celati abbia spinto il pedale della letterarietà, abbia lavorato sul testo letterario e poetico e teatrale per arrivare alla parlata quotidiana, alla vita di tutti i giorni, alle banalità del fare come anche all’esperienza della follia o all’ingenuità della fanciullezza. E grazie a tutto ciò far ritorno, con estremo contegno, alle più sottili sofisticatezze poetiche. Seguendo in questo la lezione di alcuni dei suoi personali maestri (ogni scrittore, secondo Borges, crea i suoi predecessori) come London o Joyce, Stendhal o Queneau. 

Costituirebbe una diminutio, perciò, leggere Celati come uno scrittore vecchio stile, tutto chiuso nella torre d’avorio della letteratura fine a se stessa. Accanto alle sue straordinarie prove letterarie (romanzi, racconti e cronache raccolti da Belpoliti e Palmieri del Meridiano di qualche anno fa) occorre considerare con altrettanta attenzione il suo lavoro teorico, altro volet di un’antinomia che non è tale, senza il quale l’opera di Celati zoppicherebbe su una gamba sola, rischiando a ogni momento di cadere in quell’abisso su cui vuol stare in perenne, stentato equilibrio. 

 

 

Da qui la recente pubblicazione di due volumi che (in attesa di un auspicabile secondo Meridiano celatiano che metta insieme saggi e interviste) colmano in parte questa lacuna. Il primo è Narrative in fuga (a cura di Jean Talon, Quodlibet, pp. 342, € 18), un libro che raccoglie quattordici testi di Celati su alcuni dei suoi autori prediletti: americani (Melville, Twain, London, Hawthorne, Poe), francesi (Stendhal, Céline, Michaux, Perec) e irlandesi (Swift, O’Brein, Beckett, Joyce). Messi accanto, disegnano una mappa tematica e testuale tanto originale quanto necessaria. Il secondo è la nuova edizione della rivista Riga dedicata a Celati (a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, Quodlibet, pp. 510, € 28), con circa duecento pagine in più rispetto alla prima versione del 2008. Vi si trovano conversazioni e interviste, lettere e progetti editoriali, racconti, testi su viaggi e paesaggi, riflessioni sul lavoro del tradurre, scritti sull’arte, articoli e recensioni, saggi. In tutto, le pagine autografe di Celati, raccolte con estrema cura filologica, e alcune delle quali inedite, occupano all’incirca la metà del volume. Tra gli autori presenti che dialogano con Celati: Calvino, Gramigna, Giuliani, Ghirri, Arminio, Cavazzoni, Trevi, Manganelli, Corti, Mauri, Belpoliti, Cortellessa, Starnone, Prete, Bartezzaghi e moltissimi altri. 

Rendere conto della mole di questioni che questi due volumi sollevano è assai arduo. L’opera di Celati viene smontata e rimontata più volte, con esiti molteplici e variegati. Due libri da comodino, soprattutto il secondo, che si pone come un testo necessario, imprescindibile per chiunque d’ora in poi voglia visitare la galassia Celati. (Parentesi: a quando le dovute lodi di questa rivista, Riga, che s’avvia al trentesimo anno d’età?). 

 

Basti qui attivare un’eco tra le tante possibili. Il primo testo di Narrative in fuga è l’introduzione di Celati a Bartleby lo scrivano di Herman Melville, da lui stesso tradotto per Feltrinelli nel 1991 (è rimasta celebre la scelta di rendere le formula “I would prefer not to” del protagonista con “avrei preferenza di no”). Uno degli scritti del Riga celatiano, del 1970, è un parere di lettura indirizzato alla casa editrice Einaudi relativo alla Logique du sens di Gilles Deleuze. Parere non negativo ma dubbioso, tant’è che il libro è invece uscito da Feltrinelli qualche anno dopo. Cosa tiene insieme questi due testi? La risposta è ovvia – Celati stesso –, ma va detto perché. 

La Logica del senso di Deleuze (1969) è un libro fondamentale, non solo il testo migliore di questo filosofo che non potremo smettere di rileggere con estremo profitto, ma una pietra miliare del pensiero del Novecento, che si libera dalle pastoie del pensiero negativo verso cui il decostruttivismo alla Derrida stava tendendo, per aprire a una visione positiva del mondo che non abbandona il piglio critico del migliore strutturalismo – francese e non. Vi si parla di singolarità ed effetti di superficie, eventi incorporei e flussi temporali, umorismo e ironia, paradossi del senso e del nonsenso. I suoi nemici sono le altezze apollinee, da una parte, e le profondità dionisiache, dall’altra. Gli autori di riferimento sono gli stoici, dal coté filosofico, e Lewis Carroll, da quello letterario. Celati, che coltiva per Alice nel paese delle meraviglie una passione continua, coglie immediatamente la portata innovatrice del libro, e lo riassume molto bene per il suo editore, segnalandone tuttavia un limite: la mancanza di esiti pratici, cioè politici. “Dopo aver scoperto il valore rivoluzionario del paradosso, Deleuze si limita a descriverlo anziché usarlo”, scrive. E da qui le esperienze dei seminari al DAMS del ’76-’77 su Carroll, la cura del volume collettivo Alice disambientata, il culto per la figura carrolliana in tutto il movimento bolognese del ’77, Radio Alice in testa, a cui Celati è stato vicino.

 

Ma in che cosa consiste questa prassi rivoluzionaria basata sul paradosso deleuziano? Presto detto: nei pacati rifiuti di Bartleby lo scrivano, in quella “preferenza di no” che questo personaggio oppone tatticamente a chi vuol costringerlo all’etica fattiva del capitalismo finanziario, al culto dell’azione accumulatrice, al delirio della definizione che generalizza. Bartleby, con le sue preferenze incongrue e alquanto buffe, è pura singolarità, esattamente quella identificata nella Logica deleuziana, e per questo mette in comunicazione il senso francamente con il non senso, dribblando le scaltre pretese del senso comune e del buon senso. Il rifiuto di Bartleby (al quale lo stesso Deleuze, del resto, ha dedicato un saggio fondamentale) è programmatico, insieme smarrimento e determinazione. “Bartleby – scrive Celati – incarna una maniera d’essere su cui la ratio della legge e dell’utilitarismo non hanno più presa, perché è perfettamente inerte, in stato di riposo; non è più il figlio smarrito da riscattare con qualche intenzione, ma l’orfano assoluto su cui le buone intenzioni non fanno più effetto”. Da qui la sua “divina inerzia”, la sua “sovrana indifferenza” che mima il gesto paradossale degli asceti che si ritirano nel deserto per meglio affrontare il mondo. Parlare con lui, cocciuto per com’è, è parlare col muro, ed è proprio un muro ciò che lo scrivano continua ostinatamente a fissare. Sta proprio in questo muro contro muro, radicale e simbolico al contempo, ironico e comunque ineluttabile, la prassi politica rivoluzionaria innescata da Bartleby. La quale si differenzia parecchio, anche storicamente, da un altro modo di scagliare un muro contro un altro muro: quello del terrorismo, banalissima violenza carica di buon senso normalizzatore, di mortifero senso comune. A cui Celati si oppone radicalmente. Tutto e il suo contrario?

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