Le fotografie al Castello Sforzesco / Cesare Colombo. L’occhio di Milano
Un enorme tavolo occupa la sala del Castello Sforzesco dove si tiene la mostra di Cesare Colombo. Tante piccole lampade sono disposte sulla sua superficie. Sembra un immenso piano di lavoro costituito da due pannelli sostenuti da alcuni cavalletti che fanno venire in mente quelli usati dagli imbianchini. Lo sguardo ne è immediatamente attratto. Chi si avvicina e lo scruta con curiosità non ne rimane deluso, anzi, ne subisce un moto di empatia.
Su un lato è stampata la biografia di Cesare Colombo e sull’altro si possono leggere molti dei suoi scritti, legati all’attività di critico e curatore. La luce delle lampade crea un’atmosfera di intimità e favorisce una prossimità con l’autore. Sono lampade disegnate da Philippe Starck, le Miss Sissi, “quasi un grottesco ricordo del policarbonato delle abat-jours di un tempo”, dice l’ideatore del tavolo, Italo Lupi che con Colombo ha una lunga storia di collaborazioni. Sotto quella luce anche lo sguardo si fa caldo, aperto e disponibile a conoscere la storia del fotografo e di Milano, la sua città.
Al tavolo non ci si avvicina con lo sguardo, è necessario spostarsi con il corpo ed è richiesta anche la postura del raccoglimento, quella del chinarsi.
C’è uno scambio molto intenso tra ciò che accade al tavolo nel mezzo della sala e ciò che è già avvenuto nelle foto: in entrambe le dimensioni di tempo e di spazio sono le persone ad occupare il centro. Lo abitano. Il tavolo agisce come un ponte, è quasi una macchina del tempo che genera un movimento anche nel nostro sguardo, poiché attenua l’assuefazione che le innumerevoli immagini della metropoli hanno prodotto nella nostra memoria visiva. Grazie alla soluzione inventata da Lupi, la mostra di Colombo ha acquisito una sua autonoma vitalità, senza così correre il rischio si trasformarsi nella semplice celebrazione della città e di uno fra i più fedeli interpreti visivi dei suoi cambiamenti.
Ciò che riesce a commuovere di Colombo è la prossimità ai suoi soggetti. Un modo di guardare simile a quello di un amico cui affidare i propri pensieri. La prima sezione della mostra si intitola Album metropolitano e ricorda, appunto, uno scrigno dove sono stati conservati alcuni degli istanti vissuti dal fotografo e dai suoi concittadini. Si vedono piazze e strade, ma soprattutto le persone: le lavandaie alla Darsena, i ragazzi che fanno il tiro alla fune al Parco Ravizza, chi prende un caffè alla latteria in Via Vigevano, dove Colombo aveva lo studio.
Raramente la città è vuota come nelle foto di Gabriele Basilico. Milano sembra molto vicina a quella rappresentata da Carla Cerati nel grande grande affresco visivo che è Milano Metamorfosi, in cui la fotografa celebra i mutamenti della città dai primi anni Sessanta alla morte di Aldo Moro. È soprattutto una città fatta di volti. Colombo sembra mostrarne il lato intimo, quello nascosto. Sin dagli anni Cinquanta, nella sua esperienza artistica, i volti sono la sostanza prima e irriducibile della città, in un dialogo di sguardi che è testimoniato in tantissimi scatti come quello della fioraia nei pressi del Cimitero Maggiore, della ragazza che posa per le prove di un ritratto in Via Melchiorre Gioia, dell’anziano signore che si distacca dalla folla in Piazza Duomo. Guardare negli occhi i milanesi significa cercare il volto nascosto di Milano, la sua verità. Per Colombo, come per altri grandi fotografi del calibro di Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, Uliano Lucas, Tano d’Amico, cogliere la verità significa essere solidali con il soggetto, avere il coraggio e la determinazione per stare “dentro” le situazioni.
Che vuol dire aver maturato una sensibilità al dialogo, come nel caso dello studente che si tiene il viso con una mano a una conferenza di Marcuse. Colombo lo fotografa seduto al tavolo mentre il filosofo parla agli studenti. La sua espressione è talmente potente che la presenza di Marcuse appare ininfluente. Il suo sguardo sembra perplesso e diffidente, ma la distanza tra lui e il fotografo è così esigua, che tra i due sembra stabilirsi un dialogo segreto. La sua fotocamera non sancisce l’apoteosi della distanza e dell’onnipotenza ma è un tramite con cui stabilire relazioni.
Durante un’assemblea di studenti in piazza Santo Stefano, nel 1969, a colpire non è la folla, ma il volto di una ragazza seduta per terra che guarda in macchina. Tutti sono attenti e rivolti all’oratore. Solo lei, con il volto serio, sembra interrogare il fotografo e rivolgergli la parola attraverso l’obiettivo. E Colombo risponde con la fotografia. Due donne fanno la spesa in un supermercato a Baggio. Con i figli nel carrello e gli abiti dimessi guardano il fotografo quasi infastidite, ma si lasciano ritrarre. Un gesto di solidarietà silenziosa.
