Dress code 3. Rosa Barbie
Colore tradizionalmente associato alla femminilità, il rosa spesso innesca le più ridicole discriminazioni di genere poiché gli vengono attribuite caratteristiche quali grazia e delicatezza, che dovrebbero essere assenti nella mascolinità. Troviamo spesso il rosa nei “modi di dire”, dove assume un valore idiomatico attinente all’ottimismo o, con connotazione negativa, alla superficialità. Pensiamo al “vedere tutto rosa”, al "pink power", o al mantra della fine del XX secolo “Think Pink” con cui si predica il vivere con leggerezza. Per Audrey Hepburn il rosa rappresenta un credo, mentre Oscar Wilde avverte di diffidare dalle donne che dopo i trentacinque anni prediligono i nastri nelle sue tonalità. Insomma, il rosa al contempo divide e unisce, prescrive e descrive un modo di essere.
Stando a Pink di Lizzo (2023), l’inno della tendenza monocromatica Barbiecore, il rosa si abbina a tutto e dona a chiunque perché rende potenti. Probabilmente l’hanno pensato anche le persone che erano con me al cinema a vedere Barbie di Greta Gerwig (2023), tutte vestite di rosa, senza differenze di età e genere, come se ci fossimo accordati. Il rosa Barbie trasmette spensieratezza, è irresistibile, rimanda all’infanzia, al gioco, al senza scadenza e timori. In tale prospettiva ritengo significativo come a ridosso dell’uscita del film anche a Mosca si sia diffuso il Barbiecore, malgrado sia stata vietata la diffusione del titolo nei cinema russi. Il voler vedere il mondo in rosa durante la guerra comunica la necessità di guardare oltre, di desiderare un repentino mutamento di scenario.
A Barbieland – canta ancora Lizzo – ogni giorno ci si sveglia in un tranquillo mondo rosa dove tutte sono cool e agghindate. Il rosa Barbie profuma di caramelle e gomma Big Babol, sa di panna e fragole. Nel metaverso di Barbie le stagioni che si susseguono sono due, primavera e estate, perché le condizioni atmosferiche, così come le tonalità del paesaggio, devono imporre la felicità. Non c’è giorno in cui non si esperisce la vita nella sua pienezza, dove i Ken non presidiano la spiaggia mostrando i loro muscoli guizzanti. La prevalenza del rosa si spiega per l’appunto guardando il colore “attraverso la lente delle stagioni” dominanti come fa Lauren Wager nel secondo volume del fortunato e tradotto in tutto il mondo Palette Perfette (Hoepli 2023). Il rosa di Barbie assume precise “valenze emotive ed espressive” in quanto parte integrante di un’attitudine dello stare al mondo. Seguendo il “codice cromatico stagionale” formulato da Wager, il rosa pastello è primaverile, il metallico festivo, il fucsia neon estivo. Ecco, queste cromie vengono indossate da Barbie in tre momenti diversi della storia, descrivono rispettivamente un climax ascendente composto da quiete, rottura e coscienza di una mancanza, illuminazione. Il problema della Barbie stereotipo ben interpretata da Margot Robbie sta nel languire in un’ingenuità bambinesca che la cristallizza in un loop frivolo finché non prende coscienza dell’esistenza della morte. La Barbie inconsapevole veste rosa pastello, per Wager colore primaverile che annuncia nuovi inizi. L’incontro con la morte avviene durante una serata disco per cui Barbie sceglie una tuta dorata: la tinta metallica celebra una presa di coscienza, festeggia uno sguardo rinnovato. Nel momento in cui Barbie diventa consapevole del proprio turbamento per una vita che esula dal loop reagisce somatizzando la paura e il suo corpo si trasforma: compaiono i primi segni di umanità come i buchini di cellulite (microscopici… ad averceli così), e i piedi “piatti”, nel senso che tutta la pianta poggia sul suolo, non più solo la punta. Barbie comincia a conoscere il dolore fisico e si rende conto che solo i suoi piedi