Un'analisi degli oggetti della cultura di massa oggi / Critica
La tradizione di pensiero della modernità ha attribuito un ruolo importante alla capacità dell’essere umano di esercitare un ruolo critico verso la cultura della società in cui vive. Ciò è risultato evidente soprattutto nelle riflessioni che sono state sviluppate nei confronti della cultura generata dai media. Roland Barthes, ad esempio, ha fatto vedere già negli anni Cinquanta, nel celebre testo Miti d’oggi, come sia possibile criticare i miti della cultura di massa. Ha mostrato cioè che si può tentare di «demistificare» i messaggi dei media e dell’industria culturale. A dire il vero, prima ancora di Barthes, era stato Marshall McLuhan a indicare già nel 1951, con il volume La sposa meccanica, che i messaggi della cultura di massa potevano essere trattati esattamente allo stesso modo dei testi letterari e dunque sottoposti a una rigorosa analisi critica. E dopo McLuhan e Barthes, com’è noto, anche Umberto Eco e altri intellettuali hanno fatto vedere la possibilità di un’analisi critica dei messaggi della cultura di massa. L’approccio sviluppato da Barthes ha influenzato anche l’attività di ricerca esercitata dalla cosiddetta “Scuola di Birmingham”. Scuola dalla quale è derivato negli ultimi decenni il ricco filone di ricerca dei cultural studies, il quale continua a porsi il problema di un’analisi approfondita degli oggetti della cultura di massa, ma ha rinunciato generalmente ad adottare nei confronti di tale cultura un punto di vista critico. Del resto, il processo di diffusione della cultura postmoderna, caratterizzata da un profondo relativismo nel quale tutto si mescola e si annullano perciò anche i criteri di valutazione, sembra aver definitivamente messo in crisi il soggetto critico della modernità.
Anche Internet e le tecnologie elettroniche oggi disponibili, con le loro crescenti possibilità espressive, hanno contribuito a ciò. Si è infatti fatta largo l’idea che ogni messaggio della cultura di massa dev’essere considerato, non come qualcosa che è dotato di significati già definiti, ma come una proposta per un destinatario al quale è lasciato il compito di definirne il senso finale. Gli individui sono così spinti verso lo sviluppo di forme personali d’espressione e la società tende di conseguenza a mitizzare il ruolo da essi svolto. Ciò porta a indebolire la necessità sociale dei tradizionali intermediari culturali (critici cinematografici, letterari, gastronomici, ecc.), che erano in grado di distinguere e riconoscere la qualità e l’affidabilità di chi emetteva un messaggio. Si è originato pertanto un terreno estremamente vischioso nel quale è sempre più difficoltoso valutare l’operato delle singole persone e le forme espressive circolanti nella Rete. Ciò mette in difficoltà anche i motori di ricerca, a cominciare da quello di Google, che assegnano un valore d’importanza alle pagine online in base alla quantità dei loro link, ma anche all’attendibilità e all’autorevolezza degli autori e delle testate che le citano.
Ma è possibile oggi adottare una strategia che si confronti alla pari con la cultura mediatica nel momento in cui il soggetto critico della modernità non possiede più la forza di un tempo e l’approccio postmoderno ha dimostrato di non essere in grado di prenderne il posto? Una possibile strategia è quella che è stata indicata dall’artista Andy Warhol, il quale era consapevole dell’esistenza del processo di tramonto della realtà e cercava di combatterlo registrando ossessivamente tutto quando gli accadeva nella vita quotidiana. Soprattutto, con la registrazione di ciò che veniva trasmesso dai media e dalla televisione cercava di fare ricorso a un paradossale “effetto omeopatico”, in quanto, a suo avviso, come ha scritto Anna Luigia De Simone nel libro Andy Warhol’s Tv, «l’immagine registrata prende il posto della realtà ma, allo stesso tempo, cela l’ultima possibilità rimasta di entrare in contatto con il reale: probabilmente è l’unica apparizione capace di scuotere dal sonno della realtà indotto dai media» (p. 57). La strategia di Warhol però è perdente, in quanto è costretta a inseguire un flusso sovrabbondante di linguaggi che è inevitabilmente fuori dalla portata delle limitate capacità dell’essere umano.
Una strategia alternativa è quella che è stata proposta da tempo da parte di Walter Benjamin, il quale ha sostanzialmente indicato la possibilità di sostituire la tradizionale prospettiva esplicitamente critica con un metodo “dialettico”. Benjamin cioè pensava che la critica più radicale potesse essere esercitata dagli individui cercando di entrare in profondità all’interno di ciò che li affascina. Attraverso cioè un attento lavoro di selezione e accumulo di materiali espressivi, Benjamin riteneva di poter far emergere dalle immagini stesse, quasi in maniera automatica, un punto di discontinuità, vale a dire un riferimento in grado di consentire agli individui di affrontare quella cultura mediatica che quotidianamente li sommerge.