Promana, da tutte queste immagini, una tensione emotiva del fotografo. L’individuo non si annulla nella folla, non viene inglobato dalle situazioni o travolto dagli eventi. Si tratta di una singolarità che insieme svela anche la sua fragilità. E, proprio perché viene mostrata, diventa una forza, un tesoro interiore che dà un volto diverso alla città.
Nell’attenta e minuziosa introduzione al catalogo, Silvia Paoli fa un riferimento a Giuseppe Turroni il quale a proposito di Colombo parla di “sensibilismo”, del sentimento di tristezza, “un gusto bruciato” che dà corpo allo specifico fotografico, all’immediatezza visiva che capta un’atmosfera, allo sguardo attento, acuto e sensibile della sua “camera sincera”.
Persino fra le foto dei designer e degli stilisti (Krizia, Giorgio Armani, Achille Castiglioni, Gae Aulenti, lo stesso Italo Lupi…), il nostro sguardo è mosso dalla vicinanza prima che dallo stupore. Un bell’esempio è la foto in cui in cui Enzo Mari, chino su un modellino che sta costruendo, sembra giocare con alcune figure umane in cartone non più grandi della sua unghia. Apparentemente incurante, eppure consapevole del fotografo, guarda compiaciuto la sua opera. Un istante in cui non vi è alcuna forma di narcisismo e compiacimento.
Per Milano vale lo stesso, perché Colombo sa porsi alla giusta distanza. Dà l’impressione di trovarsi talmente vicino da abitare lo stesso spazio di chi sta dinnanzi all’obiettivo. Lo sguardo è in equilibrio tra Henri Cartier-Bresson e William Klein, “l’uno incline al rispetto e alla distanza dagli eventi, l’altro immerso nel fluire delle cose”, come ricorda lo stesso fotografo in un’intervista del 1986. Si ha l’impressione che pochi, come Colombo, conoscano in maniera così scrupolosa quello che stanno fotografando.
Il bisogno di conoscenza è, infatti, un’altra componente della sua intensa attività, forse quella meno attesa e che perciò stupisce maggiormente. Critico, curatore e studioso si occupa anche della valorizzazione degli archivi fotografici di aziende ed istituzioni come la Ferrania, 3M, il Touring Club Italiano. Ciò che conta è “la portata sociale di una comunicazione fotografica i cui significati devono essere compresi e validati dalla collettività”, afferma Colombo, poiché l’uomo è sempre al centro dello spazio “misura e rapporto per una casa, per una fabbrica, per il quartiere”. E ancora: “una rassegna fotografica è una comunicazione che sollecita e attende risposta; come il livello democratico della società oggi richiede”, scrive nel 1977. La sua passione per la fotografia è un compito storico a cui affidare l’eticità del proprio lavoro, non solo quando scatta. La fotografia è documento e informazione, ma anche interpretazione e visione, oltre ad essere uno strumento che può divenire parte attiva nei cambiamenti della società. Per questo “curare” una mostra è un gesto che si carica di un valore immenso. Una fotografia può creare identità, relazione, storia.
I titoli delle mostre da lui curate spiegano e raccontano: L’occhio di Milano.48 fotografi 1945/1977; Professione Fotoreporter. L’Italia dal 1934 al 1970 nelle immagini della Publifoto di Vincenzo Carrese; Italia: cento anni di fotografia (che vede come promotore il Museo Alinari); Scritto con la luce. Fotocine in Italia 1887-1987; Il Bel Paese. Cento anni d’amore per l’Italia (per il Touring Club Italiano); Cento anni di industria, a cura di Valerio Castronovo, con cui collabora, solo per citarne alcune. Camminare nella sala del Castello Sforzesco diviene così occasione per ripercorrere la storia della fotografia attraverso le istituzioni che l’hanno promossa come strumento per capire i mutamenti di un Paese.
La biografia di Cesare Colombo non è meno coinvolgente del suo lavoro. Osservando il tavolo allestito dall’amico Italo Lupi si viene a sapere che, nato nel 1935 in una famiglia di artisti, oltre che fotografo, è grafico e collabora con numerose riviste come Ferrania, Fotografia, Camera. Si dedica alla fotografia industriale e di architettura, partecipa a numerosi convegni e insegna presso la Società Umanitaria. Nel 2014, due anni prima della scomparsa, ripercorre la sua storia professionale e umana. Lo fa in una lunga intervista a Simona Guerra. Il titolo è insieme evocativo e malinconico: La camera del tempo. Le parole conclusive sono una sorta di dubbioso congedo. Affettuose e distaccate, appaiono anche una delicata invocazione, un modo per interrogare la natura ambivalente della fotografia, il suo porsi come strumento di rivelazione e occultamento. Eccole: “Ritorno ancora una volta al trascorrere sempre più veloce degli anni della mia vita: l’ho dedicata tutta, senza rimpianti alle immagini fotografiche. Cosa non frequente, più spesso a quelle di altri autori – notissimi o completamente ignoti – che alle mie. […] Riusciamo, riesco davvero a riconoscervi il senso che avrei voluto? Ma soprattutto: sono sicuro di aver visto giusto? E cosa ho visto?”
Cesare Colombo. Fotografie 1952-2012, a cura di Silvia Paoli con Silvia e Sabina Colombo, dal 25 giugno al 30 settembre 2020. Castello Sforzesco, Milano.