da bambola sono adatti alle calzature con il tacco alto. È uno dei momenti del film che spingono a una totale identificazione con la protagonista – insieme al monologo di America Ferrera – durante il quale il pensiero è volato alla premier Giorgia Meloni e alla sua insofferenza per le décolleté con i tacchi a spillo dopo il vertice Nato tenutosi a Vilnius il 12 luglio 2023. Meloni, per l’ennesima volta, ha fatto notizia unicamente per un dettaglio vestimentario che l’ha costretta a scusarsi con le persone presenti alla conferenza stampa dopo una smorfia di dolore: «È per le scarpe, chiedo scusa. Non mi sono stufata di voi». I tacchi a spillo di Meloni sono dovuti a una serie di regole non scritte, radicate nel senso comune del dover essere una donna potente in una certa cultura. Dalle mie ricerche non risulta alcuna indicazione in galateo e cerimoniale sull’obbligo di indossare in occasioni formali scarpe con i tacchi, anzi, sembra che la loro altezza debba essere limitata ai 5 cm se si partecipa a eventi diurni. Certo, a Meloni non erano consentite le sneakers, però, invece di soffrire sino a stare male, avrebbe potuto considerare ballerine o mocassini, calzature più comode per una giornata impegnativa. La scelta di un genere per un ruolo tematico include anche la direzione da seguire, in questo caso improntata a una visione maschile della moda, dove la donna deve sacrificarsi in nome di una silhouette ideata in base all’estetica non al fare della prassi lavorativa. Insomma, non c’è regola sociale che tenga di fronte a passioni del corpo che provocano tanto disagio. La presenza/assenza di tacco è proporzionale al grado e al tipo di femminilità, tanto che in Barbie la pillola rossa e la pillola blu di Matrix vengono sostituite da una décolleté stile Manolo Blahnik e una classica Birkenstock Arizona per evidenziare il passaggio da bambola a donna senziente. Il Nirvana si raggiunge attraverso sandali piatti e ergonomici.
Man mano che Barbie comprende lo stato delle cose e impara a provare emozioni sino a essere in grado di valutarle culturalmente, il rosa dei suoi vestiti si scurisce e diventa il fucsia della prova glorificante. Nonostante l’iniziale inconsapevolezza, Barbie si dimostra ricettiva, pure se non completamente senziente, perché le competenze necessarie a processare i “patimenti” di varia forma sono anestetizzate dal dover essere felice a tutti i costi. L’incapacità a provare altre emozioni oltre all’allegria risiede nella programmazione di Mattel che le impedisce di conoscere tristezza e vergogna. La natura umana di Barbie si oppone alle passioni culturalmente apprese quando si rende conto di sentirsi fuori luogo per il suo abbigliamento non in linea con lo stile di Venice Beach. A differenza di Barbie, Ken continua a languire nell’ignoranza, soprattutto quando proietta la sua trasformazione nell’abbigliamento, determinata dalle immagini mediali di attori, cantanti, politici e imprenditori fruite una volta arrivato nel mondo reale. L’ottenimento dello statuto di maschio dominante viene conquistato da Ken con alcuni capi-oggetti magici tra cui, procedendo con ordine, il primo look-citazione è il completo western mutuato dal video ufficiale del brano “Permission to dance” (2021) del gruppo coreano BTS. Il Ken di Ryan Gosling indossa lo stesso look del cantante e ballerino dei BTS Jimin, che riceve la chitarra usata nel film sia in forma di omaggio sia per generare ulteriore visibilità contando sulla generosità del fandom ARMY, una pratica ormai diffusa nei contenuti social mediali di Hollywood. Qui Ken strizza l’occhio a una nutrita audience, incarnando un tipo di mascolinità che trascende il classico modello dell’uomo occidentale dai muscoli unti e guizzanti, valorizzando un fascino più