Lettere dal confino / Contro le virgolette (ma anche contro gli a capo)

3 Novembre 2019

Detesto le virgolette. Le accetto, ma dovrei dire le tollero, soltanto come segno grafico di un dialogo. A volte, per non dire sempre, lo scrittore deve uniformarsi allo stile dell'editore. Sin dall'inizio segnalavo i dialoghi con un sobrio trattino ma nel tempo le virgolette hanno vinto anzi stravinto. Le virgolette sono il simbolo della volgarità contemporanea. Neanche gli accapo andrebbero lasciati all'editore. Kafka non andava a capo. Perché un libro è soltanto scrittura. Uno spartito non va mai a capo, si volta pagina. La vita dello scrittore è grama e piena di sconfitte. Si combattono singole inutili battaglie, piccole enclave dentro una battaglia già persa. No, le virgolette non andrebbero mai usate. Non andrebbero scritte né accennate con la punta delle dita, non andrebbero neanche pensate. Se un uomo pensa con le virgolette toglietegli il saluto. A quelli che le annaspano in aria davanti ai miei occhi stupefatti non rispondo affatto, annichilito dalla loro incoscienza. I poeti si prendono una grande responsabilità andando a capo così di frequente ma per l'appunto scrivono dei versi, chiamati così nella loro completezza concatenata che deve avere un suo perché. Se questo perché scarseggia – maledizione, sentite il bisogno delle virgolette attorno al perché? – si dubita addirittura del canto.

 

Che poi il canto esca dallo spartito è parte del gioco e si chiama sorpresa, ma un senso deve esserci altrimenti si allunga la minestra e non si fa poesia. Un verso è qualcosa a cui è già stato tolto l'inessenziale. La servante au grand cœur dont vous étiez jalouse. Dimostrando con una fava due piccioni. Ho sostituito le virgolette con un classico corsivo. Ho dimostrato che un verso deve proprio finire. Il prosatore è come il camminante e deve tenere il suo passo. Può capitargli due o tre volte nella vita di scrivere dei versi e allora se Dio vuole andrà pure lui a capo.

 

Si endecasillaba, si fa poesia ma con materia lavica. Un fiume di lava, questa la metafora più nobile. Ma anche torrente impetuoso, come ne appaiono nella poesia di Fabio Pusterla, anche fiume in piena, anche melma, anche canale, anche scolo di acque putride… Dove il flusso è artificiale e maleodorante si va molto a capo – qualcuno noterà la variazione, voluta – e le virgolette volano felici. Si scrive Harry Potter o ci si trasforma in Elena Ferrante. Canali artificiali che portano acqua a campi viziati, che morirebbero subito se non li innaffiate e che infatti spariranno quando dovranno confrontarsi con le immense pianure ucraine. Il vero flusso della scrittura è un fiume incandescente che distrugge tutto quello che incontra, non è affatto amico. Annichilisce la vostra storia personale, la vostra casa, la vostra famiglia, tutto e tutti. Non si tratta di un fiume di lacrime ma piuttosto di risate, a saper ridere quando è il momento. Il pubblico piange perché sa soltanto piangere, come i bambini piccolissimi, che spezzano il pianto continuo con rare risate liberatorie. No caro pubblico se vuoi farti consolare vai dalla mamma perché io non ti sono madre e neppure parente, il patto è rotto. Non sei più capace nemmeno di ipocrisia, mi sei indifferente, in un certo senso ti ho messo tra virgolette, come entità che non significa niente. Non voglio parlare del pubblico, che resterà fuori da questo sproloquio. Mi sembra più interessante affrontare il problema del rigo bianco – così si chiamava in tipografese e così lo chiamerò anch'io. Si può mettere un rigo bianco? Come ci si comporta quando finisce un capitolo e presumibilmente ne comincia un altro? Comincerò dalla seconda domanda rispondendo anche alla prima in conclusione. Lo farò fingendo che questo sia un capitolo – la stanza della poesia, il movimento nella musica, eccetera – con un semplice esempio: Capitolo 2

