Gianfranco Baruchello al MART / Effetto Palomar
L’ambiente è in penombra, le tre proiezioni emanano una luminescenza azzurra. Le inquadrature scorrono a ritmo sincopato: automobili, interni di abitazioni, facce di passanti, bambini, oggetti e apparecchi in uno studio d’artista, edifici, angoli di strade. Sono frammenti veloci, dispersi, enigmatici; la voce maschile che li accompagna ha un’inflessione stranamente monotona, trasognata. Tre lettere a Raymond Roussel (1969), uno dei lavori più suggestivi della grande mostra di Gianfranco Baruchello al Mart di Rovereto (fino al 16 settembre) si presenta come una immersione nell’esperienza onirica, di cui il caleidoscopico montaggio di found footage e riprese d’autore fornisce un magnetico equivalente. Nei tre filmati che compongono il lavoro (Limbosigne, A Little More Paranoid, La Degringolade), Baruchello associa alle immagini la sua voce – registrata al risveglio o nel dormiveglia e ancora impastata dei sogni appena conclusi e della loro inspiegabile, allucinatoria arbitrarietà – sulla base di un meccanismo casuale. Sogno e flusso di coscienza, documento e caso: sotto il segno di Raymond Roussel, l’eretico scrittore francese, grande inventore a inizio Novecento di giochi verbali e narrazioni aleatorie, Baruchello offre un’istantanea della propria vita psichica in cui affiora il ritratto di tutta un’epoca, vitale e inquieta.
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La posizione idiosincratica di Baruchello nel paesaggio dell’arte europea nella seconda metà del Novecento ha solo negli ultimi anni iniziato a ricevere una più metodica attenzione critica, come testimoniato di recente dall’ampio e bel volume monografico dedicato alla produzione di film e video dell’artista (Gianfranco Baruchello. Archive of Moving Images, 1960-2016, a cura di Alessandro Rabottini e Carla Subrizi, Mousse 2017, pp. 576, € 38) e prima ancora dal catalogo Certe idee, pubblicato nel 2012 in occasione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La mostra al Mart – non una tradizionale “retrospettiva” in senso stretto, piuttosto un’ipotesi di lettura e uno scavo stratigrafico all’interno di quell’immenso giacimento che è l’opera di Baruchello – sceglie, sotto l’attenta regia di Gianfranco Maraniello, di partire dal presente, in particolare da un gruppo di nuovi lavori, tra cui l’installazione Le moi fragile (2018), in cui si trovano imprevedibilmente fusi e ricombinati in forma suggestiva uno studio cinematografico e un setting psicoanalitico, per procedere all’indietro, ritrovando via via, sul filo di collegamenti e assonanze, alcuni degli interrogativi che Baruchello ha costantemente formulato nel suo lavoro: che ne è del soggetto, e del soggetto-artista in particolare, del suo spazio di immaginazione e autoinvenzione, nell’epoca della creatività generica, dell’arte di e per la massa? Che posto occupano, che rilevanza hanno, il desiderio, la memoria, l’esperienza individuale nell’eterno presente dei media e del consumo universale?
Le Tre lettere a Raymond Roussel – con cui termina il percorso dell’esposizione e di cui ha parlato anche Tommaso Isabella qui su doppiozero – riassumono in forma sintetica ed eloquente i modi con cui il lavoro dell’artista, nato a Livorno nel 1924, si è misurato con queste domande, protendendosi cioè verso le regioni dell’inconscio e simultaneamente verso il mondo degli oggetti quotidiani e verso la sfera mediale, ovvero quel tessuto connettivo di immagini, parole, comportamenti, che nella società contemporanea danno forma all’esperienza collettiva, ne sono per così dire insieme il basamento e il sintomo. Assemblage, ready-made e montaggio – metodologie moderniste, ormai ampiamente storicizzate, rivolte all’appropriazione diretta del “reale”, o meglio alla creazione di un effetto di reale – definiscono così sin dagli inizi una vicenda creativa che dialoga con le correnti più innovative del proprio tempo, in primo luogo new dada e nouveau réalisme, e con personalità idiosincratiche e congeniali come Öyvind Fahlström (di cui Baruchello è per molti versi un corrispondente segreto), ma guarda simultaneamente all’indietro, con occhio prensile, alla cultura surrealista e alla fondamentale lezione di Marcel Duchamp, individuando una posizione molto personale in cui convivono, come ha scritto Carla Subrizi, movimento dinamico e azione sulle cose, coscienza e reazioni arcaiche, percezione e informazione.
Un’attitudine testimoniata nella mostra a Rovereto anzitutto dalla serie di oltre duecento disegni datati dalla fine degli anni Cinquanta in avanti, in gran parte mai mostrati in precedenza, esposti in grandi teche orizzontali che permettono di coglierne a colpo d'occhio la qualità germinativa e sperimentale. In questo flusso di immagini intime e ininterrotte, un vero e proprio laboratorio in cui, foglio dopo foglio, è possibile scrutare sul nascere le invenzioni di Baruchello, l’affermarsi di una visione fuori dagli schemi, capace di combinare vena umoristica, intelligenza concettuale, con uno sguardo acuto e irriverente sulla realtà circostante, autobiografia poetica ed allusione erotica.
