casa, Casa, CASA / Cicero De (pro) domo sua

13 Giugno 2018

La casa. La casa. La casa di Montecarlo. La casa di via Fagutale, con vista sul Colosseo. La casa regalata (o quasi). La casa.

La casa di Montecarlo, ossia, come dicono tutti, l’inizio della fine, per la carriera politica dell’ex-onorevole Fini. La casa di via Fagutale, proprio davanti al Colosseo, che tante noie procurò a suo tempo all’ex-ministro Scaiola. La casa che il costruttore Scarpellini donò (o quasi) al dottor Marra, influente funzionario del Comune di Roma.

Ma si potrebbero citare altri nomi e altre case. Quelle di Tremonti o Calderoli, o l’appartamento che usava Renzi a Firenze, in via Alfani, e di cui pagava l’affitto l’amico Carrai.

Sono tutte vicende note. E non importa molto che abbiano o meno rilevanza penale. O che l’abbiano avuta. 

 

È il ruolo della casa, della Casa, della CASA, che spicca.

Senza tralasciare analoghe questioni legate a case e politici della cosiddetta Prima Repubblica. La casa di D’Alema, la casa di De Mita e di vari altri.

Di solito si trattava di immobili di pregio, di pertinenza di Enti Pubblici, che li affittavano per un tozzo di pane (e poi li vendevano anche, e sempre per un tozzo di pane) a noti uomini politici, e pure a quelli meno noti.

Mi pare che anche Capanna e Pannella, se non sbaglio e se non ricordo male, furono lambiti in un remoto passato da polemiche di natura edilizio-abitativa. 

 

Personalmente non sono né un giornalista né un esperto immobiliare, però mi vien quasi voglia di rievocare, seppur per sommi capi, la vicenda e l’opera che pare sempre più profilarsi come l’archetipo immortale di tutti questi episodi presenti, pescati dall’attualità più o meno recente.

Sto parlando, come forse si sarà intuito, dell’orazione di Cicerone che va sotto il nome di Pro domo sua, ossia l’orazione “per la sua casa” “in favore della sua casa”, benché il titolo effettivo, attestato dalla tradizione manoscritta, sia in realtà De domo sua, cioè Orazione sulla sua casa, a proposito della sua casa. (Mutamento minimo, apparentemente, ma secondo me molto rilevante, sul quale mi soffermerò in seguito).

Si tratta di un’orazione tenuta davanti al Collegio dei Pontefici, le massime autorità religiose della Repubblica, nel settembre dell’anno cinquantasette avanti Cristo. Cicerone era appena tornato dall’esilio. La sua casa sul Palatino era stata rasa al suolo; al posto di essa era stato consacrato, per sfregio, un tempio alla dea Libertas, la Libertà. L’oratore voleva che venisse riedificata la sua antica dimora, esattamente dove stava prima. Il tempio alla Libertà, grottesca offesa gratuita, doveva venir distrutto. Il suolo sconsacrato, per permettere la ricostruzione di un’abitazione privata, la sua, quella di prima. Cicerone pretendeva di venir reintegrato nei suoi possessi a spese pubbliche. Glielo si doveva.

La vicenda è nota, ma la ricostruisco brevemente lo stesso.

 

Cicerone aveva sì salvato la patria, scoprendo la congiura di Catilina nell’anno sessantatré avanti Cristo, ma aveva anche mandato a morte senza processo i Catilinari. Cinque congiurati, tutti cittadini romani, erano stati giustiziati dal boia senza che avesse avuto luogo la provocatio ad populum, ossia l’appello al popolo, riunito nei Comizi, che solo poteva confermare o annullare le sentenze capitali relative ad un civis romanus. Questo imponevano le leggi, a partire dalle antichissime leges Valeriae, in vigore fin dagli albori della Repubblica, e poi confermate successivamente da tutta una serie di altre leggi analoghe.

Cicerone sosteneva che la legalità ordinaria era stata sospesa dal senatus consultum ultimum, cioè l’equivalente del nostro stato d’assedio.

 

Ph Todd Hido.


Quando si proclama lo stato d’emergenza, le leggi normali non sono più in vigore. Se lo Stato è in pericolo, l’importante è salvarlo a ogni costo. Costi quel che costi.

Non la pensava così il tribuno della plebe Publio Clodio. Il quale, appena assurto alla sua carica, nel 58 a.C., fece approvare una legge, lex Clodia de capite civis romani, che prevedeva l’esilio per chi avesse fatto condannare senza processo (e senza appello al popolo) dei cittadini romani. La legge aveva per di più valore retroattivo. Era una legge ad personam. Una delle molte che si possono ritrovare in quell’epoca. O forse potremmo definirla contra personam o, più correttamente e secondo una vetusta espressione del diritto romano, un privilegium, una norma creata appositamente contro una persona specifica.

 

Chi manovrava Clodio voleva dunque far fuori Cicerone. Pare che fosse Cesare a guidare l’operato del neo-tribuno della plebe, ch’era per parte sua nobilissimo, oltre che fratello di Clodia, la Lesbia di Catullo.

Per accedere alla carica Clodio si era fatto adottare da un plebeo, che era, per giunta, un ragazzo sui vent’anni. Quindi abbiamo un padre adottivo più giovane di circa quindici anni del proprio pargolo adottato.

Ma Clodio nutriva anche di suo un certo inestinguibile rancore nei confronti di Cicerone. Questi infatti aveva testimoniato contro di lui nel processo per il sacrilegio delle cerimonie in onore della Bona Dea. E ciò solo pochi anni prima, nel 62 avanti Cristo.