delicato. Nel videomessaggio per Jimin, Gosling attribuisce il bel gesto al codice non scritto dei Ken, che predica il dover donare il proprio tesoro più prezioso alla persona da cui si prende ispirazione per lo stile. Il codice vestimentario è anche comportamentale, ma soprattutto diventa consuetudine assodata e radicata. A influenzare lo stile del Ken-patriarca è probabilmente l’uomo che più di tutti ha contribuito a creare l’immagine del macho potente e muscoloso, cioè Sylvester Stallone, l’opposto di Jimin. Tra le immagini che colpiscono la debole immaginazione di Ken compare una foto di Stallone a torso nudo con un lungo cappotto di pelliccia, probabilmente scattata negli anni Ottanta, nel periodo in cui era testimonial del negozio di Vancouver “Pappas Furs”, collaborazione iniziata casualmente durante le riprese di Rambo (1982). La pelliccia fa sentire Ken un vero uomo, capace di governare i suoi simili e procacciarsi il necessario da solo, o, al massimo con l’aiuto dei cavalli, protesi maschile per eccellenza, in forma animale o a quattro ruote. Lo stesso vale per gli orologi, indossati sopra gli indumenti come faceva Gianni Agnelli, tipici segni di status – pensiamo alle “file” per i Rolex – che aiutano Ken a rendersi utile per l’umanità.
La mascolinità del mondo di Barbie e Mattel si estrinseca nei diversi tipi di abbigliamento: completo elegante per la schiera dei potenti, indumenti kitsch per i Ken, ensemble gilet in maglia e camicia per la forza lavoro. La varietà in fatto di look è concessa unicamente alle donne e qui sottolineo il senso di condiscendenza perché a prendere le decisioni restano comunque gli uomini, mandanti e manipolatori del destino di Barbie.
La “mission” di Barbie collima con quella del marchio che la produce, cioè, supportare le nuove generazioni attraverso il gioco, attraverso cui imparare a conoscersi e a ottenere competenze utili all’età adulta. A tale proposito, Roland Barthes in Miti d’oggi spiega che i giocattoli “prefigurano letteralmente l’universo delle funzioni adulte” perché offrono un saggio del poter essere compiendo determinate scelte. La bambina viene “condizionata” al suo futuro ruolo dai vestiti indossati dalle Barbie, che fungono da divisa identificativa, da codice vestimentario di quel posto nel mondo. Barbieland e il sito Mattel sono popolate da Barbie Carriere e Barbie Role model, tra cui spicca la bambola dedicata a Samantha Cristoforetti con indosso la tuta spaziale, ormai sold out. Le sembianze di Cristoforetti possono aiutare le bambine – cito testualmente – a “immaginare di poter essere tutto ciò che desiderano” e “scoprire che possono davvero raggiungere grandi traguardi”. Ogni capo significa un futuro, aiuta a scegliere. Lo stesso vale per Barbie, che nel momento topico della narrazione, invece dell’armatura, indossa un total look Chanel fucsia che figurativizza una netta svolta consapevole dovuta alla saturazione del rosa pallido indossato all’inizio del film. L’abito fucsia è in tweed, tessuto sportivo maschile reso da Coco Chanel elegante e femminile, ragionando nell’ottica della liberazione del corpo e dell’accrescimento del poter fare della donna. Ecco, sebbene Margot Robbie sia legata a Chanel da un contratto di ambassador, gli oggetti di moda della Maison vogliono comunicarsi come simbolo di liberazione e incremento dell’autostima, di pink power. Il potere rosa di Barbie probabilmente continua a essere divisivo in termini di questioni femministe e di genere, ma a mio parere continua a essere un valido esempio di efficienza testuale, inter-genere e inter-status. Una narrazione familiare che, come direbbe Barthes, “introduce a una sinestesia dell’uso”, e a una mimesi cinesica e vestimentaria.
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