Underland / Dentro le grotte inesauribili del tempo

30 Novembre 2020

Non staremo qui a cercare tutti i testi che Robert Macfarlane avrebbe potuto citare (e invece non l’ha fatto) in questo periplo immaginifico intitolato Underland. Un viaggio nel tempo profondo (traduzione di Duccio Sacchi, Einaudi, ottobre 2020). Non lo faremo perché il filologismo caricaturale che cerca il pelo nell’uovo non può capire che il destino dei buoni scrittori è essere sé stessi anche (e proprio) nelle lacune. Se questo libro, nelle intenzioni dell’autore, avesse voluto essere un centone di citazioni di geo-estetica sotterranea, o una carrellata di diapositive proiettate sul muro della cantina del proprio io, allora non avremmo avuto Underland che, in bilico tra Atlas Obscura del mondo ctonio e Wunderkammer narrativa, offre al lettore un dispositivo di cattura dell’immaginario, un metodo, non una delle epitomi che tanto piacciono a ogni fine impero. E questo metodo, tra i più difficili da gestire e comunicare in modalità metacognitiva, consiste nel cercare connessioni tra ordini di fenomeni disparati. «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». Gregory Bateson enunciava così il progetto dell’intellettuale della complessità e Robert Macfarlane sceglie un tema addirittura bulimico e lo declina alla ricerca della sua personale trama di legami. Quale struttura connette dunque una grotta calcarea con impronte di mani in ocra rossa, la tomba del 4000 a.C. di una giovane donna morta di parto e sepolta con il figlio, il labirinto del Minotauro rappresentato su una moneta d’argento, il ritratto funebre di una giovinetta egizia, le gallerie di una miniera africana dell’Ottocento, la grotta himalayana dove una donna ha meditato per settantacinque giorni di fila, la rete di sotterranei a Ghost Dance destinati allo stoccaggio di scorie radioattive, il budello speleologico in cui dodici ragazzi e il loro allenatore di calcio sono rimasti intrappolati a causa di una piena?

 

 

Macfarlane lo dichiara subito: «In tutte le epoche e culture ricorrono sempre le stesse tre funzioni: proteggere le cose preziose, produrre le cose pregiate, eliminare le cose nocive. Proteggere (ricordi, sostanze preziose, messaggi, esistenze fragili). Produrre (informazioni, ricchezza, metafore, minerali, visioni). Eliminare (scorie, traumi, veleni, segreti). Nel mondo di sotto riponiamo da sempre ciò che temiamo e desideriamo perdere e ciò che amiamo e desideriamo salvare» (p. 9). Così l’autore sceglie dei luoghi ctoni, in Somerset, nello Yorkshire, a Parigi, nel Carso, in Norvegia, Groenlandia, Finlandia, e organizza il viaggio ideale e concreto in azioni-guida, un’agenda simbolico-esplorativa che traccia una linea di progressione nella discesa sotterranea, nello scavo intellettuale: scendere, vedere, nascondere, infestare, riemergere. La cornice narrativa è un’icona ipersatura, l’albero sciamanico, il frassino cosmico Yggdrasill, tra le radici del quale si apre il mondo di sotto, un labirinto che è anche una biblioteca di exempla, dove «lo spazio si comporta in modo strano, e il tempo pure» (p. 6). È dunque questa idea di tempo, un tempo diverso, che scorre come un’anomalia, che resta sempre in sottotitolo ma è parola-chiave, è questo tempo che fa da ponte concettuale, da “struttura che connette” gli exempla, i luoghi, le azioni, le funzioni e anche le zone sepolte della mente del lettore che recupera in sé materiali e che pagina dopo pagina li aggiunge alla Grande Caverna di Babele. Non una torre che ardisce sfidare Dio, ma il suo negativo speculare, scavato nel cervello della specie.

 

L’inglese William Morris pubblicava La terra cava (The Hollow Land) nel 1856. Il francese Jules Verne pubblicò Viaggio al centro della terra (Voyage au centre de la Terre) nel 1864. Robert Macfarlane, che non parla del suo conterraneo e che liquida il secondo in una riga, ci sta invece chiedendo di collaborare. Sta a noi lettori, insomma, fare tesoro della lezione di metodo e far reagire le tesi dell’autore con le sue stesse lacune. Morris e Verne infatti intuiscono precocemente il nesso centrale tra mondo sotterraneo e anomalie temporali. Nel primo libro il tempo ctonio è fermo ma chi si sottrae a esso, chi ne esce, si ritroverà invecchiato e infelice. Nel libro di Verne, invece, la sacca temporale ha preservato il prima più remoto e i protagonisti entrano in una bolla sospesa ma ne escono (apparentemente) uguali a prima. Il vero reagente per attivare però le potenzialità latenti di Underland è un altro testo di Verne, Indes noires (1877), nella lettura d’eccezione che ne fa Michel Serres. Scozia, una miniera esaurita, poi la scoperta di un ipogeo fantastico ricco di vene di carbone e di un lago.

