Un'antropologa sulla propria vecchiaia / Clara Gallini. Storia di una malattia

21 Aprile 2016

Un libro coraggioso, questo di Clara Gallini (Incidenti  di percorso. Antropologia di una malattia, Nottetempo), non solo perché affronta con sorprendente lucidità il percorso di una malattia, la sua, ma anche per come lo fa. Ci vuole un certo coraggio, oggi, a scrivere: “Ora sono vecchia – una parola che non usa più, resa orrorosa da quel linguaggio renziano che esorta alla rottamazione di quanto non sarebbe giovanile. Vechia e malata...”. In un'epoca in cui la cosmesi lessicale tenta in ogni modo di fare scomparire la vecchiaia, esorcizzandola attraverso eufemismi e slogan vincenti, ammettere (e accettare) con chiarezza la propria condizione è atto coraggioso.

 

E lo è anche il cercare di reagire al male e alle terapie invasive tentando di trasformare l'intero sistema terapeutico in un campo di osservazione per chi come lei, ha trascorso la vita “osservando e partecipando” come fa ogni antropologo. Allieva di Ernesto De Martino, Clara Gallini diventa, in questo ultimo lavoro, osservatrice partecipante di se stessa e dell'apparato umano, tecnico e simbolico che è la medicina, raccontandoci la storia di un corpo malato. Se Malinowski, padre dell'osservazione partecipante, cercava di “cogliere il punto del nativo”, l'autrice in questo suo percorso si sdoppia interpretando tanto il ruolo dell'osservatrice quanto quello del “nativo”, dell'osservato. Un viaggio nella malattia visto dal di dentro, ecco cosa emerge da questo racconto.

 

Nonostante la gravità del caso, Clara Gallini riesce a non perdere mai il senso dell'ironia, che emerge già dal titolo del libro e che pervade l'intera narrazione, riuscendo a rendere meno angoscioso il racconto, senza per questo rinunciare alla profondità.

 

La vecchiaia è in qualche modo solitudine, ma anche sempre maggiore attaccamento a cose e abitudini che ci hanno accompagnato nella vita. Le abbiamo conservate, ripulite, messe in un certo posto e così, quando le ritroviamo in ordine diverso, come accade all'autrice quando ritorna a casa dall'ospedale, ci pervade un senso di spiazzamento, di estraneità nel confronto di uno spazio che è il nostro, ma che per qualche motivo non lo è più del tutto. Poiché come scrive Clifford Geertz “vedere il mondo in un granello di sabbia non è un'operazione che solo i poeti possono fare”, Clara Gallini parte dalle sue reazioni ai cambiamenti per avviare profonde e interessanti riflessioni sulla memoria, su quali siano gli appigli a cui si aggancia la nostra mente per poi fissare in qualche parte del cervello, fatti, episodi, volti e voci della nostra esperienza.

 

Questo ripercorrere alcuni meandri del passato, conduce l'autrice a ricordare la propria vita, fin dall'infanzia, trascorsa in quella casa grande, in cui i bambini potevano scoprire luoghi segreti, angoli in cui giocare, imparare. La casa grande di una famiglia borghese dove Clara è stata educata come una bambina “per bene”, secondo i canoni dell'epoca e del ceto, ma questo non le ha impedito di conoscere il dialetto cremasco e le storie popolari raccontate da Lucia e da altre domestiche che servivano in casa, nonostante alle bambine fosse proibito parlare in dialetto. Chissà che non siano stati proprio questi veti a fare scattare, in futuro, la passione per la ricerca antropologica e, nel caso particolare dell'autrice, per le culture popolari.

 

Il racconto attraversa quasi un secolo di storia italiana (l'autrice è del 1931), passa attraverso l'esperienza della guerra e poi la ricostruzione, il boom economico e ogni esperienza che affiora alla memoria, diventa oggetto di analisi antropologica da parte di Clara Gallini, che si chiede cosa è il gioco (categoria quanto mai sfuggente), rilegge la guerra, i riti popolari, gli scherzi in famiglia: tutto diventa materiale di studio e questo a causa di un male che ti costringe a stare ferma, a rivedere tutto il tuo cammino fino all'oggi, a poggiare lo sguardo su quelle tante cose che, presi dalla quotidianità, guardiamo di sfuggita o nemmeno vediamo.

 

Fino alla nuova convivenza con una badante, Abilia, con cui si deve iniziare una nuova vita, quasi coniugale, dice l'autrice, solo il letto non viene condiviso. La casa, lo spazio più intimo viene ridisegnato dalla nuova condizione, tutto va riletto in una prospettiva a due, dettata dalla malattia. Ecco allora l'ultimo viaggio etnografico, quello attraverso gli oggetti di casa, quelli conservati perché legati a momenti significativi; anch'essi riemergono dalla loro presenza scontata per rinascere a nuova vita grazie a uno sguardo nuovo. Lo sguardo di chi osserva se stessa e la propria esistenza attraverso la lente della fragilità della malattia e della vecchiaia. Ricordare diventa quindi quasi un imperativo per ritrovare nell’ieri gli strumenti di lotta contro l'oggi che ti affligge. Il tutto narrato sempre con incredibile leggerezza. A un certo punto Clara Gallini racconta delle “visioni” che ha avuto dopo gli interventi chirurgici e in altri momenti della malattia, in una delle quali era addirittura morto l'ex Pontefice Joseph Ratzinger. Qui la capacità di scrittura dell'autrice fa sì che si riesca a giocare sul filo del rasoio tra gravità del fatto di perdere il senso della realtà e una certa leggerezza che induce a guardare questi fatti con sorriso. In fondo, sono solo incidenti di percorso.

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