Dash Snow: preservare il momento

27 Febbraio 2014

Non si muore a 27 anni per quattro bottiglie d'acqua e due pacchetti di Malboro Reds al giorno. Tuttavia ci si può convivere e documentare tutto ciò che nel frattempo si crea e si distrugge con una macchina fotografica. Quella di Dash Snow era una Polaroid scelta per combattere un'impazienza tanto forte che, raccontano gli amici con cui a vent'anni ha messo sottosopra Manhattan dalla 23ma in giù, aspettare più di un minuto lo sviluppo dell'immagine diventava spesso un'attesa troppo lunga.

 

A 13 anni, Dashiell "Dash" Snow, era già stato ricoverato in un centro della Georgia per curare ostilità, disobbedienza e presunte devianze. A 18 anni sposa Agathe Snow. A vent'anni scappa, rompe con i genitori e si trasferisce a New York per diventare quello per cui verrà poi ricordato, nell'ordine: vandalo, writer e fotografo.

 

Ad accomunare tutto questo, queste vie d'uscita, c'è lo storytelling. "Cerco di preservare il momento" dice ai giornalisti del Wall Street Journal che nel 2006 lo inseriscono tra i 10 artisti ventenni da seguire con attenzione, "fotografo per registrare ciò che non potrò ricordare il giorno dopo".

 

Quando la mattina del 13 luglio 2009, quindici giorni prima di compiere 28 anni, Dash Snow viene trovato morto in un hotel, per niente economico, di Manhattan la sua storia diventa improvvisamente mainstream per le ragioni più ovvie: è nipote di Uma Thurman e proviene da una famiglia aristocratica francese con importanti affari nel petrolio texano e nell'immobiliare.

 

Il suo migliore amico, il fotografo Ryan McGinley, che una settimana dopo la sua morte scrive un lungo ricordo per Vice, lo racconta così: in lui c'era tutto ciò che avrei voluto fotografare, e tutto ciò che avrei voluto essere. Irresponsabile, senza regole, senza paure, selvaggio, ricco.

 

Dash Snow by Terry Richardson

Disobbedienza, graffiti e Polaroid. Sono le fondamenta su cui cresce il lavoro di Dash Snow, e non c'è modo di separare questi elementi. Nell'appartamento di Avenue C, downtown Manhattan all'altezza del Village, un rifugio con i muri tappezzati di foto di Saddam Hussein, armi, riviste porno e copertine del New York Times, insieme a Ryan McGinley passano le giornate ad analizzare ognuna delle 300 fotografie di American Pictures, il lavoro che alla fine degli anni '70 Jacob Holdt realizza sulle sottoculture e gli emarginati americani. Quando i due escono sulla strada documentano con la macchina fotografica le loro avventure per confrontarle con quelle raccontate nel libro di Holdt. E lo fanno a modo loro.

 

Una notte, sulla Tenth Street, mentre Dash incendia un albero di Natale esplode un'automobile, scappa in Texas quando l'amico Jack Walls, l'artista, il compagno e soggetto di molte delle foto di Robert Mapplethorpe, gli racconta che i poliziotti sono sulle sue tracce, ma in realtà non c'è nessun poliziotto, è tutta una storia inventata dallo stesso Jack Walls per tenere Dash Snow alla larga da New York qualche tempo.

 

Insomma, questo è quel clima di performance, amicizia, arte e competizione di cui si nutre il gruppo, una perenne guerra tra bande bohémien. Intanto, Dash Snow fotografa i casi più estremi di dipendenza che si possano immaginare a downtown Manhattan. Insieme a Ryan McGinley incontrano e lavorano con fotografi che avrebbero poi raccontato le subculture newyorchesi e che faranno crescere progetti come Vice: Bruce LaBruce, Richard Kern, Terry Richardson, Patrick O’Dell.

Sono tutte storie di libertà, liberazione ed edonismo. L'approccio degli anni 2000 non è più quello di dieci e venti anni prima. Mentre negli anni '80 Nan Goldin e Larry Clark fotografavano l'ansia dei giovani americani e i loro percorsi di autodistruzione, Dash Snow e Ryan McGinley pensano in modo più immediato, non giudicano né vogliono salvare alcun mondo: The kids are alright, dicono, i ragazzi vivono le loro vite dietro gli angoli delle strade e per incontrarli basta sapere dove si nascondono, basta sapere dove guardare.
 

Dash Bombing, Foto di Ryan McGinley

Il Whitney Museum, nel 2006, ospita Dash Snow nell'ambito della biennale d'arte americana. Seguono la Royal Academy di Londra, il Palais de Tokio di Parigi e naturalmente la Saatchi Gallery a Londra, con Charles Saatchi che diventa tra i principali collezionisti dei suoi lavori.

 

Dash Snow by Terry Richardson

 

Il New York Times, quando diventa un artista con un curriculum interessante smette di considerarlo un vandalo e lo definisce un "downtown Baudelaire" ma, soprattutto, quasi tutti oggi leggono la sua biografia finiscono per paragonarlo a Jean Michel Basquiat. Ad accomunarli c'è New York, la morte a 27 anni, l'overdose e le zone che per anni ha frequentato con lo spray, firmandosi SACE. In realtà Dash Snow non è mai stato il Basquiat della fotografia, non è stato assorbito nel tritacarne dell'arte contemporanea, non è mai stato obbligato dalla sua gallerista a produrre immensi quadri a cottimo per ricchi collezionisti né Armani non ha disegnato elegantissimi abiti macchiati di vernice da indossare alle inaugurazioni. E, probabilmente, i due sono morti per ragioni opposte: Basquiat per aver partecipato troppo al gioco dell'arte, Dash Snow convinto che le sue opere non fossero poi così originali per interessare quel mondo.

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