 

 

I minatori vi fonderanno una città sotterranea. E qui Serres: «Resta il mistero in questo microcosmo chiuso, che nessuno lascia più come se si trattasse di uno spazio insulare. Un’isola è una terra circondata d’acqua, sopra l’acqua Coal-City è un’acqua circondata di terra, sotto la terra: il mondo alla rovescia» (Jules Verne, Sellerio 1979, p. 27). Basterebbe questa coordinata, il paradigma dell’insularità, per trovare in Macfarlane la doppia geografia concettuale che regge l’architettura del libro. Come spiegano i semiologi, bisogna sempre iniziare dalla fine e, nelle conclusioni di Underland, leggiamo: «L’uscita del mondo di sotto è una conca d’acqua, dove nove fonti cristalline sgorgano dalla roccia» (p. 361). Un’isola lirica dopo l’epica del sottosuolo. L’autore esce insomma dal libro, e per uscirne deve modificare la geografia emotiva del viaggio, passando dal tempo geologico al tempo biologico, dalla terra cava dove il tempo scorre diversamente alla vita effimera degli umani. Un prisma narrativo in cui abisso e istante si toccano. E l’immagine finale, come in La strada di Cormac McCarthy, è appunto quella di un padre e di un bambino.

 

Lo stile quasi incantatorio di Macfarlane, la visibilità direi tipicamente anglosassone, a tratti da incisione naturalistica vittoriana, le atmosfere alla Randolph Henry Ash in Possessione di Antonia Byatt, la poesia sempre onesta di ciò che accade, la ricchezza e il garbo di micce che fanno luce e non detonano, rendono Underland un libro molto bello da leggere, un flusso narrativo di autoracconto e di Mille e una grotta dove il piacere arriva quasi ad attenuare il bisogno (per alcuni) di estrarre alla fine un qualche paradigma, una cifra narratologica ed ermeneutica che possa aiutare il lettore creativo a leggere nuovi mondi complessi dentro il proprio universo accidentale. Personalmente, in questo libro, vedo realizzato il progetto appena vagheggiato da François Dagognet nel saggio Une épistémologie de l’espace concret. Néo-Géographie (Vrin, Paris 1977) che, rimasto pressoché sconosciuto, è forse il punto più lontano mai raggiunto dalla teoria dell’immaginario geografico. L’idea è semplice ma barbaramente complicata da realizzare: ogni geografia ne contiene un’altra, in ogni paesaggio c’è un altro paesaggio incistato, come un palinsesto che attende un composto arsenicale, una qualche reazione chimica del pensiero o della memoria per apparire come uno spettro sulla pergamena dell’adesso-qui. Ecco allora. Macfarlane, che è il Bruce Chatwin di questi anni di surnomadismo, sa farlo davvero. Sa mettere insomma in risonanza luoghi e tempi diversi usando una delicata empiria che non è mai fasulla, mai forzata. Detto in modo brutale, nei suoi libri, in questo in particolare, sa usare le anomalie temporali di cui è capace la scrittura per collegare particole di spazio terrestre. Magari allora vi piacerà seguire con lui Knud Rasmussen a nord di Apusiajik, ma quello che incontrerete nel rizoma dell’iperoggetto spazio-temporale del libro e del geo-cosmo che racconta è un cronotopo tutto vostro che nel libro non c’è. 

 

 

Un’ultima cosa, infine, che non si può eludere qui per disparate ragioni: l’Antropocene. Macfarlane ne parla in continuo, una cinquantina di occorrenze, ma c’è un passaggio davvero importante che va citato per intero a beneficio degli scrittori nostrani, affascinati dal turn: «Come possiamo interpretare l’Antropocene, con le sue energie interattive, le sue caratteristiche emergenti, le sue strutture nascoste? Come possiamo anche solo parlarne? Perché è difficile non solo parlare dell’Antropocene, ma anche parlare nell’Antropocene. La cosa migliore, forse, è immaginarlo come un’epoca di perdita – di specie, di luoghi, di popoli – per la quale stiamo cercando una lingua del lutto e soprattutto, e ancor più difficile da trovare, una lingua della speranza. La teorica della cultura Sianne Ngai afferma che di fronte a un trauma o a un lutto siamo capaci di parlare della nostra esperienza solo in un “linguaggio ispessito”. La comunicazione ispessita, osserva Ngai, mette alla prova la nostra consueta capacità di “interpretare o rispondere”. Il discorso si fa drasticamente più lento e ricorsivo, diventa una rappresentazione retorica di fatica e confusione. Le forme temporali operano in modo conflittuale. C’è un’“inversione di flusso”, una perdita di impulso causale, un affastellarsi di esitazioni e balbettii. Costruiamo un discorso vorticoso, stucchevole fino alla paralisi. Lassù sul ghiaccio sempre più sottile, durante quelle settimane in Groenlandia, ho riconosciuto questo “linguaggio ispessito”. Tante volte mi succedeva di dover fare uno sforzo per evitare che le parole mi si bloccassero in gola. Le parole scritte in inchiostro nero sul mio taccuino sembravano fiacche, incatramate. In quel mondo di ghiaccio tanto inospitale quanto obsoleto, la scrittura perdeva di significato, si riduceva all’inutilità. Spesso è stato più facile non dire niente; o meglio, osservare ma senza cercare di capire. Avevo un bue dell’Antropocene sulla mia lingua olocenica” (pp. 310-311). Avevo un bue dell’Antropocene sulla mia lingua olocenica.

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