 

Alla faccia di chi dice che non vado mai a capo! Ecco un'altra eccezione, una crepa di tutto il mio discorso. A mia discolpa direi soltanto che c'è un a capo ma non c'è un rigo bianco. Detesto questo artificio di alcuni prosatori. Il capitolo finisce in due righe su una pagina bianca. E il nuovo capitolo inizia nell'altra. Per non dire di quelli che ormai molto tempo fa facevano partire il capitolo sempre in bianca e mai in volta. Solo persone di una certa età mi capiranno. Cosa manca a questa mia proposta grafica? Un grafico editoriale obietterebbe: la pagina non respira! ma mio caro la pagina deve avere altri respiri, questo è un belletto che non serve a niente. Si usa per arrivare a pagina 101 quando ne hai scritte sessanta, divise però da almeno venti capitoli. Chi vuole arrivare a pagina 101 non è uno scrittore, che per definizione non scrive mai poco ma troppo. Duecento pagine per salvarne una soltanto, e qui diciamo anche dal punto di vista artigianale il lavoro è simile a quello del poeta, qui esattamente a questo punto si incontrano, nella sublime ma sconosciuta arte del racconto, mentali e fetenti manufatti, capaci di travolgerti nella loro brevità come un fiume incandescente. Il meglio del narratore è nel breve ma di solito deve prima attraversare il vasto perché sente il bisogno di perdersi, essendo anche il perdersi nella sua natura. Il fiume si perde nella pianura. Dovunque vada è pianura. Alcuni sono travolti altri sono esclusi. 

 

Opera di Nico Krijno.


Ora si chiederà: ma che diavolo vuoi con questa storia delle virgolette e dei righi bianchi? Cosa c'è dentro questi simboli? La domanda non è impertinente, un contenuto dovrebbe esserci ma purtroppo spesso non c'è. Neanche i libri e le librerie sono amici dello scrittore. Dei lettori ho già detto abbastanza: non avrete spazi bianchi da me, e neppure virgolette. Del resto quali lettori? I lettori si sono fatti scrittori. Peccato, forse erano ottimi lettori e sono diventati degli scrittori dilettanti (parola sempre spregevole). Leggono per scrivere, i miseri. E dovrebbe essere il contrario. Lo scrittore vero legge per leggere, legge per credere che è possibile scrivere, legge per dimenticare, ha imparato a sue spese che lo stile non è imitabile. Lettore e scrittore si confondono, nella magia, e chi scrive lo fa per imparare a leggere meglio. Perché tutto si confonde e non appartiene niente a nessuno, a quel punto l'autore non c'è, al massimo è un lettore di se stesso. Il segreto della letteratura, se ne esiste uno, è nel lettore e non nello scrittore. Tra gli enti inutili o parassitari non si può dimenticare il ruolo della critica, che a parte la parola non ha niente a che vedere con la base del pensiero (appunto critico) moderno. Se è decaduto il lavoro dello scrittore quello del critico è ancora più in basso, ormai assimilabile a quello elettronico dell' hater, spregevole e rappresentativa figura contemporanea. Già da decenni nelle buone famiglie (parlo cioè di famiglie con soldi, quindi di solito rozze e incolte più delle altre) si destinavano i non pochi figli cretini alle attività letterarie e giornalistiche. Nasceva la ridicola figura italiana del "giornalista e scrittore", cioè del nulla moltiplicato due.

