Clint Eastwood. J. Edgar

11 Gennaio 2012

Con J. Edgar  Clint Eastwood ha realizzato un nuovo capitolo della sua personale storia della violenza negli Stati Uniti. Quello definitivo probabilmente, dal momento che affronta la biografia di una figura chiave come Edgar J. Hoover, il potentissimo direttore dell’FBI che guidò e riformò il bureau dal 1924 al 1972, anno della sua morte, e servì il Paese sotto ben otto presidenti.

Con uno sguardo complessivo che comprende l’America del Duemila di Mystic River, quella dell’omicidio Kennedy di Un mondo perfetto, della Guerra mondiale di Flags of Our Fathers, della Grande depressione di Changeling, e a ben guardare anche l’America del grande west, in cui anche un assassino come William Munny poteva far fortuna con il commercio, J. Edgar racconta la nascita del sistema di repressione della criminalità come strumento di controllo e potere.

 

Hoover, in quanto personaggio storico, è dato quasi per scontato, come se tutti gli spettatori fossero a conoscenza dei lati oscuri che hanno segnato la sua parabola in cinque decenni di storia americana (viene in mente il ritratto grandguignolesco che ne fa DeLillo nel primo capitolo di Underground). Ma senza per questo dimenticare le debolezze del film, tra cui l’uso sconsiderato del make up sul volto di tutti gli attori, è evidente che a Eastwood interessano soprattutto due cose: la gestione dell’informazione e la confluenza tutta americana, meglio ancora hollywoodiana, tra dimensione privata e sfera pubblica.

 

 

Scandito da continui andirivieni temporali, il film è per intero narrato dalla voce off di Hoover: non è una storia, bensì la sua “versione della storia”. La convinzione di Hoover di essere nel giusto, di lavorare per la difesa del Paese e combattere contro i suoi nemici interni, immerge il film in una luce di ambiguità, al contempo sinistra e consapevole. Sconfessato nel finale dal suo unico amico, il collega e forse amante Clyde Tolson, che lo accusa di aver preteso per sé tutta la gloria e di aver distorto i fatti, Hoover è messo a nudo nella sua fallibilità e di conseguenza anche il film, che in questo modo mette in discussione il proprio sistema di rappresentazione.

 

La confluenza tra soggettività e oggettività è evidente in ogni aspetto di J. Edgar. Fin dal titolo, quello di Eastwood non è un biopic storico, bensì privato, quasi intimo, con la personalità gigantesca e infima di Hoover a farsi specchio e filtro della società. Ossessionato dall’idea del controllo, dalla gestione dei segreti, dall’intrusione nelle vite altrui, Hoover concepisce la vita americana come un grande, inconsapevole spettacolo; un palcoscenico che permette di osservare, spiare, giudicare le vite dei cittadini e che costringe ogni membro della comunità a far coincidere responsabilità individuale e azione pubblica.

 

 

L’equazione del suo ragionamento è tanto semplice quanto pericolosa: come egli, J. Edgar Hoover, riesce a frenare le proprie pulsioni, a “essere forte” come si ripete di continuo allo specchio, anche gli Stati Uniti per continuare a esistere devono soffocare la loro wilderness, il loro naturale spirito rivoluzionario, violento o emancipatore. Per questo esistono l’FBI e – colpo di genio di Eastwood e dello sceneggiatore Dustin Lance Black – il cinema hollywoodiano.

 

E Hoover che trasforma l’attore James Cagney da simbolo del gangster a prototipo del “g-man”, anticipando l’ambiguità che anni dopo avrebbe ammantato la figura dello stesso Eastwood nei panni dell’ispettore Callaghan, non fa che riassumere il segreto della seduzione pubblica operata dal cinema: l’unione in una sola icona di sovversione e legalità, la resistenza a ogni forma di racconto di una realtà in cui violenza e repressione sono intrecciate.

 

 

È dunque questo intreccio che Eastwood individua all’origine della democrazia americana. E naturalmente, inserendosi nel solco del cinema classico, lo rappresenta in chiave simbolica e individuale. Ma il principio che John Ford affermava in Alba di gloria, quando mostrava il giovane Abramo Lincoln vincere una gara di tiro alla fune barando spudoratamente, e cioè che in democrazia privato e pubblico vanno negoziati, che ciò che nel primo è concesso a certe condizioni, nel secondo va riconsiderato, con J. Edgar Hoover viene stravolto.

 

L’ufficiale di polizia, l’omosessuale represso, l’invidioso uomo di potere con la tentazione del travestitismo, sceglie di barare nel pubblico perché bara sopratutto con se stesso nel privato. E in questo modo condanna l’America di ieri e di oggi a combattere le sue guerre talvolta anche giuste con metodi sbagliati, dimentica dei principi democratici e del suo istinto di nazione votata per natura al cambiamento.

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