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Diario russo 15. Delazione ieri e oggi
Ogni giorno, in queste settimane di guerra, si hanno notizie di casi di delazione: chi è costretto a lasciare il lavoro perché segnalato per una frase o un post, chi si ritrova messo alla gogna dei social con tanto di appello alle forze dell’ordine di intervenire, e si fa strada anche nelle famiglie. Mercoledì scorso alcuni media locali a Mosca pubblicano la storia di Sergej O., trentasettenne di Gorki-10, villaggio d’élite alle porte della capitale, dove Maksim Gor’kij trascorreva le estati negli anni Trenta. Sergej O., si legge, ha denunciato la moglie Julija, ventinovenne ucraina, per aver criticato a più riprese la SVO, la sigla adottata per abbreviare il nome ufficiale della guerra (Special’naja voennaja operacija – operazione militare speciale), perché teme che le critiche possano influenzare il figlio. Mandare la moglie in galera, forse, in quest’ottica è garanzia di un’infanzia felice, chissà.
Spesso si tende a pensare all’istituto della delazione come a una creazione staliniana, sorta negli anni Trenta durante il Terrore, eppure in questo i fin troppo vigili čekisti di quei tempi non sono stati originali, se non nell’adottare il sistema delle quote, secondo cui in ogni regione e repubblica dell’Urss vi doveva essere una percentuale di nemici del popolo. Nel corso sulla legge e l’ordine nella Russia del XVIII secolo dello storico Evgenij Anisimov, specialista dell’età petrina, per il portale Arzamas, vi è una lezione dedicata al fenomeno della denuncia in quel tempo. Dal 1711 in poi vi è la sistematizzazione delle modalità di informare le autorità, tramite lettere consegnate agli emissari dello zar nelle province o presentandosi da un ufficiale che avviava le indagini: spesso e volentieri il delatore veniva condotto a San Pietroburgo, presso la Cancelleria segreta.
Se gli accertamenti confermavano le deposizioni, l’informatore poteva ricevere premi d’ogni genere, e appropriarsi dei beni dell’imputato, una tetra forma di ascensore sociale, ripetutasi poi in altri momenti. E si tratta di una tentazione presente anche in altri contesti, come immortalato da Dostoevskij in I demoni, quando nel capitolo ottavo Piotr Verchovenskij, in una conversazione con Stavrogin, tesse l’elogio del controllo totale attraverso la paura della denuncia: Là ogni membro della società sorveglia l’altro ed è obbligato alla delazione. Ciascuno appartiene a tutti, e tutti appartengono a ciascuno. Tutti sono schiavi, e nella schiavitù sono uguali. Nei casi estremi, c’è la calunnia e l’omicidio, ma l’essenziale è l’uguaglianza. Come prima cosa si abbassa il livello dell’istruzione, delle scienze e degli ingegni.
Un alto livello delle scienze e degli ingegni è accessibile solo alle capacità superiori, ma non occorrono capacità superiori! Gli uomini di capacità superiore si sono sempre impadroniti del potere e sono stati dei despoti. Gli uomini di capacità superiore non possono non essere despoti e hanno sempre pervertito più che non abbiano giovato; essi vengono scacciati o giustiziati. A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si bucano gli occhi, Shakespeare viene lapidato, ecco lo šigalëvismo! Gli schiavi devono essere uguali: senza dispotismo non c’è ancora stata né libertà, né uguaglianza, ma nell’armento ha da esserci l’uguaglianza, ed ecco lo šigalëvismo. Ah-ah-ah! vi sembra strano? Io sono per lo šigalëvismo!
A fomentare la messe di denunce, in varie epoche, è stata anche la minaccia di essere coinvolti per non aver riferito alle autorità, rischiando persino la morte, coltivando allo stesso tempo ambizioni e invidie. Un meccanismo che si ripercuote anche su scelte dettate da intenti non persecutori, come testimoniano le polemiche attorno a una app, lanciata nel 2015 a Mosca, per segnalare le macchine parcheggiate in divieto di sosta: tre anni dopo, vi erano state più di un milione e trecentomila segnalazioni, diventate occasione di scontro in città tra chi vedeva in esse una crescente coscienza civica e chi ne denunciava una specie di stalinismo del parcometro. Due esagerazioni, ovviamente, ma che dicono molto sul lascito di pratiche delatorie nella memoria collettiva.
Ma chi ricorre alla segnalazione all’autorità non lo fa solo per ragioni di mero interesse personale, per vantaggi lavorativi o altri premi: accade anche che si tratti di intima convinzione di star adempiendo al proprio dovere di sentinella morale dei costumi della patria. È successo con Julija Tsvetkova, giovane artista di Komsomolsk-na-Amure, città dell’Estremo oriente russo, impegnata nella difesa dei diritti delle donne e degli LGBT. Nel 2019, su denuncia di Timur Bulatov, uno che si definisce un “jihadista della morale”, la Tsvetkova è stata messa in stato d’accusa e ai domiciliari per aver disegnato corpi femminili nudi, pubblicandoli sulla sua pagina pubblica “Monologhi della vagina” sul social russo Vkontakte.
Per lei è stato l’inizio di quell’inferno di cui Bulatov si ritiene guardiano, tra indagini, persecuzioni, spettacoli e mostre vietate, tentando di distruggerla. Dopo tre anni di processo, il 15 luglio vi è stata l’assoluzione per Julija Tsvetkova, una eccezione in un sistema giudiziario dove il 99,4% (dati del 2020) delle sentenze di primo grado son sempre di condanna, con la possibilità per l’accusa di far appello entro dieci giorni. Una bella notizia, che però non restituirà tre anni di vita passata a lottare per la propria esistenza, e una vicenda che fa riflettere su come in questo caso è difficile sperare in ravvedimenti di sorta da parte del delatore, perché convinto di essere dalla parte giusta, di poter dare il proprio contributo a una causa, e conta poco se a esser maciullati vi siano innocenti, l’importante è il fine.
E questo aspetto psicologico e politico, in tempi di guerra, si diffonde e non trova freni, viene stimolato sin dai primi giorni della cosiddetta operazione speciale (già avevo scritto delle circolari negli atenei), le dichiarazioni di Putin lo legittimano, e le nuove misure adottate per contrastare “l’influenza straniera” permettono di procedere ancor più speditamente nel terrorizzare e nel far tacere chiunque possa voler dire qualcosa.
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