 

Ma a volte il figlio stupido può essere così stupido che neanche lo scrittore e giornalista, gli si può lasciar fare, neanche nel giornale di famiglia. Anche per scrivere un banale giallo ci vuole un minimo di abilità. Scrittore è sinonimo di magistrato in pensione, che naturalmente ci propone dei gialli investigativi, sempre che il magistrato non sia troppo impegnato come onorevole o come consigliere di amministrazione della RAI. Eh, questi magistrati, hanno davvero poca voglia di lavorare viste le mille attività che preferiscono svolgere pur di non fare i magistrati: ma perché diventano magistrati se non hanno voglia di fare i magistrati? In questi casi c'è a disposizione la figura più estrema e inutile: il professore, magari nella sua casella più bassa, e cominciano a vedersene parecchi, che pontificano e castigano, i nuovi haters della letteratura cialtrona italiana. Mario Luzi era un imbecille, dicono, Gadda un noioso rompiscatole, Montale non era granché. Parlo di giovanotti che scrivono e pubblicano libri, assunti da qualche università perbacco, ma da chi, esattamente? sarebbe interessante saperlo, soprattutto per la magistratura, se esistesse. O per un Ministero della cultura, se esistesse. Sono grandi fornitori di elenchi, questi giovani critici: questi sì, due o al massimo tre, questi no, tutti gli altri. Accipicchia che cattivi! che severi! li chiameranno in tv, prima o poi, e da lì grideranno anche loro parolacce e daranno a tutti dell'asino! Per farla breve ammetterò la mia sconfitta su tutti i fronti, nulla cambierà e tutti diranno che stanno combattendo per cambiare. La figura dello scrittore è ormai quella di un Pulcinella ubriaco ritratto da Tiepolo, magari con la bandana al posto del mascherone.

 

Chi scrive è un cialtrone, chi scrive di quelli che scrivono è ancora più cialtrone e Pulcinella di lui. Riformeremo la RAI, i partiti mettano giù le mani, la riforma della scuola, la riforma della pubblica amministrazione, dell'ordine post-fascista dei giornalisti che ogni giornalista dice di combattere da anni, e così via, Pulcinella dopo Pulcinella, cialtrone dopo cialtrone. Certo, vedere certi vecchi panzoni protestare davanti a Montecitorio per la libertà di stampa fa abbastanza impressione: proprio loro che sono la negazione perfetta, della libertà di stampa. Ci vuole una certa faccia tosta, ma Pulcinella non ha faccia. No, non vi chiedo di cambiare niente e so accettare le sconfitte. Ma almeno sulle virgolette voglio illudermi ancora una volta: smettete di usarle, maledizione, rendono nervosi i lettori, e questo intervento spero lo dimostri. Le virgolette sono offensive, e non c'è giornale che non ne usi a decine in ogni pagina. Non per citare qualcuno o una frase, ma per evidenziare una parola, per dire e non dire, insomma il contrario di quel che dovrebbe essere la scrittura. Se c'è ancora qualcuno che scriva per necessità e per vocazione sappia che il suo destino di emarginazione è segnato. Niente è più imperdonabile del talento, in questo paese. A loro raccomando, con affetto e amicizia, di mantenere il più assoluto silenzio. Scrivete e non pubblicate, questa è la scelta giusta e io purtroppo non ho avuto il coraggio di farla. Una persona perbene non deve esporsi in pubblico, non deve mai dichiararsi come scrittore. Sto leggendo in questi giorni due grandi scrittori, autori di testi importanti e profondi.

 

Entrambi sono respinti da tutti gli editori italiani e nessun giovin critico perderebbe tempo con loro, anche perché non sarebbe in grado di capirli. No, non sono facilissimi da leggere, non sono amiconi ammiccanti, non sono lecchini, cioè non sono nostri contemporanei. Preferisco non fare il loro nome, perché metterli ancora di più in difficoltà? Dirò soltanto, orrore degli orrori, che hanno entrambi grande familiarità con la poesia. Sono entrambi coltissimi e tra le altre qualità traducono da diverse lingue. Ma voglio dare in chiusura ai giovani autori perbene che ho immaginato il mio ultimo consiglio. Dopo aver composto l'opera, in una delle mille forme possibili, prendete i vostri fogli e gettateli in un torrente. Se siete ambientalisti avrete usato carta di pura cellulosa e svanirà nel nulla come un sottile nutrimento. La vostra scrittura arricchirà mezzo metro di melma, la renderà più fertile, e non mi sembra poco. Dio è l'inconnue. E sarà il vostro prezioso, unico lettore.

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