Un assemblage del 1962, La prise de conscience II – presentato nello stesso anno alla storica mostra New Realists alla Sidney Janis Gallery di New York – condensa la visione dell’artista nel momento decisivo del suo ingresso sulla scena internazionale. La “presa di coscienza” del titolo allude alla possibilità di sottrarsi alla saturazione comunicativa – evocata dalla pila di quotidiani irrigiditi dal vinavil posta al centro del lavoro – e di stabilire una diversa relazione, critica, non scettica, col presente, di evadere dalla visione irrigidita, reificata, del tempo e della soggettività divenuta coessenziale alla società di massa. La “coscienza” cui fa riferimento il titolo è dunque anche, in modo ancor più stringente, l’Io cosciente, lo “I” – nel senso del pronome inglese “io” – ridotto a una striscia rossa verticale, letteralmente occupata, riempita dalle copie dei quotidiani, un po’ come i corpi dei decrepiti archeologi di Giorgio de Chirico erano colmati, o invasi, dalle rovine classiche. L’“io”, sembra dire Baruchello, è non solo “un altro” nell’epoca dell’informazione, ma è parlato, agito in permanenza da forze che lo eclissano e lo dissolvono in forme potenti e nuove.
In un altro assemblage, A little more paranoid (1962) – una “cornice” tappezzata di ritagli di giornale che contiene alcuni libri ricoperti di pigmento bianco – il doppio riferimento ai combines di Robert Rauschenberg e gli achromes di Manzoni approfondisce ulteriormente questa dimensione ironica e allegorica: il libro reso illeggibile diventa oggetto che diventa immagine che diventa pensiero, in un concatenamento di calembours visivi. Questo tratto rimarrà sempre caratteristico del lavoro di Baruchello così come di quello del suo coetaneo e ideale compagno di strada Marcel Broodthaers, altro artista essenzialmente solitario che negli stessi anni indaga con spirito pungente e iconoclasta l’ambigua relazione tra linguaggio verbale e sfera visiva, tra stereotipo, invenzione e memoria: e soprattutto, tra il potere dell’istituzione-arte e lo scarto, se mai possibile, prodotto dall’invenzione individuale (di Broodthaers Riccardo Venturi e Serena Carbone hanno scritto su doppiozero rispettivamente qui e qui).
Più tardi, il formato della scatola-oggetto – coi suoi inevitabili riferimenti a Duchamp e a Joseph Cornell – evolverà nella serie dei preziosi, ineffabili “teatrini”, come ad esempio Autonomia della morte all’angolo di via Fiuminata il nove settembre 1974 (1974), piccole ribalte in cui Baruchello, fondendo disegno, assemblage, scrittura e bricolage (ancora qui da paragonare ai lavori tridimensionali di , compone brevi, ellittiche narrazioni sospese tra cronaca e immaginazione, in cui le allusioni al clima politico del tempo si trovano ancora una volta intrecciate a materiali onirici e libere associazioni.
Il bianco, come non-colore, come campo aperto di possibilità visivo-verbali è la base dell’ampia e più nota produzione di Baruchello, i quadri su cui si accumulano a partire dal 1962 disegni, parole, linee, diagrammi. La ridotta dimensione di segni e glifi – “microimmagini”, le definì un critico al tempo – permette la loro dispersione anarchica, non predeterminata sulla superficie, un procedere secondo associazioni libere e impromptus iconici i cui riferimenti più immediati sono la pittura segnica di Cy Twombly e la multiforme produzione di Fahlström – in cui griffonages, cancellature, frammenti di scrittura, collage, compongono una sorta di magmatico e luminoso equivalente dell’ininterrotta, inestricabile pulsazione di processi mentali e moti corporei –, raffreddata e come oggettivata in una cifra nuova e personale, in cui si combinano scrittura, disegno tecnico, fumetto, grafica, linguaggi cioè non pittorici e anzi esplicitamente segnati da un’origine mediale, pop, tecnologica, di massa. In altre parole, risolutamente contemporanea.
Le superfici bianche, mai uniformi, possono così accogliere umori, proiezioni, associazioni inconsce, schegge di quotidianità, dérives dell’immaginazione, fantasmi erotici, visioni grottesche o surreali, sino a comporre una sorta di cosmo senza centro: in un va-e-vieni obbligato, lo spettatore deve avvicinare l’occhio alla superficie per cogliere i dettagli e leggere i testi e allontanarsi per far emergere i percorsi labirintici che li connettono, come accade in mostra ad esempio nel ciclo Nei giardini del dormiveglia (1984). Ma la lettura non è mai conclusiva, ogni tentativo di decifrazione finisce per generare uno scacco e la necessità di reiniziare da capo. La narrazione, come nei più radicali romanzi sperimentali della neoavanguardia, resta, deve restare, indefinitamente aperta.
In un testo del 1963, Baruchello evocava «la violenta trasformazione» necessaria all’artista per entrare in «possesso della dimensione grande angolo, l’effetto Palomar della mente, da 0 a 180 gradi, cioè apertura, dilatazione (occhio mano bocca ventre) e dunque grande apertura ex-plosione» (di questo e altri aspetti Andrea Cortellessa ha scritto qui su doppiozero). La possibilità di questa nuova latitudine cognitiva, insieme corporea e mentale, erotica e politica, per la pratica dell’arte, è ciò che rende possibile in ultimo costruire i «piccoli sistemi» cari a Baruchello, forme sempre perfettibili e mai definitive di adattamento al mondo, di ridefinizione costante dell’umano: sottili, indispensabili, sempre attuali, ipotesi di sopravvivenza.