Cos’era accaduto?

Nel corso della Festa della Bona Dea, che veniva celebrata in casa del pretore in carica Cesare da sua moglie, Pompeia, e da altre donne, solo donne, perché così esigeva il rituale di questa dea misteriosa, Clodio s’era introdotto in quella abitazione, travestito da donna, ma era stato scoperto. Ne era nato un enorme scandalo. Nessun uomo poteva entrare in uno dei luoghi dove si celebrasse la Dea Buona. Nemmeno i topi maschi erano ammessi, si diceva. L’amante della moglie di Cesare aveva profanato platealmente uno dei riti più antichi e più segreti.

Eppure, aveva giurato Clodio, lui non c’era, quel giorno lì, a Roma. Era a Interamna sul Liri. Aveva dei testimoni.

 

Cicerone invece lo sbugiardò in tribunale, sostenendo che proprio in quella data, il cinque di dicembre, Clodio si era recato da lui, a Roma, per parlare del più e del meno, dato che, fino ad allora, Clodio e Cicerone erano amici.

Nessuno sa perché Cicerone smentì l’alibi di Clodio in modo così smaccato. Plutarco sostiene che fu Terenzia, sua moglie, a sobillarlo, perché lo vedeva troppo vicino a Clodia, la seducente sorella di Clodio, e voleva che rompesse con lui e con tutti i suoi pericolosi parenti. Ma non si sa se le cose stavano veramente così e non ci fosse forse dell’altro. Dell’altro che avesse a che fare magari con Cesare. 

Sta di fatto che la lex Clodia fu approvata. Che Cicerone, il salvatore della Patria, lasciato solo, dovette abbandonare Roma e andarsene in esilio. La sua casa fu prima saccheggiata e poi distrutta da Clodio e dalle sue bande di facinorosi. E pensare che Cicerone l’aveva comprata da Crasso, quella splendida casa sul Palatino, la zona bene della Roma antica, da cui si dominava il Foro. Gli era costata la cifra favolosa di tre milioni e mezzo di sesterzi.

 

Come in varie altre sue orazioni anche in questa De domo sua Cicerone non parla subito di ciò che gli sta veramente a cuore. 

Anche qui, davanti ai Pontefici, come già nelle cause che vedevano imputati Cluenzio o Marco Celio o Sestio, l’oratore si produce in lunghe divagazioni. Nella fattispecie si dilunga su Pompeo e sul perché gli sia stata conferita la cura annonae, cioè l’incarico di provvedere alla fornitura di grano per Roma; poi naturalmente passa a demolire la figura di Clodio, sua bestia nera, come già Catilina e come poi Marco Antonio. 

In effetti come poteva un sacrilego manifesto come Clodio permettersi di consacrare un tempio alla Libertà sulle rovine della casa di Cicerone? Oltre a questo su Clodio gravava il sospetto di rapporti incestuosi con l’affascinante sorella (Clodia-Lesbia).

 

Dopo questa lunga apoplanesis, ossia digressione estesa, solo al paragrafo 100 Cicerone espone la tesi centrale della sua argomentazione in favore della sua casa: se voi, Pontefici, sostiene l’oratore, mi reinsediate nella mia casa, allora mi sento realmente richiamato dall’esilio; se no questo mio non sarà un vero ritorno, piuttosto una pena perpetua. La mia casa è esposta alla vista di tutti; se nella sua area resta quello che non è un monumento, ma un sepolcro con l’iscrizione del nome del mio nemico è meglio per me trasferirmi altrove, conclude Cicerone (si manet illud non monumentum sed sepulcrum inimico nomine inscriptum, demigrandum potius aliquo est quam habitandum in ea urbe).

Viene stabilito un vincolo fortissimo, un legame potente e indissolubile tra la casa e la figura pubblica dell’uomo politico. La sua casa, visibile all’intera comunità, dato che è sul Palatino, dev’essere il simbolo della sua ricomparsa effettiva nella vita operosa di Roma.

Cicerone è la sua casa. Senza casa, niente Cicerone. Solo il suo spento simulacro.

Potenza di un edificio!

Già prima, quando rievocava gli atti intimidatori commessi ai danni dei suoi cari rimasti in Roma, il nostro oratore li associava alle analoghe violenze perpetrate contro la casa: alle mie pareti, al mio tetto, alle mie colonne e alle mie porte voi [Clodio e i suoi scherani] avete mosso una guerra nefanda e senza quartiere, ispirata da un odio invincibile (qui parietibus, qui tectis, qui columnis ac postibus meis hostificum quoddam et nefarium omni imbutum odio bellum intulistis…).

Quale tenerezza per la propria abitazione! Che affetto per questa casa, di cui si numerano le varie parti, in un elenco commosso! È quasi più di una persona in carne e ossa! Pare che i danni all’immobile di pregio siano per lui ancor più dolorosi da sopportare che le sofferenze inflitte ai familiari, alla moglie, ai figli piccoli.

 

Allora si capisce che la denominazione dell’orazione abbia subito la virata che ha subito. Da un neutro de domo sua a un partecipato e emotivamente coinvolto pro domo sua.

La deformazione del titolo, che poi è anche giustamente passata in proverbio, esprime plasticamente, concretamente tutto il valore, anche sentimentale, che la sua casa ha per lui, Cicerone, nobile progenitore, in questo, di schiere di suoi nipoti e nipotini postumi, l’abbiano letto o meno, cosa che in fondo non conta molto, tanto il comportamento risulta simile.

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